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13 gennaio 2015

Jason Lutes - Berlin. La città di fumo




Seconda parte del romanzo storico a fumetti di Lutes, ambientato nel periodo weimariano. L’autore si concentra sui fatti compresi tra giugno 1929 e settembre 1930. Mentre la crisi economica si acuisce, sale anche la tensione per le strade della città. Torme di disoccupati assediano le fabbriche, gli scontri tra “rossi” e “neri” sono all’ordine del giorno. Imprenditori sul lastrico si tolgono la vita, gente in fila ogni giorno davanti agli sportelli delle banche, i nazisti approfittano del caos per far girare i loro volantini contro i mali del capitalismo. Voci che si alzano, colluttazioni, nervi tesi. 
Due sono gli eventi che si susseguono a breve distanza e attorno a cui si consuma l’ultima parte del dramma tedesco. Il 3 ottobre 1929 muore a Berlino Gustav Stresemann, membro dell’assemblea costituente della repubblica di Weimar, attore fondamentale nella politica di riconciliazione tra Germania e resto d’Europa dopo la prima guerra mondiale. Stresemann seppe rivedere le sue posizioni con lungimiranza, ammettendo il totale fallimento della dottrina di espansione economica e coloniale del proprio paese. Cancelliere dall’agosto al novembre del ’23, annus horribilis dell’inflazione tedesca, fu a capo di una grande coalizione, comprendente anche i socialdemocratici, gettando in poche settimane le basi del risanamento finanziario e del ristabilimento della pace interna: innanzitutto con l’emissione della Rentenmark, quindi rovesciando i governi comunisti in Turingia e Sassonia, e bloccando il Putsch di Hitler a Monaco.
È tuttavia facile comprendere come la Germania navigasse in un fragile equilibrio e le forze contrarie che la trascinavano, lungi dall’essere state neutralizzate, seguitavano a operare in uno stato larvale, nell’attesa del momento propizio per riprendere vigore. Precocemente estromesso dal cancellierato, Stresemann portò avanti nei panni di ministro degli esteri la propria delicata missione di reinserimento del Reich nella comunità internazionale postbellica. In ciò fu infaticabile, non vi è storico che non gliene dia atto, e seppe interpretare alla perfezione il proprio ruolo di mediatore, ricucendo fra l’altro anche il rapporto con la Russia, sfociato nel cosiddetto “patto di Berlino” del ’26, che sanciva la neutralità in caso di aggressione. Insignito del premio Nobel per la pace nello stesso ’26, si tratta di una figura chiave, alla cui scomparsa Lutes dà nel suo lavoro un grande risalto, preoccupandosi di restituirne al lettore anche il contraccolpo emotivo. Lo sconforto dei moderati, e il panico che ne seguì, fanno parte della storia, e l’autore non manca di raccontarceli nel dettaglio. Come ho già avuto modo di dire, questo lavoro è saldamente poggiato su molte buone letture e analisi sociologiche che il narratore-illustratore ha condotto con scrupolo, attingendovi per dare credibilità e profondità ai suoi personaggi.
Ne è prova una sequenza molto interessante che riguarda la concitata riunione di redazione del giornale di Ossietzsky, «Die Weltbühne». Vi sono rappresentati tutti i punti di vista, dai radical chic versati nel socialismo di parole ma che non possono fare a meno di considerare gli operai sporchi e ignoranti, al pacifismo tout court che difende tutti e nessuno, al massimalismo incarnato da Kurt Tucholsky, che cerca di spronare i colleghi a esporsi con maggior coraggio e decisione contro la deriva di estrema destra. Tutto sta per andare a rotoli. L’inquietudine è per così dire il rumore di fondo che accompagna la narrazione di Lutes, fin dalle sue prime battute, e qui la ritroviamo nei contorni di un’ombra ormai lunghissima che occupa la scena. La nevrastenia di Severing ne è forse la manifestazione più rilevante: «Devo accettare che ciò che ha potere lo avrà per sempre? Che noncuranti del malcontento o persino della rivoluzione, gli stessi poteri vivranno sempre del popolo che, raggirato, li nutre? Come le malefiche stufe di non so quale storia dei Grimm, in cui la massa cieca infila i propri cuori ardenti per farseli risputare fuori consumati e neri come il fumo che è la causa della cecità. Ho un disperato bisogno di credere che le cose possano andare diversamente».
Questa frase ci dà anche il senso della metafora che dà il titolo al volume, chiamando in causa quel fumo che è sia il simbolo della fabbrica, quindi della fatica e dello sfruttamento dei lavoratori, sia ciò che annebbia la vista e ottunde le coscienze. 
Non che l’autore voglia far passare a tutti i costi una sua morale, ma qua e là si nota che non riesce a trattenersi dal puntare il dito contro l’indecisione di molti, soprattutto di coloro che controllavano i mezzi di informazione e che ricoprivano incarichi ufficiali, i quali avrebbero potuto far prendere una piega diversa alle cose. La Germania, sembra dirci Lutes, sbandò perché troppi, per indifferenza o viltà, non vollero schierarsi. La società non fu compatta, consegnandosi a una crisi da cui sarebbe uscita solo dopo una nuova guerra e la distruzione totale. In un tale clima il crollo della borsa di New York, avvenuto il 29 ottobre 1929, neppure un mese dopo la morte di Stresemann, divenne un innesco fatale.  
Volendo spendere ancora qualche parola sulla più che pregevole caratterizzazione dei protagonisti, confermo le impressioni che ho avuto alla lettura del primo volume. La storia tra Marthe e Severing pecca di qualche luogo comune di troppo; qui addirittura la separazione tra i due, anziché essere occasione di recupero per sgombrare il campo da forzature un po’ ingenue, apre la strada a una riflessione sull’omosessualità – un po’ per gioco un po’ per consolarsi Marthe inizia una relazione con un’amica conosciuta al corso d’arte – che doppia i toni alquanto superficiali già sperimentati nel rapporto con Severing. È come se a un certo momento si dovesse parlare di relazioni omosessuali, solo perché allora (e ancora) erano un fatto di costume in Germania, trascurando di dare alla cosa una maggiore e più problematica profondità. 
Nella fotografia del sottoproletariato, invece, Lutes scarica tutta l’incisività della sua matita. Mense affollate, prostituzione minorile, accattonaggio, caporalato. Il ritratto di Pavel, il Luftmensch, l’ebreo dell’est che vive rovistando nell’immondizia e rivendendo gli oggetti così recuperati all’antiquario Schwartz, incarnazione dell’ebreo integrato, è a mio avviso uno dei più completi e struggenti dell’intero racconto. Insieme a quello di Silvia, la giovane figlia dell’operaia uccisa per strada, ridotta a fare la vagabonda, aiutata dallo stesso Pavel e poi dagli Schwartz.
In tutto ciò le rappresaglie squadriste sono sempre più frequenti e violente. Le molte tavole disegnate da Lutes al riguardo hanno un indubbio spessore, rendendo con esattezza quella turbolenta atmosfera. Alla contrapposizione tra comunisti e SA (Sturm Abteilungen, squadre d'assalto) il disegnatore riserva una coralità visiva di grande impatto. Da una parte il corteo per i funerali di Horst Wessel, cui è intitolato l’inno del partito nazionalsocialista, dall’altra le celebrazioni per l’anniversario della strage del primo maggio del ’29, quando i poliziotti aprirono il fuoco sui manifestanti. Ognuno agita la sua rivoluzione.
Rifugiato tra i tavoli del Romanisches Café, Severing stigmatizza lo spolvero di retorica e la vacuità dei programmi che accompagnano le elezioni anticipate: «Il mondo di fuori è saturo di diversi tipi di mondi. In occasione delle elezioni anticipate la retorica si è ispessita, come il fumo di un edificio in fiamme trascinato a mezza altezza dal vento. L’aria è consumata dagli slogan scanditi ad alta voce e dalle canzoni che risuonano nei cortili. Il cielo è sorretto da muri di parole».
La vittoria dei nazionalsocialisti è alle porte.

(Di Claudia Ciardi)



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Berlin. Vol. II - Coconino Press - Catalogo

In questo blog: Jason Lutes - Berlin. Vol. I

The Quarterly Conversation - Berlin. City of Smoke


Berlin. City of Smoke - The Night River

2 novembre 2014

Jason Lutes - Berlin. La città delle pietre





L’espressione viene da un
feuilleton di Joseph Roth uscito su «Das Tagebuch» nel 1930. Ma la città di pietra è prima di tutto il titolo di un libro, chiamato in causa da Roth proprio nel suo pezzo, scritto da Werner Hegemann e pubblicato da Gustav Kiepenheuer. Questa premessa, forse un po’ pedante, su chi ha citato per primo chi, serve più che altro a capire quanto Jason Lutes si sia mosso con scrupolosità da filologo nella costruzione delle sue tavole su Weimar. Ciò che gli ha permesso di firmare una storia non solo estremamente articolata ma anche rigorosa dal punto di vista del ritratto sociale e dello scavo psicologico dei personaggi. Siamo di fronte a un vero e proprio romanzo a fumetti, un’opera corale suddivisa in due volumi, narrazione storica di vasto respiro della quale Lutes si fa pioniere e interprete, mantenendo per l’intero racconto una freschezza di tratto e un’attenzione al dettaglio che gli sono valse meritati riconoscimenti in diverse parti del mondo. 
Il periodo è quello tormentato della Repubblica di Weimar alle sue ultime battute (dal settembre 1928 al primo maggio 1929), quando i segnali di cedimento si fanno sempre più scoperti. È la Berlino dei sussulti politici, la metropoli dei grandi assembramenti, dal traffico ai comizi operai, ma anche lo spazio dove si aprono improvvise zone di solitudine, tagli astratti in un organismo pieno zeppo di illusioni.
Un’atmosfera catturata dal continuo andirivieni della matita di Lutes che segue i suoi protagonisti dalla strada al chiuso delle loro stanze, dalla concitazione delle attività cui sono intenti allo straniamento delle ore notturne. E tuttavia proprio la notte si popola di sogni, a volte incubi, di incontri, confessioni, immaginazioni, di finestre aperte su vie deserte lungo i binari, e surreali distese innevate che nessuno calpesta.
Le fonti del disegnatore sono innumerevoli, sia lo si è detto, per quanto riguarda il versante testuale, sia per il complesso bagaglio grafico. Si coglie tra gli altri più di uno spunto dal “diario” berlinese di Masereel, almeno nella rappresentazione per così dire filmica degli scorci metropolitani, e più ancora nel dialogo lirico tra architetture e passanti. In effetti proprio il Mein Stundenbuch dello xilografo espressionista è un’altra citazione importante che Lutes non si lascia sfuggire, quando si sofferma sulla caratterizzazione dell’Accademia d’arte. Marthe Müller è una giovane corsista che ha lasciato Colonia per andare a studiare nella capitale. La sua è una fuga dall’oppressione paterna e dalla scelta obbligata di sposarsi. Sul treno diretto in città incontra Kurt Severing, giornalista per «Die Weltbühne», la testata di Carl von Ossietzky, che sarà poi perseguitato dai nazisti. Severing è un uomo galante ma deluso dalla vita. La sua situazione – una ex dalla quale non ha avuto figli e con cui il rapporto è finito senza un motivo preciso – e la consapevolezza che dietro le crescenti tensioni sociali si prepara qualcosa di fosco, ne fanno una strana mescolanza di cinismo ma anche voglia di ritrovare una complicità che percepisce come essenziale alla sua sopravvivenza. Marthe, delusa a sua volta dalla promessa di successo e emancipazione della grande città, per ragioni più o meno complementari, ne diviene l’amante. Questo binomio, sfondo al denso corteo di fatti e figure che con disinvoltura si dipana dalla penna di Lutes, per un verso funge da contraltare alla complessa vicenda weimariana – il messaggio è che alla fine pur nella difficoltà dei tempi, il sorgere spontaneo di un sentimento è qualcosa si inarrestabile e confortante – dall’altro rischia di peccare di qualche ingenuità proprio nei modi in cui il rapporto si costruisce. Dopo appena una settimana di lavoro ai magazzini Wertheim per provare a cavarsela da sola, Marthe decide che la cosa non fa per lei, casualmente ritrova nella tasca del cappotto il biglietto da visita di Severing, bussa al suo appartamento la notte di Natale, un calice di vino, finiscono a letto, lui provvede subito a pagarle l’affitto arretrato: fin troppo facile. Certi luoghi comuni sarebbe stato meglio lasciali fuori della porta, se non altro perché stridono non poco con le violenze e gli enormi problemi economici disegnati attorno alla coppia. In mezzo vi sono infatti le commemorazioni del 9 novembre 1918, le riunioni dell’Internazionale comunista, il ricordo dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, l’esistenza ghettizzata di operai ridotti alla fame, invalidi di guerra costretti all’accattonaggio, immigrati ebrei che vivono di espedienti e soffrono la discriminazione, pestaggi molto duri tra manifestanti che chiedono lavoro e poliziotti con l’ordine di sfollare. 
Sono i tanti volti di un’emarginazione che Lutes fa affiorare con delicatezza dalle sue pagine, comparse legate a non più di una manciata di tavole, che subito cedono il passo al ritratto di altri, salvo poi essere recuperati insieme, in dialoghi dove la sorte individuale si intreccia sempre e comunque alle istanze sociali. Degni di nota anche certi assoli nei quali i protagonisti sono en face col paesaggio, quasi dei fermi immagine che creano repentini squarci nel vortice degli eventi, lasciando la trama come sospesa.
Ognuna di queste apparizioni è tracciata con accuratezza ed è in buona sintonia con le principali corde su cui balla la storia tedesca del Novecento. Temi a lungo dibattuti che in molti casi presentano nodi ancora da sciogliere. 
La prima parte del racconto si conclude con il corteo della festa dei lavoratori, la carica “a freddo” della polizia che irrompe tra i manifestanti e che, dopo aver seminato il panico, apre il fuoco. Epilogo pendente sulla vicenda già dal suo avvio, per quelle ombre che Severing definisce “presentimenti” e che dal treno non lo mollano fino all’arrivo a Berlino, ma soprattutto per quelle essenze mute e larvali, vaganti da un portone all’altro, da una piazza all’altra, con le loro aspirazioni e il loro carico di incertezze, che improvvisamente si sentono svegliate dalla storia e chiamate a prendervi parte.  

(Di Claudia Ciardi)




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Coconino Press - Catalogo







20 gennaio 2014

Carl von Ossietzky e l’autodafé di Joseph Roth


Erich Heckel, Dead Pierrot, 1914

In occasione delle iniziative legate al ricordo della Shoah, culminanti nella Giornata della Memoria il prossimo 27 gennaio, desidero occuparmi di due scrittori, dalla cui opera si possono trarre interessanti riflessioni sull’attualità.
Il primo è Joseph Roth, al quale abbiamo dedicato già diversi interventi, la seconda Erika Mann, di cui ho avuto il piacere di leggere una raccolta di racconti recentemente pubblicata in Italia.
Perché questa scelta? Il motivo può sembrare fin troppo scontato – i loro scritti sono disseminati di spunti che aiutano a rafforzare il nostro senso critico, mettendoci in guardia dalle tante storture imposte alla realtà. Non vi è epoca immune dall’errore pianificato e dall’agire in difetto, per questo è importante esercitare la nostra attenzione, affinché possiamo riconoscere la presenza di certi sintomi sin dal loro primo palesarsi. Alla fin fine quel che si legge in alcuni graffianti pezzi giornalistici rothiani e nelle caricature che, strette tra ignavia e vigliaccheria, riempiono le pagine della Mann, non è lontano dalle innumerevoli lacerazioni che nel quotidiano rischiano di compromettere la nostra esistenza sociale.
L’articolo di Roth che qui intendo presentare mi ha colpito principalmente per due aspetti. Innanzitutto il vigore con cui fa appello a un’opinione pubblica stordita dalle malefatte del regime hitleriano dà forma a un personalissimo j’accuse, atto di coraggio e profonda onestà intellettuale, voce unica in un coro ammutolito. Poi, c’è che la drammatica vicenda di Carl von Ossietsky, scrittore pacifista deportato in un lager, scopre purtroppo un atteggiamento molto diffuso in base al quale nella considerazione di qualcuno ci si dedica ad aspetti che non contemplano i bisogni reali della sua persona, la sua condizione nella vita di tutti i giorni, ad esempio dove si trova, se è felice, se gode di salute e serenità, insomma se all’interesse che ha dato fiato a qualche pubblico encomio corrisponda una concreta e altrettanto manifesta preoccupazione per la persona umana.
Roth avanza così il dubbio che certe congreghe istituzionali investite del compito di difendere la cultura e lo spirito dell’Occidente, finiscano per avere ben poco di battagliero e si trovino maggiormente a loro agio tra i blandi proclami dettati da una coscienza salottiera. Questo idealismo da poltrona consentirebbe loro di mantenere una distanza comoda e rassicurante dai poveri sfortunati che intendono salvare – ma sul più bello, per loro stessa ammissione, non ci riescono. E spesso è sufficiente un po’ di contrizione, pari al gesto con cui si toglie la polvere da un paio di scarpe, per battere in ritirata.
Mette il dito nella piaga, Roth, e lo fa senza risparmiarsi. Da esule, da funambolo che si aggira tra le macerie dell’Europa a un passo dalla seconda guerra mondiale, apre una breccia per criticare quegli stessi atteggiamenti ottusi e sornioni che, fuori dalla Germania, hanno assecondato e perfino sostenuto l’ascesa di Hitler. Soprattutto non dimentica che Ossietzky, come tanti altri allora e in ogni epoca, è «immerso nella latrina di un campo di concentramento», ed è prima di tutto un uomo, e come uomo, come insieme di corpo e mente che esiste in un momento preciso e irripetibile della storia, bisogna tentare di salvarlo. Se Ossietzsky diviene invece un’astrazione, allora non avrà speranza, perché sarà stato dimenticato dal mondo assai prima della sua morte fisica.

(Di Claudia Ciardi)

Carl von Ossietzky (Amburgo 1889 – Berlino 1938) fu giornalista, scrittore, pacifista. Lavorò per la rivista «Die Weltbühne» e ne divenne coeditore a partire dal 1927. Nel marzo del 1929 un suo collaboratore, Walter Kreiser, scrisse un articolo di denuncia contro il riarmo, per il quale anche Ossietzky venne posto sotto processo nel novembre del 1931. Venne condannato a un anno e mezzo di reclusione e arrestato nel maggio 1932, ma uscì dal carcere sette mesi dopo. Dopo la presa del potere da parte di Hitler, Ossietzky venne nuovamente arrestato il 28 febbraio 1933. Un anno dopo fu incarcerato nel campo di concentramento di Esterwegen (a ovest di Brema). Nel 1935 ricevette il Premio Nobel per la Pace, ma il regime nazista si rifiutò di liberarlo. Ben presto le condizioni di salute di Ossdietzky degenerarono e così fu trasferito in un ospedale di Berlino dove morì il 4 maggio 1938 all’età di 48 anni.

(Dalla nota di Susi Aigner in Joseph Roth, Autodafé dello spirito, Castelvecchi, 2013; il volumetto raccoglie alcuni articoli finora inediti in Italia, firmati da Joseph Roth tra il 1933 e il 1939, anno della scomparsa dello scrittore austriaco. Di seguito riportiamo, nella stessa traduzione della Aigner, l’articolo dedicato a Carl von Ossietzky, uscito su «Das Neue Tagebuch», il 3 luglio 1937)



Kriminalaffäre Nobelpreis – L’affare criminale del Premio Nobel
«La lodevole, la meritevole risoluzione, che il Pen Club ha adottato al suo ultimo convegno per la tragica vicenda Ossietzky, purtroppo prenderà la via di tutte le risoluzioni; la via della dimenticanza.
Prima dell’onorificenza del Premio Nobel, che è stata per così dire assegnata all’astratto Ossietzky, intendo dire, al concetto dello scrittore tedesco martoriato nel Terzo Reich, non però a quello in carne e ossa – e solo Dio sa se è ancora vivo –, dalle risoluzioni ci si poteva aspettare alcuni effetti.
Dopo tale onorificenza una risoluzione non è più sufficiente. Ora potrebbe al massimo essere d’aiuto un provvedimento del Consiglio dei Ministri inglese, non però un provvedimento degli scrittori. E nonostante si possa presumere con una certa sicurezza che un Consiglio dei Ministri europeo in questa rassegna mondiale si occuperà eventualmente più di un padiglione che di un uomo immerso nella latrina di un campo di concentramento tedesco, sarebbe stato ovvio dovere del Comitato per il premio Nobel interessare alla causa del suo Premio Nobel alcuni «potenti di questa Terra» e non lasciare la preoccupazione, per la vita di Ossietzky e per l’Onore del Comitato ai più impotenti di questa Terra, vale a dire agli scrittori. Io ammiro i miei colleghi, perché hanno la capacità di attenersi ostinatamente a metodi che si sono rivelati per cento volte inefficaci, ridicoli e spesso addirittura dannosi. Il ministro e scrittore Goebbels legge le risoluzioni con lo stesso piacere che provammo noi leggendo il «Simplicissimus».
Non si può dire che per Ossietzky canti solo un gallo. Al contrario: tutti i galli cantano per lui. In quanto a metodi infruttuosi però, gli scrittori non vengono superati neanche dalla buon’anima della socialdemocrazia. Un appello urgente al mondo attraverso la radio sarebbe stato più efficace, anche se questo mondo probabilmente avrebbe spento l’apparecchio già dopo le prime frasi. Un appello urgente al Presidente degli Stati Uniti avrebbe, almeno per un paio di giorni, fatto tendere l’orecchio a questo «mondo» sordo. Ma la «risoluzione» di un congresso che in verità – siamo onesti! – è una conventicola, una protesta sub rosa, chi la vuol conoscere? Ha il Pen Club fatto anche il minimo sforzo perché i suoi discorsi, diretti a un ampio pubblico, venissero trasmessi via radio? Ed è stato fatto anche un solo tentativo di illuminare la fitta oscurità diffusa attorno al Premio Nobel assegnato a Ossietzky?
Perché regna l’oscurità attorno al Premio Nobel a Ossietzky. È stupefacente che ci si interroghi così raramente o per niente sui seguenti fatti: 1. Come si è espresso Ossietzky – veramente – al riguardo? Con chi? 2. Chi ha ricevuto i soldi: lo Stato o la moglie di Ossietzky e, se nessuno dei due, chi li amministra? 3. Il Comitato per il Premio Nobel ha intrapreso dei passi presso il governo del Terzo Reich: a) per avere notizie chiare sullo stato di salute del Premio Nobel? Quando? Dove? Chi ha risposto? Come è stata la risposta? b) se Ossietzky è malato, un rappresentante del Comitato ha parlato col suo medico, ha richiesto anche solo un resoconto scritto da parte del medico?
Qua occorre un criminologo, non una risoluzione. È un caso criminale. Si è mai verificato che venisse conferita un’onorificenza e chi assegna il premio non si preoccupasse di sapere se il premiato fosse malato o venisse torturato o fosse diventato pazzo? In guerra era usanza conferire un’onorificenza postuma a soldati coraggiosi caduti. Veniva comunicato nell’ordine di servizio che l’insignito era caduto. Quanto onesto e pulito appare il comportamento di un comandante, che doveva distribuire premi di guerra. E quanto patetico risulta, invece, un areopago etico che distribuisce premi per la Pace. Se non è un caso criminale, allora è una brutta, sanguinosa commedia. Ci si può immaginare uno scambio epistolare di questo tipo tra il Comitato per il Premio Nobel e il Terzo Reich:
Richiesta a Sua Eccellenza, Signor Ministro-Megafono Caino presso Berlino: «A Sua Eccellenza ci permettiamo di chiedere gentilmente, perché il Suo pacifico fratello Abele, che abbiamo appena premiato, non viene a ritirare il suo premio. Distinti saluti…».
Risposta: «In risposta alla Sua Le comunico che considero il conferimento di un premio per la Pace al mio cosiddetto fratello Abele un’ingerenza nelle questioni di uno Stato estero. Il Signor Abele è impossibilitato a ritirare premi per motivi di salute. Ogni notizia gioiosa potrebbe ucciderlo! Heil! Caino».
Telegramma del Comitato: «Grazie per l’informazione! Siamo decisi a non danneggiare oltre Abele».
Ma, se già il Comitato fallisce, cosa fanno i colleghi di Ossietzky, intendo i più intimi? I Premi Nobel? Si confronti ancora una volta il cameratismo tra soldati con la solidarietà dei cosiddetti «intellettuali»: Ammettiamo che il tenente X e il tenente Y debbano essere onorati a una parata, un certo giorno, per un merito comune. Per motivi inspiegabili manca il tenente Y. In dieci casi su cento il tenente X non seguirà la disciplina militare e chiederà conto della misteriosa assenza del suo camerata. In cinquanta casi su cento il tenente X obbedirà alla disciplina militare, ma non riposerà finché non avrà scoperto dove è il suo camerata. E cosa fecero i Premi Nobel che avevano la fortuna di appartenere a Paesi civilizzati? Si misero un frac, fecero un discorso, non ricordarono neanche una parola l’assente e andarono con i premi in banca per investirli in azioni il più possibile sicure: i premi sono impegnativi…

Solo un altro passo avanti e il famoso scrittore Schicklgruber [ironia che rimanda a Hitler in quanto Schicklgruber era il cognome di sua nonna] sarà candidato per il Premio Nobel per la Pace. Il suo stato di salute non lascia a desiderare. Potrà senz’altro andare in Svezia».




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La quarta Italia [Das vierte Italien], cura e traduzione di Susi Aigner, Castelvecchi, 2013
Recensione di Claudia Ciardi:

«I reportages di Joseph Roth sull’Italia fascista, tenuti per conto del quotidiano «Frankfurter Zeitung», furono all’origine della clamorosa rottura con l’editore tedesco. Gli articoli ‘italiani’ risalgono all’autunno del ’28 e costituiscono un cammeo ironico e mordace dei tic che attanagliavano la penisola ai tempi della dittatura».

In questo blog:
Woher und wohin – Ebraismo e Wanderung
A proposito del libro di Claudia Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est.
Con testi di Heine, Lessing, Zweig, Döblin, Roth,
Mondadori, 1998

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