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27 febbraio 2016

Tempo e memoria



Salvador Dalì - La persistenza della memoria, 1931 - Museum of Modern Art, New York


Attiene all’immaginario umano una dualità plasticamente rappresentata da una biforcazione di strade, che è pungolo di ricerca, alimentando il dubbio e spronando colui che lì è approdato a compiere delle scelte destinate al suo progresso – il che non significa successo ma semplicemente conoscenza. Al bivio si arriva dunque sotto la sferza della curiosità e del dubbio, e lo si supera con un gesto volitivo che però di quella essenza dubitante non smette di nutrirsi, neppure quando il ricordo del luogo che abbiamo attraversato e della spalle voltate a quel che sorgeva al suo fianco, si è fatto distante.
I due poli attorno a cui si orienta l’intera esistenza umana, amore e morte, danno prova di questa alternanza geografica. Secondo la religiosità greca di ascendenza orfica, di cui tanta parte è filtrata nella nostra cultura, una volta giunti nell’aldilà si incontreranno due fonti: la prima, quella dell’oblio, disseterà solo in apparenza, facendo dimenticare tutto e rinascere in un nuovo corpo chi le si avvicina. Più avanti invece è la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne, la memoria, che assicurerà un posto tra gli immortali. 
Nei poemi cavallereschi tutto questo si fissa in un’immagine diversa ma anche simile, la fonte dell’amore e del disamore, da cui un uomo e una donna che si desiderano finiscono sciaguratamente per bere all’unisono, così che la vicenda del loro tormento non può conoscere requie. L’amore, massima espressione di conoscenza, si consegna a una fuga irresoluta, celebra il trionfo dell’umana natura dubitante. Il principio è pure il medesimo, il disamore comprendendo l’oblio dei sensi. L’amore invece implicando un livello di comprensione dell’altro, necessariamente gettando le sue fondamenta nella favolosa terra dei ricordi, è il miglior sodale della memoria. 

Commemorare è il verbo deputato alla sintesi della memoria collettiva e, quindi, alla sua espressione nella ritualità pubblica. Etimologicamente derivante dal latino “cum memor” (memore, colui che ricorda insieme), la stessa successione sillabica, per chi come me ama la musicalità a scapito dell’ortodossia, potrebbe suggerire l’associazione con “moror” (attardarsi, fermarsi, dimorare). Indicando qualcosa che indugia, che si trattiene da qualche parte nella nostra percezione.  
Internet si colloca all’interno di una rivoluzione copernicana, fulcro sovvertitore dei tempi lunghi necessari alla conoscenza e a una mediazione-meditazione di quella conoscenza nel ricordo. Siamo assoggettati a una strana tirannide, il cui compito è distogliere la volontà da qualsiasi autentico atto creativo, compreso il ragionamento su noi stessi, che è per così dire la madre di tutte le muse. Senza immersione in questa sostanza primordiale, senza tornare alla fonte ci si rassegna a conoscere per sommi capi o per vie surrettizie. Molti richiami a essere qualcosa ma scarsa attitudine a immedesimarsi veramente in qualcosa, a viverlo come fossimo di quella sostanza.
Per dirla con Shelley «Quello che ci manca è la facoltà creativa di immaginare ciò che conosciamo; ci manca l’impulso generoso che attualizza quanto immaginiamo; quello che ci manca è la poesia della vita».
Se è giusto rivendicare l'aver acquisito una mole sterminata di notizie grazie al lavoro tecnico di tanti studiosi, altrettanto purtroppo è andato perso, stando alla manifestazione concreta di rinsaldare il collante delle nostre identità. E qui ci viene in aiuto la voce di un altro poeta: «Uno ha dentro di sé la propria origine come la propria morte […] è inutile cercare di essere diversi se non passando per la propria più assoluta identità». Senza questa acquisizione fondamentale, che Piero Bigongiari si impegna a disvelarci come oscillante e dolorosa, non saremo mai compresi in noi stessi ma neanche negli altri. Non è esagerato ammettere che la coesione sociale arretra anche a causa della labilità con cui ormai sono sentiti tali legami.

C’è un passo di Marc Augé che amo molto. Lo studioso francese si riferisce a Émile Durkheim: «Le cerimonie civili non gli apparivano differenti per natura dalle cerimonie propriamente religiose. Ma queste cerimonie sono sempre per Durkheim cerimonie del ricordo, feste della memoria collettiva».
Se prendiamo le commemorazioni della nostra Resistenza, vediamo che dal dopoguerra a oggi il numero dei partecipanti si è molto ridotto. E per ciò che riguarda il dibattito storico, la riflessione su questo capitolo non è minimamente paragonabile alla cultura di memoria sviluppata ad esempio in Germania dal secondo dopoguerra in avanti. Mentre notevole attenzione è dedicata alla riscoperta della letteratura della guerra aerea, come nell’opera di W.G. Sebald, dove acquistano rilievo le testimonianze dei sopravvissuti ai bombardamenti, alle memorie della Shoah (Ruth Klüger), al dibattito sulla Stasi e alla letteratura germanofona dell’immigrazione, la Resistenza italiana è stata finora destinataria di un interesse molto minore. All’inizio del 2009 si è istituita una commissione di storici tedesco-italiana col compito di occuparsi del comune passato di guerra. 
Un articolato intervento di Michael Braun, appoggiandosi alle tesi dello storico ed egittologo Jan Assmann, autore del celebre saggio Memoria culturale, e di Theodor W. Adorno, tocca proprio tali aspetti ed è un validissimo strumento per capire cosa ne è stato negli ultimi cinquant’anni della elaborazione memoriale tedesca, applicabile in senso lato ai popoli europei usciti dal secondo conflitto mondiale: «La trasformazione incisiva della memoria culturale appare soprattutto nel fatto che il concetto normativo e censorio del “superamento” e della “elaborazione del passato” (Theodor W. Adorno) fa posto a una riflessione critica e a una narrazione pluralistica della storia […]».
Eppure, nonostante il largo respiro di questa ricognizione tra i diversi strati di memorie nel Novecento, sotto i colpi di un presente che si impone per velocità e autarchia pare essersi allontanata da noi la consapevolezza del passato. Farebbe meno scalpore se oggetto di questo oblio fossero eventi lontani nel tempo – i tumulti del senato romano, le nebulose vicende imperiali, le lotte tra comuni e signorie, la guerra dei trent’anni. Conosciamo magari la sostanza di questi fatti ma non vi associamo nessun particolare sentimento. Sono cose su cui l’occhio del tempo si è impietosamente richiuso, consegnandole al gelo dell’abbandono. Certa letteratura che sviluppa in forma di romanzo alcune vicende del passato, riesce a imporsi al gusto di non  pochi appassionati. Ma siamo di fronte a prodotti di consumo, mezzi d’evasione che nulla hanno a che vedere con la ritualità della storia pensata come parte fondante del sé cui si riferiva Augé attraverso l’analisi di Durkheim. 

La “cultura di memoria”, dunque, contrapposta alla fatuità dei social network, simbolo e sintomo di una fruizione di quel che dovrebbe interessarci e raccontare di noi, confinata alla superficie degli eventi. Lo abbiamo ascoltato spesso dalle parole di Umberto Eco, parole tornate a interrogarci nei giorni della sua scomparsa che peraltro ha trovato in rete, com’è ovvio, molti suoi canali di diffusione.
Per invertire la tendenza, ammesso che lo si voglia, io credo sia necessario un grande lavoro di autoanalisi, magari accompagnato da semplici regole pratiche. A noi spetta evitare di stare connessi per buona parte della giornata e quindi farci trovare costantemente reperibili. Oppure temiamo che l'uscita dalla rete, sebbene solo attraverso una sospensione della nostra presenza, comporti una sorta di ostracismo culturale? 
Un episodio personale mi fornisce un ottimo spunto. Dopo circa sette anni, ho scelto di non aggiornare più facebook con la frequenza di prima. I motivi sono molteplici e vanno dalla noia, al fatto che col passare del tempo cambia anche il modo di rapportarsi a certi mezzi (sarebbe bene, almeno, cambiasse) fino al senso di insicurezza trasmesso dalla gestione del social (manca un vero e proprio centro di assistenza, ci sono casi di violazione delle identità registrate, virus di sistema ecc…). Mi riferisco a questa esperienza perché a livello antropologico e filosofico riveste secondo me un interesse di qualche rilievo. Alcuni dei miei contatti, destinatari in ogni caso di una minore assiduità rispetto a quella che di solito riserviamo alle cerchie più intime dei nostri conoscenti, per un certo periodo mi hanno inviato messaggi allarmati. La mia irreperibilità era forse il frutto di qualche dramma? Stavo bene o celavo dei misteriosi problemi? Insomma, chi stacca da facebook celebra a sua insaputa una specie di funerale di se stesso. L’identità virtuale gli si è ormai a tal punto appiccata addosso da dettar legge a quella reale.
È chiaro che la cosa fa sorridere ma spinge pure, una volta di più, a ragionare. Che stiamo facendo di noi «animali sociali» ora fatalmente sempre più virtuali?

Nel bellissimo saggio di Myriam Revault d’Allones, La crisi senza fine, si legge, tra numerose altre, un’affermazione illuminante: «Il tempo non si dinamizza più in una forza storica, non è più il motore di una storia da fare, di un compito politico da assolvere. Dopo il crollo della fede in un avvenire teleologicamente orientato al meglio, è divenuto un tempo senza promesse. Lo schema oggi predominante è quello di un futuro inimmaginabile e indeterminato. Questo nuovo modo di “essere nel tempo” tocca sia lo sguardo della società sul proprio avvenire collettivo votato all’incertezza, sia le rappresentazioni degli individui sull’orientamento (altrettanto incerto) della loro esistenza».
È, credo, questo svuotamento del tempo a spingere verso un’apparente ma anche sostanziale vacuità, si passi l’ossimoro, del fare e del pensarci.

(Di Claudia Ciardi)


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P. B. Shelley - In difesa della poesia




20 gennaio 2014

Carl von Ossietzky e l’autodafé di Joseph Roth


Erich Heckel, Dead Pierrot, 1914

In occasione delle iniziative legate al ricordo della Shoah, culminanti nella Giornata della Memoria il prossimo 27 gennaio, desidero occuparmi di due scrittori, dalla cui opera si possono trarre interessanti riflessioni sull’attualità.
Il primo è Joseph Roth, al quale abbiamo dedicato già diversi interventi, la seconda Erika Mann, di cui ho avuto il piacere di leggere una raccolta di racconti recentemente pubblicata in Italia.
Perché questa scelta? Il motivo può sembrare fin troppo scontato – i loro scritti sono disseminati di spunti che aiutano a rafforzare il nostro senso critico, mettendoci in guardia dalle tante storture imposte alla realtà. Non vi è epoca immune dall’errore pianificato e dall’agire in difetto, per questo è importante esercitare la nostra attenzione, affinché possiamo riconoscere la presenza di certi sintomi sin dal loro primo palesarsi. Alla fin fine quel che si legge in alcuni graffianti pezzi giornalistici rothiani e nelle caricature che, strette tra ignavia e vigliaccheria, riempiono le pagine della Mann, non è lontano dalle innumerevoli lacerazioni che nel quotidiano rischiano di compromettere la nostra esistenza sociale.
L’articolo di Roth che qui intendo presentare mi ha colpito principalmente per due aspetti. Innanzitutto il vigore con cui fa appello a un’opinione pubblica stordita dalle malefatte del regime hitleriano dà forma a un personalissimo j’accuse, atto di coraggio e profonda onestà intellettuale, voce unica in un coro ammutolito. Poi, c’è che la drammatica vicenda di Carl von Ossietsky, scrittore pacifista deportato in un lager, scopre purtroppo un atteggiamento molto diffuso in base al quale nella considerazione di qualcuno ci si dedica ad aspetti che non contemplano i bisogni reali della sua persona, la sua condizione nella vita di tutti i giorni, ad esempio dove si trova, se è felice, se gode di salute e serenità, insomma se all’interesse che ha dato fiato a qualche pubblico encomio corrisponda una concreta e altrettanto manifesta preoccupazione per la persona umana.
Roth avanza così il dubbio che certe congreghe istituzionali investite del compito di difendere la cultura e lo spirito dell’Occidente, finiscano per avere ben poco di battagliero e si trovino maggiormente a loro agio tra i blandi proclami dettati da una coscienza salottiera. Questo idealismo da poltrona consentirebbe loro di mantenere una distanza comoda e rassicurante dai poveri sfortunati che intendono salvare – ma sul più bello, per loro stessa ammissione, non ci riescono. E spesso è sufficiente un po’ di contrizione, pari al gesto con cui si toglie la polvere da un paio di scarpe, per battere in ritirata.
Mette il dito nella piaga, Roth, e lo fa senza risparmiarsi. Da esule, da funambolo che si aggira tra le macerie dell’Europa a un passo dalla seconda guerra mondiale, apre una breccia per criticare quegli stessi atteggiamenti ottusi e sornioni che, fuori dalla Germania, hanno assecondato e perfino sostenuto l’ascesa di Hitler. Soprattutto non dimentica che Ossietzky, come tanti altri allora e in ogni epoca, è «immerso nella latrina di un campo di concentramento», ed è prima di tutto un uomo, e come uomo, come insieme di corpo e mente che esiste in un momento preciso e irripetibile della storia, bisogna tentare di salvarlo. Se Ossietzsky diviene invece un’astrazione, allora non avrà speranza, perché sarà stato dimenticato dal mondo assai prima della sua morte fisica.

(Di Claudia Ciardi)

Carl von Ossietzky (Amburgo 1889 – Berlino 1938) fu giornalista, scrittore, pacifista. Lavorò per la rivista «Die Weltbühne» e ne divenne coeditore a partire dal 1927. Nel marzo del 1929 un suo collaboratore, Walter Kreiser, scrisse un articolo di denuncia contro il riarmo, per il quale anche Ossietzky venne posto sotto processo nel novembre del 1931. Venne condannato a un anno e mezzo di reclusione e arrestato nel maggio 1932, ma uscì dal carcere sette mesi dopo. Dopo la presa del potere da parte di Hitler, Ossietzky venne nuovamente arrestato il 28 febbraio 1933. Un anno dopo fu incarcerato nel campo di concentramento di Esterwegen (a ovest di Brema). Nel 1935 ricevette il Premio Nobel per la Pace, ma il regime nazista si rifiutò di liberarlo. Ben presto le condizioni di salute di Ossdietzky degenerarono e così fu trasferito in un ospedale di Berlino dove morì il 4 maggio 1938 all’età di 48 anni.

(Dalla nota di Susi Aigner in Joseph Roth, Autodafé dello spirito, Castelvecchi, 2013; il volumetto raccoglie alcuni articoli finora inediti in Italia, firmati da Joseph Roth tra il 1933 e il 1939, anno della scomparsa dello scrittore austriaco. Di seguito riportiamo, nella stessa traduzione della Aigner, l’articolo dedicato a Carl von Ossietzky, uscito su «Das Neue Tagebuch», il 3 luglio 1937)



Kriminalaffäre Nobelpreis – L’affare criminale del Premio Nobel
«La lodevole, la meritevole risoluzione, che il Pen Club ha adottato al suo ultimo convegno per la tragica vicenda Ossietzky, purtroppo prenderà la via di tutte le risoluzioni; la via della dimenticanza.
Prima dell’onorificenza del Premio Nobel, che è stata per così dire assegnata all’astratto Ossietzky, intendo dire, al concetto dello scrittore tedesco martoriato nel Terzo Reich, non però a quello in carne e ossa – e solo Dio sa se è ancora vivo –, dalle risoluzioni ci si poteva aspettare alcuni effetti.
Dopo tale onorificenza una risoluzione non è più sufficiente. Ora potrebbe al massimo essere d’aiuto un provvedimento del Consiglio dei Ministri inglese, non però un provvedimento degli scrittori. E nonostante si possa presumere con una certa sicurezza che un Consiglio dei Ministri europeo in questa rassegna mondiale si occuperà eventualmente più di un padiglione che di un uomo immerso nella latrina di un campo di concentramento tedesco, sarebbe stato ovvio dovere del Comitato per il premio Nobel interessare alla causa del suo Premio Nobel alcuni «potenti di questa Terra» e non lasciare la preoccupazione, per la vita di Ossietzky e per l’Onore del Comitato ai più impotenti di questa Terra, vale a dire agli scrittori. Io ammiro i miei colleghi, perché hanno la capacità di attenersi ostinatamente a metodi che si sono rivelati per cento volte inefficaci, ridicoli e spesso addirittura dannosi. Il ministro e scrittore Goebbels legge le risoluzioni con lo stesso piacere che provammo noi leggendo il «Simplicissimus».
Non si può dire che per Ossietzky canti solo un gallo. Al contrario: tutti i galli cantano per lui. In quanto a metodi infruttuosi però, gli scrittori non vengono superati neanche dalla buon’anima della socialdemocrazia. Un appello urgente al mondo attraverso la radio sarebbe stato più efficace, anche se questo mondo probabilmente avrebbe spento l’apparecchio già dopo le prime frasi. Un appello urgente al Presidente degli Stati Uniti avrebbe, almeno per un paio di giorni, fatto tendere l’orecchio a questo «mondo» sordo. Ma la «risoluzione» di un congresso che in verità – siamo onesti! – è una conventicola, una protesta sub rosa, chi la vuol conoscere? Ha il Pen Club fatto anche il minimo sforzo perché i suoi discorsi, diretti a un ampio pubblico, venissero trasmessi via radio? Ed è stato fatto anche un solo tentativo di illuminare la fitta oscurità diffusa attorno al Premio Nobel assegnato a Ossietzky?
Perché regna l’oscurità attorno al Premio Nobel a Ossietzky. È stupefacente che ci si interroghi così raramente o per niente sui seguenti fatti: 1. Come si è espresso Ossietzky – veramente – al riguardo? Con chi? 2. Chi ha ricevuto i soldi: lo Stato o la moglie di Ossietzky e, se nessuno dei due, chi li amministra? 3. Il Comitato per il Premio Nobel ha intrapreso dei passi presso il governo del Terzo Reich: a) per avere notizie chiare sullo stato di salute del Premio Nobel? Quando? Dove? Chi ha risposto? Come è stata la risposta? b) se Ossietzky è malato, un rappresentante del Comitato ha parlato col suo medico, ha richiesto anche solo un resoconto scritto da parte del medico?
Qua occorre un criminologo, non una risoluzione. È un caso criminale. Si è mai verificato che venisse conferita un’onorificenza e chi assegna il premio non si preoccupasse di sapere se il premiato fosse malato o venisse torturato o fosse diventato pazzo? In guerra era usanza conferire un’onorificenza postuma a soldati coraggiosi caduti. Veniva comunicato nell’ordine di servizio che l’insignito era caduto. Quanto onesto e pulito appare il comportamento di un comandante, che doveva distribuire premi di guerra. E quanto patetico risulta, invece, un areopago etico che distribuisce premi per la Pace. Se non è un caso criminale, allora è una brutta, sanguinosa commedia. Ci si può immaginare uno scambio epistolare di questo tipo tra il Comitato per il Premio Nobel e il Terzo Reich:
Richiesta a Sua Eccellenza, Signor Ministro-Megafono Caino presso Berlino: «A Sua Eccellenza ci permettiamo di chiedere gentilmente, perché il Suo pacifico fratello Abele, che abbiamo appena premiato, non viene a ritirare il suo premio. Distinti saluti…».
Risposta: «In risposta alla Sua Le comunico che considero il conferimento di un premio per la Pace al mio cosiddetto fratello Abele un’ingerenza nelle questioni di uno Stato estero. Il Signor Abele è impossibilitato a ritirare premi per motivi di salute. Ogni notizia gioiosa potrebbe ucciderlo! Heil! Caino».
Telegramma del Comitato: «Grazie per l’informazione! Siamo decisi a non danneggiare oltre Abele».
Ma, se già il Comitato fallisce, cosa fanno i colleghi di Ossietzky, intendo i più intimi? I Premi Nobel? Si confronti ancora una volta il cameratismo tra soldati con la solidarietà dei cosiddetti «intellettuali»: Ammettiamo che il tenente X e il tenente Y debbano essere onorati a una parata, un certo giorno, per un merito comune. Per motivi inspiegabili manca il tenente Y. In dieci casi su cento il tenente X non seguirà la disciplina militare e chiederà conto della misteriosa assenza del suo camerata. In cinquanta casi su cento il tenente X obbedirà alla disciplina militare, ma non riposerà finché non avrà scoperto dove è il suo camerata. E cosa fecero i Premi Nobel che avevano la fortuna di appartenere a Paesi civilizzati? Si misero un frac, fecero un discorso, non ricordarono neanche una parola l’assente e andarono con i premi in banca per investirli in azioni il più possibile sicure: i premi sono impegnativi…

Solo un altro passo avanti e il famoso scrittore Schicklgruber [ironia che rimanda a Hitler in quanto Schicklgruber era il cognome di sua nonna] sarà candidato per il Premio Nobel per la Pace. Il suo stato di salute non lascia a desiderare. Potrà senz’altro andare in Svezia».




Related links:

La quarta Italia [Das vierte Italien], cura e traduzione di Susi Aigner, Castelvecchi, 2013
Recensione di Claudia Ciardi:

«I reportages di Joseph Roth sull’Italia fascista, tenuti per conto del quotidiano «Frankfurter Zeitung», furono all’origine della clamorosa rottura con l’editore tedesco. Gli articoli ‘italiani’ risalgono all’autunno del ’28 e costituiscono un cammeo ironico e mordace dei tic che attanagliavano la penisola ai tempi della dittatura».

In questo blog:
Woher und wohin – Ebraismo e Wanderung
A proposito del libro di Claudia Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est.
Con testi di Heine, Lessing, Zweig, Döblin, Roth,
Mondadori, 1998

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