Ecco
una lezione appassionante per i ragazzi che unisce poesia e musica. Leggere dei
versi ad alta voce non è infatti quasi cantare? Peraltro la lingua italiana
addita inequivocabilmente la contiguità di questi due mondi. Canto è l’italiano
letterario colto per indicare una composizione poetica. Così come canzone è sia
l’antica forma metrica medioevale – peraltro originariamente musicata – sia la
moderna scrittura alla base della canzone popolare italiana, imprescindibile
dalla melodia che l’accompagna, in cui cioè il testo è comunicato agli
ascoltatori come forma cantata.
La
“canzone”, al pari del sonetto, è una delle pietre angolari fra le strutture
metriche fisse della nostra tradizione poetica in quanto, pur nella
molteplicità della sue forme ed espressioni, è una presenza fissa dalle origini
fino alle rivoluzioni metriche che si insinuano tra Ottocento e Novecento (con
i primi esperimenti in versi liberi). Una sorta di terreno di prova per ogni
poeta che aspirasse ad essere riconosciuto come tale, almeno fino a Carducci e
D’Annunzio. Alla longevità e importanza della canzone ha contribuito anche la
sua natura estremamente prolifica, essendo capostipite di numerosi altri generi
quali l’ode pindarica, la canzone-ode e l’ode-canzonetta, tutte risalenti al
periodo cinquecentesco-rinascimentale, e la canzone libera, che in Italia
seguirà l’esempio magistrale della lirica leopardiana. Giacomo Leopardi volle
infatti consapevolmente farsi innovatore, essendo convinto che anche la poesia,
al pari di qualsiasi altra manifestazione del sapere e dell’arte umana, avesse
necessità di svilupparsi superando gli schemi tradizionali. La grandezza di
Dante non sta forse, oltre che nel suo indubbio talento naturale e nella
vastissima cultura da lui assimilata, nell’aver osato, nell’essersi spinto per
primo al di là di ciò che i canoni del dire poetico avevano stabilito fino a
quel punto? E poi, nel suo caso, il prodigio di aver avuto tra le mani – e nelle
orecchie – una lingua in evoluzione, l’italiano volgare, un magma incredibile
che riuniva latino tardo, greco, provenzale, catalano, persiano… Ma questo ancora
non avrebbe significato nulla. Lui disse, ora io scrivo la mia grande opera e siccome
dev’essere grande bisogna che rompa gli argini, voglio rompere con tutto. E quindi,
non un poema latino né provenzale – le due grandi culle letterarie alle quali il suo tempo faceva riferimento – ma un’epica nuova, in una forma metrica d’invenzione
e nella nostra lingua in divenire, di cui volle esser fabbro come fabbri
erano stati i suoi maestri, ognuno nella propria epoca e per la propria
cultura. In questa scelta, in questa fuga verso il mare aperto, nella volontà
di tentare qualcosa di intentato sta il capolavoro nascente e la grande lezione
che Dante ci ha consegnato.
Dunque,
se ai nostri giorni, lo si diceva all’inizio, la parola ha esteso notevolmente
la sua sfera semantica (unendo la forma poetica alla scrittura musicale), nell’ambito
specifico della metrica italiana “canzone” è un componimento identificabile in
maniera abbastanza chiara e precisa; si tratta infatti di una struttura poetica
composta da un numero variabile di stanze (dalle cinque alle sette) di
endecasillabi e settenari (anche quinari, nella poesia delle origini), cui si
aggiunge un “congedo”, cioè una stanza più breve e dalla funzione
conclusiva. Questo modello, detto “canzone antica” o “canzone petrarchesca”, è
quello più noto ed autorevole, in quanto codificato dalla pratica di Dante
Alighieri (che dedica all’argomento anche alcuni passi del suo De Vulgari
Eloquentia) e quindi dai Rerum vulgarium fragmenta di Francesco
Petrarca, fondanti la tradizione – non solo per la poesia in italiano
volgare – per almeno un paio di secoli.
La cosiddetta stanza di canzone, che potremmo assimilare a un gruppo strofico
in cui si sviluppa il tema prescelto, declinato secondo diverse cadenze, si
può dividere in due piedi (chiamati anche “fronte” e il cui numero varia da due
a sei, salvo che l’ordinamento dei versi si ripeta costante) e una sirma,
composta anch’essa da un numero variabile di versi e per lo più indivisibile
(ma ci sono casi di “sirme” divise in due “volte” speculari) e con alcuni
elementi caratteristici, come un distico finale a rima baciata. Chiude il
congedo, che si modella sullo schema di versi (endecasillabi e settenari) degli
ultimi tre versi della stanza che lo precede, e ha uno schema di rime a sé (come
peraltro capita ad ogni stanza di canzone, che ha rime diverse da quella
precedente).
La
prima stanza di Donne ch’avete intelletto d’amore (canzone di soli
endecasillabi) è il classico esempio di stanza con due piedi e una sirma
indivisibile, con schema di rime ABBC ABBC CDDCEE:
(I piede)
Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
(II piede)
Io dico che pensando il suo valore,
amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente:
(sirma)
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
E
come non ricordare il musico Casella (pistoiese o fiorentino non è dato sapere
con precisione) attivo nella seconda metà del Duecento, di cui lo stesso Dante ci
parla nel Canto II del Purgatorio. Gli antichi commentatori del poema lo
descrivono come un compositore molto apprezzato e grande amico del poeta
fiorentino. Nel codice Vaticano 3214 si trova il suo nome in calce a un
madrigale di Lemmo da Pistoia, altro poeta duecentesco, che recita: Casella
sonum dedit (lo musicò Casella, il che risulterebbe coerente con la scena della
Commedia). Qui infatti si trova fra le anime dei penitenti che scendono
dalla barca dell’angelo nocchiero sulla spiaggia del Purgatorio (II, 76 ss.). Il
musico spiega all’amico poeta, stupito di vederlo lì a tanto tempo dalla sua
morte, che l’angelo raccoglie sulla sua barca chi sceglie lui secondo il volere
divino, ma da tre mesi (dal Giubileo indetto nell’anno 1300) ha fatto salire
tutti coloro che ne hanno fatto richiesta. Quindi Dante prega Casella di
confortarlo dalle fatiche del viaggio e subito il musicista intona Amor che ne la
mente mi ragiona, oggetto di commento nel III Trattato del Convivio. La
dolcezza del canto rapisce tutti gli astanti, ma d’improvviso giunge Catone che
li rimprovera aspramente, accusandoli di pigrizia ed esortandoli a correre al
monte per iniziare a purificarsi.
Si
tratta di un episodio emblematico sul rapporto tra musica e canzone che accompagna
fin dalle origini questo genere letterario, nonché è innegabile il valore
storico della testimonianza circa l’attività dei cosiddetti musici al fianco dei
letterati in epoca medioevale.
E
ora, in questo nostro breve excursus, vediamo cosa accade quando uno dei
grandi cantautori italiani, affacciandosi nell’alveo delle tessiture e rotture
cui abbiamo accennato poco fa a proposito delle dinamiche creative, prende una
canzone e per la precisione una forma metrica derivata, mettiamo una canzonetta della scuola siciliana, la tradizione di
riferimento per tutti i letterati italiani e dunque anche per la nascente
scuola fiorentina, quest’ultima, lo si è detto, con capofila Dante e Petrarca. Mettiamo Meravigliosa-mente di Giacomo (o Jacopo) da Lentini, il notaro dell’imperatore Federico II, e facciamo in modo che s’incontri
con due “Casella” odierni, Lucio Dalla e Samuele Bersani.
Meravigliosa-mente
Meravigliosa-mente
un amor mi distringe,
e mi tene ad ogn’ora.
Com’om, che pone mente
5 in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo,
che ’nfra lo core meo
porto la tua figura.
10 In cor par ch’eo vi porti,
pinta come parete,
e non pare difore.
O Deo, co’ mi par forte
non so se lo sapete,
15 con’ v’amo di bon core;
ch’eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso,
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
20 dipinsi una pintura,
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo ’n quella figura,
e par ch’eo v’aggia davante;
25 come quello che crede
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m’arde una doglia,
com’ om che ten lo foco
30 a lo suo seno ascoso,
e quanto più lo ’nvoglia,
allora arde più loco,
non pò star incluso:
similemente eo ardo,
35 quando pass’e non guardo
a voi, vis’ amoroso.
S’eo guardo, quando passo,
inver’ voi no mi giro,
bella, per risguardare;
40 andando, ad ogni passo
getto un gran sospiro
ca facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c’a pena mi conoscio,
45 tanto bella mi pare.
Assai v’aggio laudato,
madonna, in tutte parti,
di bellezze c’avete.
Non so se v’è contato
50 ch’eo lo faccia per arti,
che voi pur v’ascondete:
sacciatelo per singa
zo ch’eo no dico a linga,
quando voi mi vedite.
55 Canzonetta novella,
va’ canta nuova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d’ogn’amorosa,
60 bionda più c’auro fino:
“Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al Notaro
ch’è nato da Lentino”.
Canzone
Non
so aspettarti più di tanto
ogni minuto mi dà
l’istinto di cucire il tempo
e di portarti di qua
ho un materasso di parole
scritte apposta per te
e ti direi spegni la luce
che il cielo c’è
Non
si vive
(Stare senza di lei)
Mi
uccide
Testa dura testa di rapa
vorrei amarti anche qua
nel cesso di una discoteca
o sopra al tavolo di un bar
o stare nudi in mezzo a un campo
a sentirsi addosso il vento
io non chiedo più di tanto
anche
se muoio son contento
Non si vive
(stare senza di lei)
mi
uccide
Canzone cercala se puoi
dille che non mi perda mai
va’ per le strade e tra la gente
diglielo veramente
Io
i miei occhi dai tuoi occhi
non li staccherei mai
e adesso anzi io me li mangio
tanto tu non lo sai (non lo sai, non lo sai)
occhi di mare senza scogli
il mare sbatte su di me
che ho sempre fatto solo sbagli
ma
uno sbaglio poi cos’è
Non si vive
(stare senza di lei)
mi uccide
Canzone
cercala se puoi
dille che non mi lasci mai
va’ per le strade e tra la gente
diglielo dolcemente
E
come lacrime la pioggia
mi ricorda la sua faccia
io la vedo in ogni goccia
che
mi cade sulla giacca
Non si vive
(stare senza di lei)
mi uccide
Canzone trovala se puoi
dille che l’amo e se lo vuoi
va’ per le strade e tra la gente
diglielo veramente
non può restare indifferente
e se rimane indifferente
non è lei
Non si vive
(stare senza di lei)
mi uccide
Non si vive
(stare senza di lei)
mi
uccide
Come
dicevamo. Spesso la canzone si conclude con una stanza diversa dalle altre,
detta congedo (o commiato), dove il poeta si rivolge alla sua stessa canzone,
invitandola a diffondere il proprio messaggio fra gli ascoltatori e i lettori. Lucio
Dalla (e i musici che lo hanno affiancato in questo esperimento) ha qui padroneggiato perfettamente tali meccanismi – già il titolo da
lui scelto è più che programmatico – e ci ha fatto riaffiorare un pezzo
coltissimo della nostra tradizione poetica in una forma sorprendentemente
vicina, lieve, spontanea.
Quali
magnifici fabbri del parlar materno! A noi non resta che onorarli leggendo e
cantando. Magari aiuta anche a esorcizzare ciò che in questo momento scuote
la vita e ci fa dimenticare di quanto sia preziosa e di quanto noi abbiamo il
compito di celebrarla e adornarla sempre di leggerezza e bellezza.
(Di
Claudia Ciardi)
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