Una
pisana, una nobildonna o forse solo un’eccentrica con una sbalorditiva
attitudine al racconto, venne ricoverata alle Ville Sbertoli di Pistoia, noto
manicomio cittadino, per un caso di follia ragionante. È codesta affezione una
psicosi paranoide contrassegnata da delirio lucido in cui il patrimonio
intellettivo del paziente si mantiene integro. In pratica la signora aveva la
parlantina sciolta, e per una pulsione che la dominava fin dalla gioventù
inventava di sana pianta delle storie, associando con cinica abilità gli
elementi più improbabili, tanto per vedere l’effetto che facevano. E
completamente assorbita da questa occupazione, tormentava qualsiasi malcapitato
incrociasse la sua strada. Ma presto il passatempo divenne crudele, millantava,
sproloquiava, insomma un’astiosità di fondo volse al peggio i sintomi di un
semplice esaurimento che sulle prime non si pensava sfociasse in complicanze.
Questioni pendenti di eredità e accordi matrimoniali saltati, causa il
pervicace disimpegno degli interessati, aggravarono la signora che quindi
abbracciò il delirio con fatale naturalezza, quasi fosse un amico per
innumerevoli anni atteso sulla panchina di un giardinetto. Presumibilmente lo
stesso del ricovero in cui era alloggiata. E in effetti per il modo in cui il
corteggiatore si era presentato, non poteva dirsi proprio un tipo comune. Fin
dal primo appuntamento quel farfallino per traverso e i capelli arruffati, di
chi non sappia pur con tutte le forze della volontà abbandonarsi al sonno dei
mortali, avrebbe allarmato anche il carattere meno sospettoso di questo mondo.
Ma la signora, no, lo prese sul serio e a differenza degli altri pretendenti si
trovò subito un accordo. Non poté più fare a meno di quei due occhi spiritati,
che riteneva irradiassero su di lei ogni grazia, e anche quel suo gesticolare
nervoso, come di uno che voglia pescar pesci nella nebbia, gli fu caro
quant’altri mai. Nel tipico slancio da donna innamorata, che forse è a sua
volta un piccolo delirio, cui abbandonarsi figura però tra le ragioni migliori
del vivere, se lo prese a modello; non erano trascorse neppure un paio di
settimane dal felice incontro che quella febbre dello sguardo era passata in
lei, e anche i suoi atteggiamenti ora abdicavano alla femminilità per volgersi
a un’insolita, si potrebbe dire perentoria, concitazione. L’indemoniato spense
nella sua dolce metà ogni residua scintilla di un’esistenza normale, e in gran
fretta si celebrò un rito assai più impegnativo, che andava al di là del
riconoscimento terreno sancito dal matrimonio. Del resto, eravamo in presenza
di un’unione di anime. Ma le due entità invece di stare in un nocciolo, come si
è soliti affermare, erano piuttosto l’una dentro l’altra. Il demone occupava
letteralmente il cuore della signora e lo inveleniva pian piano. Credendo lei
essere chiamata alla prova del suo sentimento, si vedeva in obbligo di dare
continue dimostrazioni della propria fedeltà coniugale e, nella fattispecie,
spirituale; pertanto qualsiasi cosa gli suggerisse il malandrino, lo realizzava
con devota alacrità.
I
dispetti si moltiplicarono, non risparmiando nessuno del reparto, neppure quei
pazienti affetti da catatonia acuta con cui dichiarava rapporti amichevoli,
visto che non contraddicevano mai le sue storie. Se ne stavano lì, come seduti
su una nuvola, lo sguardo immobile rivolto alla medesima macchia di umido sulla
parete del refettorio, e lei avrebbe potuto declamare un intero ciclo di poemi
senza che si sollevasse neppure un sopracciglio. Una volta, era di pomeriggio,
fuori pioveva a dirotto e nessuno degli ospiti poteva lasciare la Casa per fare
una passeggiatina all’aperto. Quale favorevole circostanza per dare un pubblico
saggio delle sue doti narrative. Con un salto fulmineo, a dispetto degli anni e
di un robusto accumulo adiposo che le inguainava i fianchi – ma i matti si sa
sono capacissimi di cotali guizzi – saltò su una sedia, attaccando col suo
cavallo di battaglia. Che il padre, uomo di oscuri natali, era stato un grande
viaggiatore e un giorno conobbe la principessa di Beonia, regno del tropico
degli Ossigoti, ed eludendo la guardia di palazzo e l’ottavo senso di un eunuco
che aveva dodici paia di orecchie e altrettante d’occhi, dunque in grado di
discernere quel che accadeva a miglia e miglia di distanza, si trattasse anche
di un brusio fuor di palazzo, sedusse l’infanta. Già al terzo incontro fu
concepita la nostra narratrice, ma siccome durante la gestazione la mamma
ricevette il morso di un aspide tra i più venefici di quell’ignoto continente,
i dotti di corte dissero che per salvarla era necessario asportare il mignolo
del piede del padre. Orrore, costui non era dunque il principe di Bonzo?
Proprio no, piuttosto quel gretto filibustiere di cui tutto si ignorava. E poi,
sommo oltraggio alla corte, con quale inganno si era introdotto nelle segrete
stanze? A rimetterci barba e capelli per primo fu l’eunuco, visto che altro non
gli si poteva chiedere, avendolo già sacrificato da tempo. Considerato che le
cose volgevano al peggio, quella notte il suo valido papà scappò insieme
all’amata. L’eunuco ridotto in ceppi si accorse del piano ma nulla poté. I suoi
rantoli furono attribuiti all’opera del barbiere. Insomma lei era nobile per
diritto d’un mignolo e chi metteva in discussione questa storiella se la
sarebbe vista con quel tale di Bonzo o con l’impostore o chi per loro.
La
signora dal sangue blu e dalla burrascosa fantasia che dentro vi scorreva,
prese fiato. Ma giusto un attimo, non avessero a pensare che le sue deliranti
capacità mostravano segni di guarigione. Avrebbe voluto quindi dedicarsi alla
seconda parte del suo cimento, e tuttavia l’imponderabile che è sempre in
agguato, rivelando un singolare fiuto per il genere delle stramberie, si inserì
nel corso degli eventi. Sarà stato che del temporale non si udiva ormai più
nulla e che i degenti mostravano segni di impazienza, sarà bastata quell’infima
variazione di luce – la cartella clinica della signora parlava chiaramente di
marcata fotosensibilità – o l’accenno di uno sbadiglio, accompagnato da una
rumorosità giunta come eccessiva all’udito ipersensibile di una psicotica,
fatto sta che la fiaba non venne in alcun modo proseguita. L’espressione della
narratrice subì una terribile metamorfosi, livida e affilata come un’arpia si
raccolse tutta in se stessa con l’intento di sferrare chissà quale attacco. La
sua voce, che fino ad allora aveva conservato un’innocua monotonia, piombò
addosso all’imbelle uditorio peggio di un turbine. E quali sconcezze pronunciò.
O se preferite, quali non profferì nelle allucinate battute di quella crisi.
Nessuno fu risparmiato. Né fu l’unico episodio di quel tenore.
Qualcuno
dei catatonici, a essere sinceri, mostrò anche segni di risveglio. Forse quella
foga mai sperimentata prima li disarcionò dal loro torpore. E da un simile
punto di vista, quel delirio si sarebbe dovuto semmai benedire. Ma nulla, le
regole sono regole anche dentro un manicomio. Si decise perciò il ricovero in
isolamento. Qui ebbe inizio l’attività più inquietante della nostra amica.
Il
demonietto che aveva determinato l’oscuro coagulo nella mente della
malcapitata, continuò a lavorare di cesello. Quando si rendeva necessaria una
visita per accertarsi delle condizioni della paziente, la nostra eroina metteva
in campo tutto il suo genio malato per confondere, sviare, turlupinare
l’esaminatore. Aveva un ascendente, lo sapeva bene, e il suo mentore non
perdeva occasione per rammentarglielo. Non si faceva problemi a usarlo nel modo
più miserevole. Con limpide argomentazioni, che non sarebbero sfigurate in
bocca a un principe del foro, si divertiva a evidenziare come ognuna delle frasi
pronunciate dal dottore di turno si prestasse a un’interpretazione ambigua, a
tratti ridicola, e non poggiasse su alcuna base logica. La solidità di quelle
clausole, peraltro indecorosamente approssimate, e qui non mancava neanche di
dare lezioni di stile, non era più solida della follia che le veniva
attribuita. Ribatteva punto per punto, con ostentato rigorismo, finché il
dottore svilito chiedeva l’aiuto di un collega e tutto ricominciava daccapo. Ma
perché restasse una traccia tangibile delle sue ragioni, dopo averci pensato su
diverse nottate, si risolse a infrangere il regolamento. E siccome tutto quello
su cui s’incaponiva lo otteneva senza difficoltà, tanta era l’energia che
impiegava nell’esasperare le sue vittime, eccola di nuovo all’opera. Stavolta
era in gioco quasi il tradimento dello sposo, sebbene per una giusta causa. Con
diverse moine e lamentele, alternate a promesse di non meglio precisati favori
carnali, manipolò un anziano inserviente d’indole abbastanza eccitabile quanto
fedele, il quale mosso a compassione le regalò carta e penna, oggetti
severamente vietati nei casi di esaurimento e psicosi.
Ora
poteva finalmente denunciare l’ingiustizia del mondo, che è la vera follia, il
vero scandalo dei tempi e che senza provvedere a se stesso, tormenta dei
poverini, innocenti al paragone di un’onta così spropositata.
La
storia di F. R. allietò non molto tempo fa un pranzo tra amici in quel di
Pistoia e ricordo benissimo come l’ironia dei miei commensali non mi dette
tregua per un pezzo. A loro dire manifestavo con il caso spudorate affinità.
Prima di tutto l’origine, e la comunanza del luogo di nascita si sa è di per sé
un elemento contaminante. Ciò vale anche per il posto che in un certo periodo
della nostra esistenza ci troviamo a frequentare. Insomma il fatto che per un
lustro o giù di lì mi sia accaduto a intervalli di tempo di aggirarmi per le
vie comunali di Pistoia, ha contribuito a oliare il sospetto. I presenti
avevano bell’e celebrato nel tumulto altrettanto instabile delle loro teste le
nozze spirituali tra me e la povera matta di questa storiella. Restando ai
sacramenti, i luoghi ci avevano in certo modo battezzate, così anch’io
presentavo quei sintomi polemici, biliosi, irriverenti, destinati
all’inevitabile mortificazione della mia femminilità. E questo per regio
decreto del pubblico maschile che, è risaputo, sulle questioni dell’altro
sesso inclina facilmente al radicalismo. Non era neppure un caso che si fosse
venuti a conoscenza del fatto proprio nel corso del nostro pranzo. Che a
qualcuno fosse balenata l’idea di aprire quel tomo di cronache manicomiali, da
tempo immemore abbandonato in un angolo della panca su cui sedevamo, era di per
sé la conferma di una comune ascendenza che aspettava un pretesto per
palesarsi.
Se
sollecitati nella giusta misura, gli uomini riescono a eccitare le loro facoltà
con maggior successo di una chiromante. Anche qui, nulla di nuovo. Perdonate la
divagazione. È che da tempo avrei desiderato anch’io un atto di difesa contro le
accuse di follia che mi son sentita muovere e che ho sentito muovere a tanti,
dimostrando in maniera irrefutabile la perenne infermità della razza umana e la
natura contagiosa dei loro difetti che alcuni pretendono di attribuire ad
altri, essendo invece patrimonio collettivo.
(Di Claudia Ciardi, gennaio 2016)
*Insieme ai precedenti qui pubblicati, Risus abundat!, Guglielmo II e la tenzone dei coboldi, Taboga, questo pezzo fa parte di una galleria di prose di andamento polemista e totemico, un’irregolare riflessione sul vivere, liberamente ispirata ad Einbahnstraße di Walter Benjamin.
Nessun commento:
Posta un commento