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30 marzo 2019

Ricostruzioni


Si è da poco conclusa alla Triennale di Milano una rassegna importante dedicata ad approfondire un tema oggetto di molte attenzioni, quello dei disastri provocati da eventi naturali (alluvioni, terremoti, incendi) o dalla guerra. Dinamiche territoriali esplorate percorrendo il doppio binario della progettualità, di un’architettura che sappia recuperare e ripristinare i codici identitari dei luoghi colpiti, e degli orientamenti sociali che simili contesti esigono. La necessaria riappropriazione di uno spazio che non è solo fisicamente dato ma ancor più definito dalla rete relazionale che nel tempo lì si è espressa e radicata, determina lunghe, non di rado complesse, vicende contrattuali per un possibile ripensamento del tornare a vivere laddove la quotidianità ha subito una brusca interruzione.
Riflettendo sulla natura delle rovine e quella delle macerie, dalle più poetiche e soffuse letture piranesiane agli squarci aperti dalle violenze novecentesche, l’itinerario della mostra si è proposto d’indagare come queste definizioni siano mutate durante gli ultimi tre secoli, fino a sovrapporsi nel brutale sterminio delle recenti escalation mediorientali. La Siria, dove Palmira diviene simbolo di questa assurda furia devastatrice che ha sabotato il racconto dell’antico attraverso i resti greci e romani, trasformando le passate rovine in un campo di macerie, è al centro di tale scenario sovvertito, atomizzato, inedito. Salta la griglia concettuale di Marc Augé che individua nelle rovine la testimonianza di un tempo distante, pacificato, nel quale il rumore della storia si percepisce come lontano, privo della forza sconvolgente dei fatti nel loro accadere. Qui le rovine finiscono fagocitate dalla guerra perenne, alimentando nuove macerie. Queste “Ricostruzioni” allestite alla Triennale hanno rappresentato dunque un’indagine ad ampio raggio che, soffermandosi sui drammatici eventi del Novecento, si è concentrata soprattutto sulla sequenza sismica che ha stremato il centro-sud della penisola, dall’Abruzzo del 2009 fino alle Marche del 2016. Crisi, sradicamenti, memorie, che sono state oggetto anche delle giornate di Paraloup nel settembre 2017, sui temi dell’abbandono e di un ritorno possibile ai luoghi della montagna colpiti dal fenomeno dell’emigrazione di massa. E poi discussi ancora al grande convegno internazionale Un paese ci vuole, al Pau di Reggio Calabria, nel novembre 2018. Letture, introspezioni di ambienti, collettività, persone che hanno ispirato pure il lavoro documentaristico di Cecilia Fasciani, Io prometto, opera che ha inteso dar voce a chi non si rassegna e, nelle forme di una caparbia resilienza, che è un atto d’amore profondo per le proprie origini e il territorio, prova a restare. Son solo tre di tante iniziative – mostre fotografiche, dibattiti, incontri con i comitati del cosiddetto cratere sismico – che di recente hanno acceso l’attenzione su un argomento di assoluto rilievo, non solo perché coinvolge un’area molto estesa dell’Italia, ma in quanto incide in profondità nel confronto su nuove forme di sviluppo sostenibile, sulle strategie da attuare per la ripresa delle economie locali, e in generale sul configurarsi di una ricostruzione che ha bisogno di essere negoziata in ogni sua fase, di essere condivisa e di conservare il legame con ciò che significava vivere certi spazi prima degli eventi che hanno costretto la popolazione ad allontanarsi.
Conflitti, catastrofi di ieri e di oggi per medesime o simili umane aspettative. Dal sisma di Messina alla Grande Guerra, due circostanze ravvicinate che segnano l’inizio del secolo e mettono in campo le prime strategie di recupero dei luoghi colpiti. Tecniche e indirizzi che saranno messi alla prova su scala più ampia e capillare dopo la seconda guerra mondiale. Impressionanti i pannelli montati nelle sale del Palazzo dell’Arte con l’elenco dei danni al patrimonio culturale italiano, le riproduzioni dei monumenti colpiti, le cifre della distruzione, stime rese note a ridosso dello scempio già nel censimento alleato del Works of Art in Italy. Di notevole impatto anche il resoconto delle rovine tedesche quantificate in metri cubi; sono i numeri da capogiro determinati dalla strategia dell’area bombing, i bombardamenti a tappeto dell’aviazione inglese e statunitense, su cui lo scrittore W. G. Sebald ha scritto un saggio lucido e molto coinvolgente. 
Nell’annientamento di vite e cose, il dopoguerra ha anche rappresentato un nuovo inizio, alimentando una discussione molto articolata sul come ricostruire, confluita in un’ampia gamma di riviste che hanno trovato numerosi canali di diffusione fin dai mesi immediatamente successivi alla liberazione. Non solo la cura per gli aspetti materiali ma anche la valorizzazione degli elementi culturali e identitari. Le alluvioni del Polesine, del Vajont, le devastazioni del Belice, del Friuli, dell’Irpinia, dell’Abruzzo sono stati altrettanti banchi di prova per la messa a punto di modelli di recupero più o meno funzionali. Dalla toccante foto del “cimitero” della cattedrale di Venzone, ricostruita pietra su pietra, alle criticità delle new town abruzzesi. Se ad oggi il centro dell’Aquila è riconosciuto come il più grande intervento di restauro al mondo, il progetto dei villaggi provvisori attorno alla città – così come dopo in Emilia la ricostruzione di edifici rurali in assenza di linee guida o di una contestuale e acquisita maniera d’intervento – ha creato forme di periferizzazione stabili del territorio che ne condizioneranno inevitabilmente gli sviluppi futuri.
Un’intera sezione è stata dedicata ai materiali a stampa – opuscoli, fogli tradotti in inglese, cataloghi, rassegne fotografiche – di cui stupisce la quantità e l’originalità prodotti negli anni dalle e per le zone terremotate, con l’intento di registrare altri movimenti tellurici in quei luoghi. I moti delle aggregazioni umane, delle difficoltà ma pure del riscatto, di un prima e di un dopo che vengono necessariamente a fronteggiarsi in ogni esistenza. Di estrema intensità il lavoro fotografico coordinato da Spazio Lavìl, associazione culturale di Bologna, a firma di Fabio Mantovani e Giovanni Zaffagnini che hanno documentato l’abbandono di una casa del maceratese, abitata per oltre un secolo e rimasta vuota di colpo. Poesia del silenzio, racconto di una perdita “dal di dentro”, immagini in penombra evocatrici della vita che è stata. Anche così si riesce a dire qualcosa, anche così, posando  lo sguardo sulle tracce di un’intimità dissolta, è possibile ragionare sul perché, il dove e come ricostruire.      

(Di Claudia Ciardi)


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Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra.










Venzone - La cattedrale









Le Marche - Mantovani/Zaffagnini



Le Marche - Mantovani/Zaffagnini


18 ottobre 2018

Marc Augé - Saper toccare


Un discorso sulla definizione sensoriale, antropologica e filosofica del tatto nella cultura umana. Questo breve saggio di Marc Augé, impegnato negli ultimi trent’anni a esplorare dinamiche e derive della globalizzazione in rapporto alle relazioni fra individui, riflette su alcuni dei temi che più hanno orientato la sua attività di studioso. La fisicità respingente dei nonluoghi, dove nulla o quasi viene trattenuto o trasmesso delle vite di coloro che quotidianamente li attraversano, il paradosso della frequentazione di massa di spazi condivisi senza acquisirne alcuna esperienza collettiva, l’uso di tecnologie che se da una parte facilitano la comunicazione, rendendola praticamente istantanea, dall’altra rischiano di inibire il confronto con la realtà. Su tali argomenti Augé si è esercitato a lungo, firmando contributi che hanno innovato in modo sostanziale il dibattito all’interno delle discipline sociali. Se l’essere umano ricava la misura della propria esistenza dal relazionarsi con l’altro, dandosi contemporaneamente come un insieme di “singolare-plurale”, nel momento in cui il contesto dov’è inserito lo obbliga a un’esperienza frettolosa e straniante dei suoi simili, un’esperienza che nega ogni passaggio dialettico al comporsi di una pluralità come fondamento necessario al senso sociale, è chiaro che ad entrare in crisi sia pure il suo autodeterminarsi come singolo attore e partecipe di quella stessa società. L’uomo, in quanto entità duale, avvertendo in sé questa scissione si ritrova in bilico su una frattura alienante e, senza vie d’uscita apparenti, è consegnato alla solitudine.
Il ragionamento sul toccare l’altro, dunque, s’inserisce nella constatazione che i rapporti tra le persone si stanno indirizzando all’estraneità piuttosto che alla ricerca di indispensabili punti di contatto. Un atto, il toccare, che attiene a due sfere. Quella intellettuale, ossia l’aspirazione che ha ogni artista di muovere attraverso l’opera chi vi posa lo sguardo o legge o ascolta. E quella strettamente fisica, quando attraverso un gesto s’intende comunicare col corpo di qualcuno. Gesto che nel tempo è stato investito di qualità sacrali e perfino magiche; pensiamo all’imposizione delle mani dei re taumaturghi oggetto del celebre studio di Marc Bloch. È questo infatti un ambito che dal corpo rimanda all’emotività e viceversa. Toccare qualcuno implica varcare una frontiera che sta tra noi e la personalità di chi abbiamo davanti. Augé parla anche di una sorta di possessione mistica inversa, rifacendosi alle vite dei santi. Se tali racconti sono tutti incentrati sulla sublimazione fisica – che cos’è l’estasi se non un’altissima manifestazione d’amore, un sentire, anche nelle sue pose erotiche, dove il contatto è solo, seppur vividamente, evocato? Se quindi l’ascesi spirituale si percepisce in un’elevazione continua del corpo che tende al divino, pure la carnalità non è affatto occultata. Quando San Tommaso affonda il dito nella piaga del Cristo – Augé si riferisce qui alla famosa tela di Caravaggio – lo fa perché ha bisogno di trovare conferma all’esperienza della fede e del trapasso nell’unico modo possibile: toccarne le ferite. E a tale proposito pensiamo ancora alle crude immagini del martirio dei santi, alla centralità che la tortura dei corpi riveste nelle narrazioni agiografiche, dove la superiorità spirituale prende forza dal resistere al dolore.
La funzione tattile è anche depositaria di una peculiare capacità di memoria, forse tra le più sviluppate nei sensi umani. Ad esempio curare un corpo, da una semplice fasciatura a un’operazione chirurgica, alleviarne le sofferenze, implica una memorizzazione durevole di quei gesti, tanto che saremmo in grado di ripeterli anche a distanza di anni. Ma non solo. Ci fa ricordare dettagliatamente dei modi e delle situazioni in cui siamo entrati in contatto con l’altro, che in una cosa essenziale com’è il prestargli delle cure si colloca fra le più elevate esperienze di empatia e scambio. Il tatto educa all’altro, fa uscire quella parte di umanità generica che è in noi, mettendola a disposizione del collettivo. Rompe l’isolamento, crea conoscenza. E sì, è vero, come dice Augé l’educazione salverà il mondo e, aggiungo io, anche la condivisione.

(Di Claudia Ciardi)   


Edizione consultata:

Marc Augé, Saper toccare, a cura di Francesca Nodaro, 
Mimesis, Collana Chicchidoro, 2017


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5 marzo 2018

Marc Augé - Un etnologo nel metrò





Marc Augé, classe 1935, antropologo francese autore di libri fortunati nei quali ha indagato il senso dello spazio e della memoria, come il celebre «Rovine e macerie» edito in Italia da Bollati Boringhieri, con «Un etnologo nel metrò», breve ma densa monografia, ci accompagna in un affascinante viaggio lungo le linee della metropolitana di Parigi.
Quello che potrebbe sembrare un insolito terreno di esplorazione, incoerente all’apparenza col mondo di superficie, si rivela un luogo di richiami e sedimentazioni, caratterizzato invece da una straordinaria capacità ricettiva. E viceversa, giacché il sottosuolo, divenendo fulcro delle abitudini in base a cui si articola la vita in metropoli, contamina largamente quel che accade qualche metro sopra. La sintonia che qui è possibile cogliere con i livelli più profondi del sé, permette di analizzare la struttura del corpo sociale, fino a tracciarne riti e itinerari riconducibili a una vera e propria era geologica che ha visto la piena affermazione della metropoli e dei suoi ritmi.
Il metrò diviene dunque una macchina del tempo in grado di mettere in contatto zone d’ombra, o più semplicemente lembi sopiti della nostra interiorità, con la storia sociale cui apparteniamo o crediamo di appartenere. I nomi delle fermate che in rapida successione si offrono allo sguardo del viaggiatore dal buio della galleria, racchiudono cosmogonie d’inaspettata ricchezza, attraverso cui risalgono matasse di memorie, delle quali non tutto, e non sempre, si indirizza alla nostra comprensione. La mappa della metropolitana descrive una geografia che solo in piccola parte è indicativa di un tragitto; i vagoni funzionano come un vero e proprio dispositivo a mezzo del quale la storia dei singoli s’incontra con le narrazioni che alimentano l’identità urbana.
«Basta, a volte, il caso di un itinerario (di un nome, di una sensazione) perché il viaggiatore distratto scopra all’improvviso che la sua geologia interiore e la geografia sotterranea della capitale hanno punti di contatto: scoperta folgorante di una coincidenza in grado di provocare nelle nicchie sedimentarie della sua memoria piccoli sismi intimi».
Questa discesa nei diversi livelli di coscienza della storia individuale e collettiva, costituisce un osservatorio privilegiato delle tante collisioni che animano la contemporaneità di cui i passeggeri sono sia spettatori che fabbri. Ma il metrò è anche il mezzo della sospensione. Durante lo spostamento da una stazione all’altra, i viaggiatori abbandonano, pur in maniera fittizia e per un lasso di tempo limitato, le certezze ma anche le noie derivanti dalla loro esistenza ordinaria in superficie. Sotto, divengono preda della ineludibile cadenza con cui i convogli setacciano gli strati meno noti della città ed è come se una strana forza traente decretasse l’orientamento di qualsiasi pensiero o sensazione. In questo stato, dove si produce una sorta di ipnosi del corpo, sperimentano per qualche istante la crisi dei sistemi in cui normalmente agiscono.
L’esorcismo è ascritto alle condizioni del viaggio e a quel filo sottile ma tenace della loro condivisione tra quanti affollano nel quotidiano, per le ragioni più disparate, le banchine del metrò. Alla più piccola variazione, l’unisono che stringe la comunità viaggiante può andare perduto; l’insieme si regge su un equilibrio assai fragile, e qualora il singolo componente salti nella catena di formule e figure, ne risulta compromessa la sostanza rituale. Perché la singolarità dello spostarsi e il senso mai unico che ne deriva affiorano qui da una delicata sommatoria tra aspirazioni dell’individuo e moti collettivi.
«Tutti questi viaggiatori sotterranei si differenziano gli uni dagli altri, anche se i loro movimenti quasi regolari (come quelli dell’oceano Atlantico, con le sue maree alte e basse e le sue fasi di tempesta o bonaccia) suggeriscono tuttavia che una stessa attrazione li anima e li muove, li riunisce e li disperde».
La metropolitana non si identifica soltanto col dedalo dei suoi tracciati, scuro fiume che inonda le cantine della città, strappando via frammenti e oggetti da quelle pareti dimenticate per rovesciarli ai piedi dei suoi frequentatori. È un’architettura composita che, al contrario di quanto si possa pensare, si regge per una piccolissima parte sulle proprie strutture visibili, affidando una porzione rilevante delle sue suggestioni simboliche a numerosi altri aspetti. Dall’annuncio delle destinazioni per mezzo della voce automatica, il che contribuisce a creare un’attesa dal gusto surreale attorno alla meta, alla sirena dei treni in partenza. E poi ancora, le vibrazioni che scuotono i muri della stazione, il gesto rapido e perfino sontuoso con cui di solito i passeggeri vidimano il biglietto precipitandosi nel varco aperto, il vento che filtra in galleria pochi secondi prima dell’arrivo del treno, e pure la corrente d’aria che visita ininterrottamente i corridoi di certe uscite. L’umore un po’ trasognato dei chioschi sotterranei, la grazia da semidei di musicisti e accattoni confinati agli imbocchi di scale e corridoi.
Augé ci guida in un microcosmo che non solo per scelta tematica ma forse più ancora nei toni si ritaglia un posto d’onore all’interno della letteratura sulla flânerie, inaugurata proprio sulle strade di Parigi da Baudelaire, Breton, Hessel, Benjamin, Kracauer, per citare alcuni tra i suoi maggiori praticanti e affabulatori. Lo studioso suggerisce una serie di chiavi di lettura in parallelo ad altrettanti punti di osservazione, con l’augurio che altri abbiano voglia di avventurarsi alla scoperta di un universo sepolto dove, lasciando che l’occhio si abitui al buio, è facile scorgere segni dei nostri infaticabili corsi e ricorsi lungo i sentieri della storia.


(Di Claudia Ciardi – articolo pubblicato nel 2014)


Edizione recensita:

Marc Augé, Un etnologo nel metrò
Elèuthera, 2010


*Per alcune considerazioni sugli itinerari della metropoli si veda l’articolo "Denkbilder e passages", pubblicato in questo blog.

1 giugno 2017

Arte e libertà all'ombra del Muro di Berlino


Ringrazio Sylvestre Verger per avermi recentemente scritto condividendo la sua esperienza di gallerista a Parigi e in giro per il mondo. Fondatore della sVo Art, nata nel 1988, inizialmente negli Stati Uniti e quindi trasferita in Francia, ha prodotto e organizzato mostre per musei, istituzioni, collezionisti, orientate ai grandi nomi del panorama artistico mondiale quali Raffaello, Botticelli, Arcimboldo, Picasso, Modigliani, Gauguin e l’Aventure de Pont-Aven,  Miró, Giacometti, René Lalique, Matisse… ).

Nel corso di dieci anni, dal 2000 al 2010, la sVo Art ha assunto l’amministrazione del Musée du Luxembourg per il Senato francese. In ventisette anni si contano più di novanta mostre condotte sotto la supervisione di Sylvestre Verger e l’incontro con grandi personaggi del mondo politico, a partire da Michail Gorbatchev, nel 1996 a Lione.

Con il progetto Art Liberté ha inteso dare nuova linfa alla sua attività espositiva, concentrandosi sui temi della metropoli e dei suoi tanti cortocircuiti culturali. La ricorrenza legata alla caduta del muro di Berlino ha prodotto diverse istallazioni di carattere itinerante tra Francia e Germania. Sentendo l’urgenza di tornare a riflettere sui valori della solidarietà e del confronto culturale, Sylvestre Verger si augura di riportare a breve tra le strade di Berlino una parte delle opere già esposte.

Su gentile concessione del proprietario si riproducono in questo spazio alcune prese tratte dalle recenti esposizioni di Art Liberté.   

Art Liberté is a temporary exhibition with a lot of films about the artists, when they created their artworks for the collection, and also Sylvestre Verger, founder and owner, produced a film “Ephémère” about the first paintings on the Berlin Wall. All the films can be watched on Facebook (in English and French) and on the website of “Art Liberté”.

By its activity the project of Art Liberté brings many values based on solidarity as the living together, the cultural exchanges and the friendship among European countries.

In 1996, Sylvestre Verger met in Lyon Mr. and Mrs Gorbatchev (December 7, 1996), invited when he organized the exhibition of his first collection in former Espace Lyonnais d’Art Contemporain, ELAC.

Art Liberté is the second collection on the Berlin Wall. Verger organized the first one around the world during twenty years. For the XXème anniversary of the fall of the Berlin Wall (2009) he had organised the exhibition in Paris in the Jardins du Palais Royal with the French cultural ministry, Christine Albanel (Right party), and with Roland Dumas, former foreign affairs minister of François Mitterrand, in the name of political and cultural cooperation. 
Then in Berlin in DHM, and for the day of the 20th birthday, in Winzavod, contemporary center downtown in Moscou, with the Rostropovitch Fondation.
He wishes to present this collection again in Berlin, in the spaces of the Hauptbahnhof and in the core areas of the S-Bahn, as he made for the Gare de l’Est in Paris. The Non-Lieux, referring to the famous definition invented by the anthropologist Marc Augé, are the better places to represent nowadays values of art and freedom. 
  

(Di Claudia Ciardi)




For the following images: Copyright of Sylvestre Verger ©

Courtesy of Art Liberté and sVo Art




Expo project Berlin


Istallazioni itineranti (2015-2016) - opere ispirate ai frammenti del Muro


Art Liberté alla Gare de l'Est di Parigi



La Gare de l'Est di Parigi - la mostra in notturna



Una Trabant rivisitata - simbolo di pace e riunificazione



A Parigi - Gare de l'Est - Peintres historiques 
                                    

31 agosto 2016

Marc Augé - Nonluoghi



Egon Schiele - Una casa


«Non si possono più riconoscere
i monumenti dell’epoca trascorsa,
immensi spalti ha consunto il tempo vorace.
Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,
giacciono tetti sepolti in vasti ruderi.
Non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino:
ecco che possono anche le città morire».

Rutilio Namaziano, De reditu suo



Credo che il passo del poema tardolatino composto da Namaziano si presti molto bene a introdurre questo breve discorso sull’antropologia di Marc Augé, di cui ho sempre letto con interesse la produzione saggistica. Francese di Poitiers, nato nel 1935, instancabile viaggiatore come si addice a chi pratichi il mestiere di osservare uomini appartenenti a diverse latitudini e culture, è autore di numerosi studi che non solo hanno contribuito ad aprire nuovi itinerari nella sua disciplina, ma si sono imposti a livello assai più ampio, cosa ben attestata dalla diffusione di alcuni suoi neologismi, uno su tutti quello di “nonluogo”. Ricordo di essere tornata alla lettura di Augé un paio di anni fa, nel corso di una sosta affatto breve alla stazione di Milano. In quelle ore sentii l’esigenza di tuffarmi tra i suoi libri e feci incetta delle ultime edizioni riviste e introdotte ex novo dall’antropologo. Trovai anche abbastanza singolare d’essermi imbattuta, sempre in quella strana giornata di rimeditazione degli argomenti di Augé, in un corteo di attivisti in partenza per Ginevra che inscenarono una prolungata invasione delle zone di attesa per difendere il diritto al libero attraversamento delle frontiere europee da parte dei cittadini extracomunitari. Tema spinoso che si sarebbe materializzato di lì a un anno con la grande spinta migratoria, determinando i bivacchi d’emergenza proprio in stazione centrale a Milano, immagine stridente con l’inaugurazione di Expo, e le famose marce dei disperati sulla via dei Balcani. Della concitazione di quelle settimane si rammenta troppo poco, se non l’imbarazzo stizzito degli euro leader e il cosiddetto coraggio della Cancelliera che da una parte voleva accogliere e dall’altra premeva, senza parere, affinché la rotta balcanica venisse sigillata al più presto. E qui si potrebbe malignare ulteriormente: in tal modo il peso sarebbe tornato a scaricarsi in direzione univoca sull’Italia, cosa accaduta con la puntualità di una pendola prussiana.
Rileggere allora le pagine dedicate da Augé al concetto di frontiera è stato un esercizio di grande utilità per mettere meglio a fuoco le dinamiche in atto ma anche le non poche dissennatezze politiche espresse da tutte le parti in gioco; mentre il parlamento europeo sbandierava il rispetto dei diritti umani, a est ferveva il lavoro attorno ai muri anti migranti. E dunque ecco spuntare la domanda di sempre: quale Europa?
Nel definire la contemporaneità una messa in discussione dalle fondamenta delle idee consolidate di spazio e tempo, lo studioso francese ci parla di un inevitabile scorrimento delle frontiere, moto parallelo al manifestarsi delle direttrici globali. Non sono solo i confini fisicamente tracciati e riconosciuti in un territorio a essere ripensati ma anche le nostre stesse barriere interne orientate a negoziare un’identità condivisa, a costituire gruppi e nuclei comunitari dai tratti distintivi che siano al contempo punti d’incontro per l’altro. In un livellamento anonimo, consumato a ritmi vertiginosi, pure il rito di conoscenza e accettazione dell’alterità, processo fondamentale nella definizione del sé, sembra condannato a svuotarsi. Orizzonti, consuetudini, bisogni omologati prosciugano i particolarismi, rendono quasi superflua ogni ipotesi di differenziazione. In tal senso la scomparsa della frontiera potrebbe venire accolta come il realizzarsi di un’utopia umanistica per così dire liberatoria e coerente con le tendenze attuali. Mentre Augé appunto ci mette in guardia dalle false semplificazioni. La globalità, come lui la chiama, è omologante in superficie ma contiene i medesimi nuclei narrativi su cui l’antropologia indaga dall’inizio del suo operare. L’accelerazione di tempo e spazio, lo schiacciamento delle coordinate da cui l’essere umano era solito attribuire senso alle proprie azioni, sono esiti che non rimuovono le problematiche di fondo del vivere ossia le strategie che alimentano il suo organizzarsi. Ciò che cambia è il riflesso, la ricaduta in termini soprattutto di percezione che i nuovi parametri della contemporaneità impongono a chi vi si trova immerso nei doppi panni di attore-spettatore.
Responsabile di un simile abbaglio, secondo Augé, sarebbe la sovrabbondanza di elementi intesa come eccesso di informazioni che impediscono di acquisire sia un punto di vista su quel che accade sia un metodo efficace di catalogazione. La storia, di pari passo all’identità dei luoghi, a festività e ricorrenze nelle quali sono piantate le radici di ognuno, alla condivisione sociale delle esperienze, meccanismo basilare del cementarsi di una comunità, sembra perdere di significato. E questo perché l’orizzonte contemporaneo, cosmo policentrico e sfuggente, non è in grado di offrire un principio di intelligibilità, almeno stando ai codici che hanno sostenuto l’avventura della conoscenza in epoca moderna. L’uomo del nuovo millennio va incontro alla storia animato da un movimento riflesso. Scendendo in metropolitana, davanti ai suoi occhi scorrono nomi di quartieri che rimandano a monumenti, battaglie, personaggi, sedimenti urbani del passato, eppure non è il coefficiente temporale a imporsi all’attenzione di chi affronta quel percorso ma una spazialità di natura meccanicistica, ripetitiva – per molti si tratta dell’itinerario che tutti i giorni conduce al lavoro o verso impegni familiari, ed è quindi lo spazio a dare un volto alla storia e non viceversa.
Così negli svincoli autostradali che ci conducono all’aeroporto o che affiancano il nostro viaggio, incidentalmente ci vengono incontro i cartelli che invitano a fare una deviazione per visitare un complesso architettonico o i resti di una villa romana. Il nonluogo, un raccordo a scorrimento veloce che serve solo a trasportarci da un posto allaltro, costeggia i luoghi della storia, i luoghi dell’identità e della relazione, ammicca alla loro presenza e alle loro ragioni ma non va oltre. L’essere umano globale «guarda e passa», anzi più spesso passa soltanto. Questo scarto prosegue e compendia per certi versi il ragionamento sviluppato in Rovine e macerie, l’altro celebre scritto di Augé. La rovina in quanto costruzione abbandonata dalla storia, non è più in grado di parlarci in dettaglio del tempo vissuto da coloro che se ne servivano, è una scheggia indistinta di un capitolo ormai sfuocato. Ma il fatto che sia ancora lì e possiamo contemplarla, ha in sé qualcosa di rassicurante, il peso del passato si stempera e si lascia scrutare attraverso un velo di nostalgia. Nelle macerie invece si avverte il deragliamento della storia. Dal latino maceria, muro di cinta non legato da calce o fatto di terra impastata (da cui si suppone il greco massein, impastare), edificato per chiudere un vigneto o un parco per la caccia, in italiano è registrato l’uso plurale indicante ciò che resta di strutture abbattute da fenomeni che recidono in modo violento il vissuto da un luogo. Può essere un bombardamento o un cataclisma, come il terremoto. Di qui l’importanza di rinsaldare subito le comunità e contribuire al ripristino dei legami necessari alla socialità di quei luoghi. Diversamente verrebbero cancellati, le macerie non diverrebbero rovine, non potrebbero neppure trasformarsi in “luoghi della memoria” perché l’unica possibilità per la memoria di preservarsi è rappresentata dagli abitanti dei territori.
Nella polarizzazione odierna di luogo e nonluogo Augé riscontra qualcosa di simile, pur ammettendo che gli incroci tra queste due realtà sono tutt’altro che infrequenti. Come le macerie, anche i nonluoghi – le aree destinate al passaggio, al commercio massificato o quelle deputate alla sosta dei disperati del mondo (campi profughi, centri di identificazione) – tendono ad annullare il patrimonio relazionale umano. Le destabilizzazioni che producono, differenti nei modi in cui avvengono, sortiscono un impatto per lo più identico. 
Da nessuna parte tuttavia si danno luoghi e nonluoghi in senso assoluto, le infiltrazioni sono anzi il vero paradigma del loro definirsi tali. L’aspetto contaminante è veicolato dagli esseri umani che attraversano di continuo entrambe le dimensioni. Nelle loro mani l’opportunità di non soccombere all’anonimia ma di farsi interpreti delle istanze di una nuova idea di spazio comunitario, sorto dallo scontro-incontro dei due poli. 
Pensiamo alle isole. Luoghi per loro definizione staccati dalla terra e forse perciò meno soggetti al mutamento o al culto dell’effimero che ovunque ci tallona. Il turismo però ha dettato le sue necessità, livellato e reso accessibile quel che in un primo tempo non era. Ha portato il mondo globale, le sue immagini, le sue nevrosi anche dove sembravano non poter attecchire e dove paradossalmente – uno dei tanti paradossi della nostra epoca – andiamo in cerca di tranquillità e ritmi del tutto differenti da quelli della terraferma. E però la natura ingaggia a sua volta una specie di lotta con le nostre abitudini, quasi avessimo due ombre. La vita isolana resta dura, anche se si va da turisti e accolti appunto dal comfort turistico. L’ambiente conserva la sua asprezza, in qualche caso è vero si tratta di mimica facciale, di una simulazione costruita ad hoc per lo sguardo del turista, ma in profondità si fa esperienza di un luogo che non si lascia addomesticare. Ed è forse anche questa consapevolezza, questa oscillazione tra un estremo e l’altro ad esercitare un richiamo così forte sui visitatori.            
In una delle sue più recenti apparizioni per la tv italiana, Augé sedeva in un caffè di Parigi. Fu un paio di settimane prima del Bataclan. Non parlò molto, stava davanti al tavolino dove qualcuno gli aveva ordinato qualcosa e disse in due parole come era cambiato negli ultimi anni il modo di condividere uno spazio così tipico della metropoli parigina – il caffè-bistrot amatissimo approdo  dei primi flâneur – alla luce della nuova generazione social. Il fatto che una decina di giorni dopo quegli spazi siano stati violati da un’altra delle fratture più estreme prodotte dall’era globale, il terrorismo fondamentalista, ha dato alle parole dell’antropologo una forza ulteriore.
Si torna così all’inizio del nostro ragionare. Le frontiere, quelle geografiche ma ancor più quelle etniche e sociali che vedono lo sconvolgente incrementarsi del divario tra ricchi e poverissimi, non vanno né ignorate né fortificate. Vanno prima di tutto comprese, perché di qui passa la vera conoscenza e il rispetto dell’altro. E nel caso del divario sociale va gradualmente limato e risolto. Questa la principale tra le sfide che ci attendono.              


(Di Claudia Ciardi)


Edizione consigliata:

Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità.
Con una nuova prefazione dell’autore,
Elèuthera, 2009



 Manifestazione per l’asilo politico "europeo" a Milano Centrale - giugno 2014




30 giugno 2016

Manuele Fior - I giorni della merla


L’album di Manuele Fior, pubblicato da Fandango nella collana “Maschera nera” diretta da Igort, è un lavoro ad alto voltaggio poetico. Concisione e velocità del segno, pur non sorvolando sui dettagli, incastonano i racconti in pochi tratti essenziali e donano al narrare una leggerezza ritmica alla quale fa da contrappeso l’affilata marcatura dei caratteri. Lo studio psicologico s’impone per la sua incisività, senza filtri né cornici. È un tutto intonato, giocato sul filo delle stonature che la quotidianità con le sue frizioni-allucinazioni getta addosso ai protagonisti, mettendoli impietosamente a nudo. Il che non è solo una condizione interiore ma qui, è il caso di dire, incarna la sua essenza tangibile. Il corpo invecchiato della professoressa in gita scolastica con qualche frustrazione di troppo, il soldato in trincea che schiacciato dagli incubi arriva a evirarsi, un Arnold Böcklin in crisi creativa che tenta di riprendersi con i bagni termali a Ischia, esperienza che precede di poco il suo capolavoro, L’isola dei morti.
Tutti qui sono gente comune. La professione, la divisa, la fama sono categorie assorbite dall’esigenza più profonda di scavare nella realtà solchi credibili con cui rimodulare il proprio sé in rapporto agli eventi. Questi volti ci scorrono sotto gli occhi in bilico tra alienazione e riscatto, polarità che Fior non risolve completamente, consegnando il dilemma al lettore. E proprio questa irresolutezza, che altro non è se non la sostanza di quel che si riverbera sulla contemporaneità, potenzia di molto il messaggio dell’autore. La nostra posizione all’interno delle dinamiche in atto non può essere certo decifrata ricorrendo a preconcetti ormai pavidi, perché sarebbe appiattire la complessità delle cose. Una complessità che non si presta alle forzature ma va accompagnata.   
Scopro, dunque, in quest’opera una certa dimestichezza con le tesi di Marc Augé legate ai dissidi tra luogo e nonluogo, cui guardano anche i recenti rivolgimenti politici che vedono la distribuzione degli elettorati esattamente lungo queste linee di faglia. «L’estensione dei nonluoghi […] ha già battuto in velocità la riflessione dei politici, i quali hanno finito con il non chiedersi più dove vanno, perché sanno sempre meno dove si trovano», così l’antropologo francese conclude il suo celebre saggio Non-lieux (1992). E le pressioni globali erano solo agli albori. Il nonluogo, contraddistinto da velocità, anonimia, ossessione spersonalizzante sarebbe la sintesi del contemporaneo, schiacciato in un contraddittorio con il luogo, lo spazio riconoscibile ma sotto assedio dell’identità. Se Augé auspica un’osmosi di tali aspetti, in grado di innestare nel nonluogo tracce di un’umanità non solo passeggera e omologata, è chiaro che attorno a simili processi, fin quando non abbiano definito le loro zone d’influenza, si accumulino innumerevoli tensioni.   
Due centri che stanno anche dentro di noi, orientando reazioni e, assai spesso, determinando fratture. Campi radiali destinati a un confronto serrato da cui sviluppare dialettiche nuove. Sono appunto le atmosfere dove la matita di Fior si muove disinvoltamente. Originario di Cesena dove nasce nel ’75, una laurea in architettura all’università di Venezia, residenze d’artista a Berlino, Oslo, Parigi, città che anche negli episodi qui raccolti mostrano la loro fronte conflittuale, quando non soccombono alla violenza delle lacerazioni. È il caso di Parigi scossa dagli attentati nel novembre 2015, di cui l’autore fotografa lo straniamento rabbioso e impotente dei giorni successivi alla strage. Uno scatto lucido, che si tiene lontano da ogni moralismo, sottolineando invece le divisioni etniche e sociali all’interno dell’organismo metropoli. Discorso approfondito in chiave allegorica nell’ultima narrazione, Gare de l’est. Un adulto e un bambino si tengono per mano mentre davanti a loro, in mezzo alle case, si consuma uno scontro feroce da cui escono miracolosamente indenni. Quasi una sessione d’analisi che tenta di elaborare il trauma.     
L’interesse per la letteratura tedesca, testimoniato dal suo adattamento a fumetti della novella di Arthur Schnitzler, La signorina Else, i riferimenti storici e antropologici, contaminano anche il suo sguardo sull’attualità, con l’attenzione riservata all’universo degli immigrati, le paranoie che ci tallonano, i rituali da cui non sappiamo affrancarci. Tutto ciò fa di Manuele Fior un autore versatile e completo, che dai temi di volta in volta prescelti sa distillare poesia con la disarmante schiettezza di uno dei suoi personaggi di strada.

(Di Claudia Ciardi)


Manuele Fior, I giorni della merla,
Coconino Press - Fandango, 2016


Arnold Böcklin, L’isola dei morti (Die Toteninsel), 1880-1886


Related links:

Dino Campana - Simone Lucciola, Rocco Lombardi, Giuda edizioni, 2011 (2015)

Quaderni ucraini - Igort, Coconino Press, 2010 (2014) 

Golem Stories - Sammy Harkham, Coconino Press, 2013 


27 febbraio 2016

Tempo e memoria



Salvador Dalì - La persistenza della memoria, 1931 - Museum of Modern Art, New York


Attiene all’immaginario umano una dualità plasticamente rappresentata da una biforcazione di strade, che è pungolo di ricerca, alimentando il dubbio e spronando colui che lì è approdato a compiere delle scelte destinate al suo progresso – il che non significa successo ma semplicemente conoscenza. Al bivio si arriva dunque sotto la sferza della curiosità e del dubbio, e lo si supera con un gesto volitivo che però di quella essenza dubitante non smette di nutrirsi, neppure quando il ricordo del luogo che abbiamo attraversato e della spalle voltate a quel che sorgeva al suo fianco, si è fatto distante.
I due poli attorno a cui si orienta l’intera esistenza umana, amore e morte, danno prova di questa alternanza geografica. Secondo la religiosità greca di ascendenza orfica, di cui tanta parte è filtrata nella nostra cultura, una volta giunti nell’aldilà si incontreranno due fonti: la prima, quella dell’oblio, disseterà solo in apparenza, facendo dimenticare tutto e rinascere in un nuovo corpo chi le si avvicina. Più avanti invece è la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne, la memoria, che assicurerà un posto tra gli immortali. 
Nei poemi cavallereschi tutto questo si fissa in un’immagine diversa ma anche simile, la fonte dell’amore e del disamore, da cui un uomo e una donna che si desiderano finiscono sciaguratamente per bere all’unisono, così che la vicenda del loro tormento non può conoscere requie. L’amore, massima espressione di conoscenza, si consegna a una fuga irresoluta, celebra il trionfo dell’umana natura dubitante. Il principio è pure il medesimo, il disamore comprendendo l’oblio dei sensi. L’amore invece implicando un livello di comprensione dell’altro, necessariamente gettando le sue fondamenta nella favolosa terra dei ricordi, è il miglior sodale della memoria. 

Commemorare è il verbo deputato alla sintesi della memoria collettiva e, quindi, alla sua espressione nella ritualità pubblica. Etimologicamente derivante dal latino “cum memor” (memore, colui che ricorda insieme), la stessa successione sillabica, per chi come me ama la musicalità a scapito dell’ortodossia, potrebbe suggerire l’associazione con “moror” (attardarsi, fermarsi, dimorare). Indicando qualcosa che indugia, che si trattiene da qualche parte nella nostra percezione.  
Internet si colloca all’interno di una rivoluzione copernicana, fulcro sovvertitore dei tempi lunghi necessari alla conoscenza e a una mediazione-meditazione di quella conoscenza nel ricordo. Siamo assoggettati a una strana tirannide, il cui compito è distogliere la volontà da qualsiasi autentico atto creativo, compreso il ragionamento su noi stessi, che è per così dire la madre di tutte le muse. Senza immersione in questa sostanza primordiale, senza tornare alla fonte ci si rassegna a conoscere per sommi capi o per vie surrettizie. Molti richiami a essere qualcosa ma scarsa attitudine a immedesimarsi veramente in qualcosa, a viverlo come fossimo di quella sostanza.
Per dirla con Shelley «Quello che ci manca è la facoltà creativa di immaginare ciò che conosciamo; ci manca l’impulso generoso che attualizza quanto immaginiamo; quello che ci manca è la poesia della vita».
Se è giusto rivendicare l'aver acquisito una mole sterminata di notizie grazie al lavoro tecnico di tanti studiosi, altrettanto purtroppo è andato perso, stando alla manifestazione concreta di rinsaldare il collante delle nostre identità. E qui ci viene in aiuto la voce di un altro poeta: «Uno ha dentro di sé la propria origine come la propria morte […] è inutile cercare di essere diversi se non passando per la propria più assoluta identità». Senza questa acquisizione fondamentale, che Piero Bigongiari si impegna a disvelarci come oscillante e dolorosa, non saremo mai compresi in noi stessi ma neanche negli altri. Non è esagerato ammettere che la coesione sociale arretra anche a causa della labilità con cui ormai sono sentiti tali legami.

C’è un passo di Marc Augé che amo molto. Lo studioso francese si riferisce a Émile Durkheim: «Le cerimonie civili non gli apparivano differenti per natura dalle cerimonie propriamente religiose. Ma queste cerimonie sono sempre per Durkheim cerimonie del ricordo, feste della memoria collettiva».
Se prendiamo le commemorazioni della nostra Resistenza, vediamo che dal dopoguerra a oggi il numero dei partecipanti si è molto ridotto. E per ciò che riguarda il dibattito storico, la riflessione su questo capitolo non è minimamente paragonabile alla cultura di memoria sviluppata ad esempio in Germania dal secondo dopoguerra in avanti. Mentre notevole attenzione è dedicata alla riscoperta della letteratura della guerra aerea, come nell’opera di W.G. Sebald, dove acquistano rilievo le testimonianze dei sopravvissuti ai bombardamenti, alle memorie della Shoah (Ruth Klüger), al dibattito sulla Stasi e alla letteratura germanofona dell’immigrazione, la Resistenza italiana è stata finora destinataria di un interesse molto minore. All’inizio del 2009 si è istituita una commissione di storici tedesco-italiana col compito di occuparsi del comune passato di guerra. 
Un articolato intervento di Michael Braun, appoggiandosi alle tesi dello storico ed egittologo Jan Assmann, autore del celebre saggio Memoria culturale, e di Theodor W. Adorno, tocca proprio tali aspetti ed è un validissimo strumento per capire cosa ne è stato negli ultimi cinquant’anni della elaborazione memoriale tedesca, applicabile in senso lato ai popoli europei usciti dal secondo conflitto mondiale: «La trasformazione incisiva della memoria culturale appare soprattutto nel fatto che il concetto normativo e censorio del “superamento” e della “elaborazione del passato” (Theodor W. Adorno) fa posto a una riflessione critica e a una narrazione pluralistica della storia […]».
Eppure, nonostante il largo respiro di questa ricognizione tra i diversi strati di memorie nel Novecento, sotto i colpi di un presente che si impone per velocità e autarchia pare essersi allontanata da noi la consapevolezza del passato. Farebbe meno scalpore se oggetto di questo oblio fossero eventi lontani nel tempo – i tumulti del senato romano, le nebulose vicende imperiali, le lotte tra comuni e signorie, la guerra dei trent’anni. Conosciamo magari la sostanza di questi fatti ma non vi associamo nessun particolare sentimento. Sono cose su cui l’occhio del tempo si è impietosamente richiuso, consegnandole al gelo dell’abbandono. Certa letteratura che sviluppa in forma di romanzo alcune vicende del passato, riesce a imporsi al gusto di non  pochi appassionati. Ma siamo di fronte a prodotti di consumo, mezzi d’evasione che nulla hanno a che vedere con la ritualità della storia pensata come parte fondante del sé cui si riferiva Augé attraverso l’analisi di Durkheim. 

La “cultura di memoria”, dunque, contrapposta alla fatuità dei social network, simbolo e sintomo di una fruizione di quel che dovrebbe interessarci e raccontare di noi, confinata alla superficie degli eventi. Lo abbiamo ascoltato spesso dalle parole di Umberto Eco, parole tornate a interrogarci nei giorni della sua scomparsa che peraltro ha trovato in rete, com’è ovvio, molti suoi canali di diffusione.
Per invertire la tendenza, ammesso che lo si voglia, io credo sia necessario un grande lavoro di autoanalisi, magari accompagnato da semplici regole pratiche. A noi spetta evitare di stare connessi per buona parte della giornata e quindi farci trovare costantemente reperibili. Oppure temiamo che l'uscita dalla rete, sebbene solo attraverso una sospensione della nostra presenza, comporti una sorta di ostracismo culturale? 
Un episodio personale mi fornisce un ottimo spunto. Dopo circa sette anni, ho scelto di non aggiornare più facebook con la frequenza di prima. I motivi sono molteplici e vanno dalla noia, al fatto che col passare del tempo cambia anche il modo di rapportarsi a certi mezzi (sarebbe bene, almeno, cambiasse) fino al senso di insicurezza trasmesso dalla gestione del social (manca un vero e proprio centro di assistenza, ci sono casi di violazione delle identità registrate, virus di sistema ecc…). Mi riferisco a questa esperienza perché a livello antropologico e filosofico riveste secondo me un interesse di qualche rilievo. Alcuni dei miei contatti, destinatari in ogni caso di una minore assiduità rispetto a quella che di solito riserviamo alle cerchie più intime dei nostri conoscenti, per un certo periodo mi hanno inviato messaggi allarmati. La mia irreperibilità era forse il frutto di qualche dramma? Stavo bene o celavo dei misteriosi problemi? Insomma, chi stacca da facebook celebra a sua insaputa una specie di funerale di se stesso. L’identità virtuale gli si è ormai a tal punto appiccata addosso da dettar legge a quella reale.
È chiaro che la cosa fa sorridere ma spinge pure, una volta di più, a ragionare. Che stiamo facendo di noi «animali sociali» ora fatalmente sempre più virtuali?

Nel bellissimo saggio di Myriam Revault d’Allones, La crisi senza fine, si legge, tra numerose altre, un’affermazione illuminante: «Il tempo non si dinamizza più in una forza storica, non è più il motore di una storia da fare, di un compito politico da assolvere. Dopo il crollo della fede in un avvenire teleologicamente orientato al meglio, è divenuto un tempo senza promesse. Lo schema oggi predominante è quello di un futuro inimmaginabile e indeterminato. Questo nuovo modo di “essere nel tempo” tocca sia lo sguardo della società sul proprio avvenire collettivo votato all’incertezza, sia le rappresentazioni degli individui sull’orientamento (altrettanto incerto) della loro esistenza».
È, credo, questo svuotamento del tempo a spingere verso un’apparente ma anche sostanziale vacuità, si passi l’ossimoro, del fare e del pensarci.

(Di Claudia Ciardi)


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P. B. Shelley - In difesa della poesia




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