Quando ci si immerge nel cinema di Aleksandr Sokurov, s’incontra qualcosa di profondamente diverso da quel che siamo abituati a vedere. Nulla di più lontano dal prodotto commerciale, dalla sequenza d’azione che confina la parola nei botta e risposta fra i personaggi, lasciandole spazi esigui per quanto riguarda la sua autentica attitudine al racconto che sul grande schermo, contrariamente a un sentire diffuso, bisognerebbe non fosse né soppiantata né sovvertita dalle immagini, semmai evocata di continuo.
Sokurov si fa maestro di un narrare fuori campo, restituendo alle cose la loro appartenenza epica. Dalle scene promana un’ossessione fantastica, come in sogno, che tuttavia non ci rassicura, anzi così gettati nella corrente sentiamo di non essere affatto al riparo dall’oscura fatalità della storia. Nato nel 1951 in Siberia, vicino a Irkutsk, discepolo di Andrej Tarkovskij che lo ha sostenuto e aiutato anche contro le autorità sovietiche da sempre piuttosto fredde verso il suo lavoro, i simboli e le ritualità della madrepatria russa restano costantemente vitali nella sua opera, nostalgico tributo a un passato ormai concluso e raccolto nei ritratti dei padri. Non è un caso che la funzione liturgica di Francofonia cominci da Tolstoj e Čechov, immobili sul letto di morte, due grandi pilastri dell’anima russa che hanno chiuso gli occhi sul mondo alle soglie del Novecento. Su questa orfanezza da cui nasce l’epoca dell’‘uomo nuovo’, il regista sviluppa un discorso metafisico sul tempo soggettivo e storico, che di quello è condensata e traslata emanazione. Fatta dagli uomini, si può pensare alla storia dopo che è accaduta e i suoi protagonisti per lo più tacciono. Il secolo delle due guerre mondiali inizia dunque per la Russia con la perdita dei suoi grandi. Il popolo, altro attore epico del film, è solo. L’onda delle generazioni dove spiritualità e natura scorrono coi loro corpi smisurati, torna quindi a spazzare il mare dei vivi e inevitabilmente sbatterà su chi ha osato risvegliarla. L’arte soltanto è in grado di accogliere queste forze in una grazia superiore, consegnandole al compito di vegliare sul presente. Morti i custodi di un sapere in cui il popolo si è riconosciuto, trovando risposte alle sue inquietudini, tutto è regredito all’infanzia, dove l’uomo guarda se stesso dalla cima di una montagna, ed è insieme la mano che lo salva e l’orrido che si apre sotto i suoi piedi. Lasciati al loro destino, i bambini diventano crudeli, così ci ammonisce il narratore, così è andata qualche decennio fa.
Prima che cineasta, storico di formazione innamorato della cultura europea, Sokurov assembla un’idea dei corsi e ricorsi che scuotono la vita umana in parte derivandola dal pensiero occidentale, in parte affidandola a quell’immanenza orientale dell’essere inserito in un tutto, che lega la coscienza di sé a più vaste proporzioni cicliche. Forse proprio questa uscita dalla nostra identità per scoprirla ricomposta in un cosmo esterno ed estraneo che pure ci rassomiglia, costituisce per noi l’ineffabile poesia di Sokurov.
Scioltezza immaginifica e sconvolgente atavismo sono i caratteri del suo genio e io credo che l’origine siberiana ne acuisca la portata, come se il radicamento dell’uomo nell’oriente estremo abbia in qualche misura presieduto alla lunga riflessione sull’eterno creativo, opposto, ma pure complementare, al manifestarsi della civiltà. Traccia di un’iniziazione che già mi impressionò nell’esistenza di Kandinsky, partito giovanissimo per quella inesplorata frontiera, centro medianico e covo di sciamani. O semplicemente magnifico territorio di sublimazioni artistiche. Capita ad esempio che una della pagine più belle della letteratura novecentesca sia ambientata in Siberia. Nelle sperdute lontananze della taiga, il protagonista di Fuga senza fine, capolavoro di Joseph Roth, viene raggiunto dalla notizia che la guerra si è conclusa. Ha finito di pranzare nella casetta del suo ospite, il polacco Baranowicz, divenuto cacciatore in quei luoghi, uomo inselvatichito «che nelle nubi riusciva a distinguere la grandine dalla neve e la neve dalla pioggia», e sta rigovernando le sue poche stoviglie. Appena sa, le mani prendono a tremargli e allora si mette a riporre tutto con piccoli lentissimi gesti, per paura di rompere qualcosa o magari perché il mondo non si accorga di quel che prova. Scena di inesauribile poesia. E si potrebbe lo stesso del racconto giovanile L’infanzia di Zenja Ljuvers ambientato da Boris Pasternak nella zona di confine tra Siberia e Cina, dove affiora tutta la grandezza dello scrittore; lì, questa landa desolata cosparsa di cippi e presenze che sembrano fantasmi, incarna la tensione psicologica della vicenda. O ancora, il commovente paganesimo di Michail Prišvin, salutato con gioia da Gorkij e Blok, che nel suo romanzo breve Ginseng, apologo taoista e favola d’amore tra taiga montana e Cina interna, ricorda la delicatezza taumaturgica di Hermann Hesse.
Quale straordinario contributo, insomma, viene alla fantasia umana da simili contrade. Un’atmosfera che nel flusso allucinato e a tratti spiazzante delle immagini di Francofonia emerge in tutta la sua suggestione. E favorisce anche l’ampio grado di spaesamento o estatico godimento nell’incontro di epoche e vissuti che sommergono l’arca della storia, rappresentata attraverso l’intersezione di diversi piani spaziali e temporali. Una nave in mezzo all’oceano in tempesta, le pareti del Louvre, le strade di Parigi occupate dai nazisti nel 1940, cui fanno da contraltare quelle di una Leningrado disperatamente aggrappata alla propria resistenza, e poi ancora la capitale francese, metropoli dell’oggi, raccontata da inquadrature aeree, che si insinuano tra i palazzi del centro con la leggerezza degli ammiratori devoti, e che ci riportano a un’altra bufera altrettanto incombente, il terrorismo. Come i grandi padri russi, corpi nei quali ha bruciato il sacro fuoco dell’arte, esposti all’inizio del film così La zattera della medusa di Géricault diviene il simbolo della sorte degli uomini, annientati e dispersi in ogni fase della loro parabola terrena. A momenti sembra di stare di fronte a una processione di icone. A momenti si resta confusi tra il fraseggio lirico di Sokurov, voce narrante, e il vorticoso rimescolarsi di citazioni, assoli, quadri che ci sfilano sotto gli occhi. Chiusi, aperti. Queste imperscrutabili finestre dell’anima, che la tradizione ritrattista occidentale ha tanto sontuosamente celebrato, e dove ha immortalato se stessa. Dai tori alati babilonesi, manufatti oggetto ai nostri giorni di uno scempio assurdo, all’enigmatico sorriso di Monnalisa, i paradossi della politica e dell’esercizio del potere lambiscono l’uomo che li crea, al pari della propria arte, cui talvolta, soccombe insieme alla bellezza di cui è stato capace. Di una simile fragilità, che tuttavia sfida i più violenti cataclismi spesso pure vincendoli, Sokurov si fa archivista e custode, suscitando in noi quell’impulso a intervenire quando la nave è minacciata, che poi è un’estrema ineludibile volontà d’amore contro la distruzione.
(Di Claudia Ciardi)
Dall’intervista a Aleksandr Sokurov sul «Cinema del silenzio»
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