Erich Heckel, Dead Pierrot, 1914
In occasione delle iniziative legate al ricordo della Shoah, culminanti nella Giornata della Memoria il prossimo 27 gennaio, desidero occuparmi di due scrittori, dalla cui opera si possono trarre interessanti riflessioni sull’attualità.
Il primo è Joseph Roth, al quale abbiamo dedicato già diversi interventi, la seconda Erika Mann, di cui ho avuto il piacere di leggere una raccolta di racconti recentemente pubblicata in Italia.
Perché questa scelta? Il motivo può sembrare fin troppo scontato – i loro scritti sono disseminati di spunti che aiutano a rafforzare il nostro senso critico, mettendoci in guardia dalle tante storture imposte alla realtà. Non vi è epoca immune dall’errore pianificato e dall’agire in difetto, per questo è importante esercitare la nostra attenzione, affinché possiamo riconoscere la presenza di certi sintomi sin dal loro primo palesarsi. Alla fin fine quel che si legge in alcuni graffianti pezzi giornalistici rothiani e nelle caricature che, strette tra ignavia e vigliaccheria, riempiono le pagine della Mann, non è lontano dalle innumerevoli lacerazioni che nel quotidiano rischiano di compromettere la nostra esistenza sociale.
L’articolo di Roth che qui intendo presentare mi ha colpito principalmente per due aspetti. Innanzitutto il vigore con cui fa appello a un’opinione pubblica stordita dalle malefatte del regime hitleriano dà forma a un personalissimo j’accuse, atto di coraggio e profonda onestà intellettuale, voce unica in un coro ammutolito. Poi, c’è che la drammatica vicenda di Carl von Ossietsky, scrittore pacifista deportato in un lager, scopre purtroppo un atteggiamento molto diffuso in base al quale nella considerazione di qualcuno ci si dedica ad aspetti che non contemplano i bisogni reali della sua persona, la sua condizione nella vita di tutti i giorni, ad esempio dove si trova, se è felice, se gode di salute e serenità, insomma se all’interesse che ha dato fiato a qualche pubblico encomio corrisponda una concreta e altrettanto manifesta preoccupazione per la persona umana.
Roth avanza così il dubbio che certe congreghe istituzionali investite del compito di difendere la cultura e lo spirito dell’Occidente, finiscano per avere ben poco di battagliero e si trovino maggiormente a loro agio tra i blandi proclami dettati da una coscienza salottiera. Questo idealismo da poltrona consentirebbe loro di mantenere una distanza comoda e rassicurante dai poveri sfortunati che intendono salvare – ma sul più bello, per loro stessa ammissione, non ci riescono. E spesso è sufficiente un po’ di contrizione, pari al gesto con cui si toglie la polvere da un paio di scarpe, per battere in ritirata.
Mette il dito nella piaga, Roth, e lo fa senza risparmiarsi. Da esule, da funambolo che si aggira tra le macerie dell’Europa a un passo dalla seconda guerra mondiale, apre una breccia per criticare quegli stessi atteggiamenti ottusi e sornioni che, fuori dalla Germania, hanno assecondato e perfino sostenuto l’ascesa di Hitler. Soprattutto non dimentica che Ossietzky, come tanti altri allora e in ogni epoca, è «immerso nella latrina di un campo di concentramento», ed è prima di tutto un uomo, e come uomo, come insieme di corpo e mente che esiste in un momento preciso e irripetibile della storia, bisogna tentare di salvarlo. Se Ossietzsky diviene invece un’astrazione, allora non avrà speranza, perché sarà stato dimenticato dal mondo assai prima della sua morte fisica.
(Di Claudia Ciardi)
Carl von Ossietzky (Amburgo 1889 – Berlino 1938) fu giornalista, scrittore, pacifista. Lavorò per la rivista «Die Weltbühne» e ne divenne coeditore a partire dal 1927. Nel marzo del 1929 un suo collaboratore, Walter Kreiser, scrisse un articolo di denuncia contro il riarmo, per il quale anche Ossietzky venne posto sotto processo nel novembre del 1931. Venne condannato a un anno e mezzo di reclusione e arrestato nel maggio 1932, ma uscì dal carcere sette mesi dopo. Dopo la presa del potere da parte di Hitler, Ossietzky venne nuovamente arrestato il 28 febbraio 1933. Un anno dopo fu incarcerato nel campo di concentramento di Esterwegen (a ovest di Brema). Nel 1935 ricevette il Premio Nobel per la Pace, ma il regime nazista si rifiutò di liberarlo. Ben presto le condizioni di salute di Ossdietzky degenerarono e così fu trasferito in un ospedale di Berlino dove morì il 4 maggio 1938 all’età di 48 anni.
(Dalla nota di Susi Aigner in Joseph Roth, Autodafé dello spirito, Castelvecchi, 2013; il volumetto raccoglie alcuni articoli finora inediti in Italia, firmati da Joseph Roth tra il 1933 e il 1939, anno della scomparsa dello scrittore austriaco. Di seguito riportiamo, nella stessa traduzione della Aigner, l’articolo dedicato a Carl von Ossietzky, uscito su «Das Neue Tagebuch», il 3 luglio 1937)
Kriminalaffäre Nobelpreis – L’affare criminale del Premio Nobel«La lodevole, la meritevole risoluzione, che il Pen Club ha adottato al suo ultimo convegno per la tragica vicenda Ossietzky, purtroppo prenderà la via di tutte le risoluzioni; la via della dimenticanza.
Prima dell’onorificenza del Premio Nobel, che è stata per così dire assegnata all’astratto Ossietzky, intendo dire, al concetto dello scrittore tedesco martoriato nel Terzo Reich, non però a quello in carne e ossa – e solo Dio sa se è ancora vivo –, dalle risoluzioni ci si poteva aspettare alcuni effetti.
Dopo tale onorificenza una risoluzione non è più sufficiente. Ora potrebbe al massimo essere d’aiuto un provvedimento del Consiglio dei Ministri inglese, non però un provvedimento degli scrittori. E nonostante si possa presumere con una certa sicurezza che un Consiglio dei Ministri europeo in questa rassegna mondiale si occuperà eventualmente più di un padiglione che di un uomo immerso nella latrina di un campo di concentramento tedesco, sarebbe stato ovvio dovere del Comitato per il premio Nobel interessare alla causa del suo Premio Nobel alcuni «potenti di questa Terra» e non lasciare la preoccupazione, per la vita di Ossietzky e per l’Onore del Comitato ai più impotenti di questa Terra, vale a dire agli scrittori. Io ammiro i miei colleghi, perché hanno la capacità di attenersi ostinatamente a metodi che si sono rivelati per cento volte inefficaci, ridicoli e spesso addirittura dannosi. Il ministro e scrittore Goebbels legge le risoluzioni con lo stesso piacere che provammo noi leggendo il «Simplicissimus».
Non si può dire che per Ossietzky canti solo un gallo. Al contrario: tutti i galli cantano per lui. In quanto a metodi infruttuosi però, gli scrittori non vengono superati neanche dalla buon’anima della socialdemocrazia. Un appello urgente al mondo attraverso la radio sarebbe stato più efficace, anche se questo mondo probabilmente avrebbe spento l’apparecchio già dopo le prime frasi. Un appello urgente al Presidente degli Stati Uniti avrebbe, almeno per un paio di giorni, fatto tendere l’orecchio a questo «mondo» sordo. Ma la «risoluzione» di un congresso che in verità – siamo onesti! – è una conventicola, una protesta sub rosa, chi la vuol conoscere? Ha il Pen Club fatto anche il minimo sforzo perché i suoi discorsi, diretti a un ampio pubblico, venissero trasmessi via radio? Ed è stato fatto anche un solo tentativo di illuminare la fitta oscurità diffusa attorno al Premio Nobel assegnato a Ossietzky?
Perché regna l’oscurità attorno al Premio Nobel a Ossietzky. È stupefacente che ci si interroghi così raramente o per niente sui seguenti fatti: 1. Come si è espresso Ossietzky – veramente – al riguardo? Con chi? 2. Chi ha ricevuto i soldi: lo Stato o la moglie di Ossietzky e, se nessuno dei due, chi li amministra? 3. Il Comitato per il Premio Nobel ha intrapreso dei passi presso il governo del Terzo Reich: a) per avere notizie chiare sullo stato di salute del Premio Nobel? Quando? Dove? Chi ha risposto? Come è stata la risposta? b) se Ossietzky è malato, un rappresentante del Comitato ha parlato col suo medico, ha richiesto anche solo un resoconto scritto da parte del medico?
Qua occorre un criminologo, non una risoluzione. È un caso criminale. Si è mai verificato che venisse conferita un’onorificenza e chi assegna il premio non si preoccupasse di sapere se il premiato fosse malato o venisse torturato o fosse diventato pazzo? In guerra era usanza conferire un’onorificenza postuma a soldati coraggiosi caduti. Veniva comunicato nell’ordine di servizio che l’insignito era caduto. Quanto onesto e pulito appare il comportamento di un comandante, che doveva distribuire premi di guerra. E quanto patetico risulta, invece, un areopago etico che distribuisce premi per la Pace. Se non è un caso criminale, allora è una brutta, sanguinosa commedia. Ci si può immaginare uno scambio epistolare di questo tipo tra il Comitato per il Premio Nobel e il Terzo Reich:
Richiesta a Sua Eccellenza, Signor Ministro-Megafono Caino presso Berlino: «A Sua Eccellenza ci permettiamo di chiedere gentilmente, perché il Suo pacifico fratello Abele, che abbiamo appena premiato, non viene a ritirare il suo premio. Distinti saluti…».
Risposta: «In risposta alla Sua Le comunico che considero il conferimento di un premio per la Pace al mio cosiddetto fratello Abele un’ingerenza nelle questioni di uno Stato estero. Il Signor Abele è impossibilitato a ritirare premi per motivi di salute. Ogni notizia gioiosa potrebbe ucciderlo! Heil! Caino».
Telegramma del Comitato: «Grazie per l’informazione! Siamo decisi a non danneggiare oltre Abele».
Ma, se già il Comitato fallisce, cosa fanno i colleghi di Ossietzky, intendo i più intimi? I Premi Nobel? Si confronti ancora una volta il cameratismo tra soldati con la solidarietà dei cosiddetti «intellettuali»: Ammettiamo che il tenente X e il tenente Y debbano essere onorati a una parata, un certo giorno, per un merito comune. Per motivi inspiegabili manca il tenente Y. In dieci casi su cento il tenente X non seguirà la disciplina militare e chiederà conto della misteriosa assenza del suo camerata. In cinquanta casi su cento il tenente X obbedirà alla disciplina militare, ma non riposerà finché non avrà scoperto dove è il suo camerata. E cosa fecero i Premi Nobel che avevano la fortuna di appartenere a Paesi civilizzati? Si misero un frac, fecero un discorso, non ricordarono neanche una parola l’assente e andarono con i premi in banca per investirli in azioni il più possibile sicure: i premi sono impegnativi…
Solo un altro passo avanti e il famoso scrittore Schicklgruber [ironia che rimanda a Hitler in quanto Schicklgruber era il cognome di sua nonna] sarà candidato per il Premio Nobel per la Pace. Il suo stato di salute non lascia a desiderare. Potrà senz’altro andare in Svezia».
Related links:
La quarta Italia [Das vierte Italien], cura e traduzione di Susi Aigner, Castelvecchi, 2013
Recensione di Claudia Ciardi:
«I reportages di Joseph Roth sull’Italia fascista, tenuti per conto del quotidiano «Frankfurter Zeitung», furono all’origine della clamorosa rottura con l’editore tedesco. Gli articoli ‘italiani’ risalgono all’autunno del ’28 e costituiscono un cammeo ironico e mordace dei tic che attanagliavano la penisola ai tempi della dittatura».
In questo blog:
Woher und wohin – Ebraismo e Wanderung
A proposito del libro di Claudia Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est.
Con testi di Heine, Lessing, Zweig, Döblin, Roth,
Mondadori, 1998
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