Una
produzione indipendente che racconta uno spaccato di vita quotidiana interrotta nelle zone del terremoto, dall’Aquila al cosiddetto cratere
sismico di Lazio e Marche.
Quattro donne si fanno voci narranti e interpreti del dramma che ha
mutato il corso delle loro esistenze. Perché sopravvivere al terremoto significa
prendere atto di quel mutamento, capire che ciò che si farà dopo verrà inevitabilmente
condizionato dal bivio che le circostanze ci hanno messo davanti. È un
messaggio che accomuna Antonietta Centofanti, la zia di Davide, uno dei ragazzi
portati via dal crollo della casa dello studente all’Aquila, su cui è ancora in
corso il processo civile, e Valentina Valleriani, altra donna battagliera del
capoluogo abruzzese, che da anni lotta insieme all’associazione donne “terre-mutate”.
E poi ancora, Patrizia Vita, l’“ortigiana” di Ussita, e Assunta Perilli,
tessitrice a Campotosto. Donne le cui attività erano, per scelta, profondamente
radicate nel territorio e nella storia delle loro comunità. Patrizia, che dava
ospitalità a decine di visitatori, appassionati di sentieristica in montagna, ispirati
da un viaggiare lento e a misura d’uomo, e un orto davanti alle finestre della
sua casa coltivato con la tenace devozione di chi sa che solo nella terra si rivelano
le nostre radici. Assunta invece aveva riscoperto all’inizio del duemila il
telaio di sua nonna, già morta, e da allora, cercando le anziane del paese, aveva provato a riavvicinarsi a quell’arte, dimenticata dalle nuove generazioni ma ancora presente, non fosse altro che per la sopravvivenza degli antichi
strumenti. Ne era nato un laboratorio a Campotosto da cui il sisma l’ha costretta ad allontanarsi. Di recente ha ripreso a lavorare in una bottega
provvisoria, una casetta in legno dove ha potuto risistemarsi, perché, spiega,
la sua è un’attività artigianale che ha senso solo in quel contesto.
Donne
da cui passa la resistenza in luoghi che rischiano l’isolamento e un oblio
feroce. Che si tratti di borgate, frazioni o città, non fa differenza. Il
pericolo non è proporzionale alle dimensioni di uno spazio ma alla resa di una
collettività; L’Aquila, in questo senso, ha vissuto e vive una situazione
delicata. Antonietta Centofanti dice che l’unica cosa che impedisce di
soccombere è proprio il lottare. Almeno non si è accerchiati dal dolore, ci si
arrabbia ma si resta vivi. E lei sulle barricate c’è da tanto, è sempre lì a
spronare e sferzare la sua comunità, quando vede che si sfalda, che gira le spalle – anche in un’estrema forma di autodifesa – davanti a lutti e vicende che dovrebbero essere condivise. Per
ricostruire, infatti, bisogna aver preso coscienza di tutto ciò che è stato, di
quello che ha abbattuto e ucciso, oltre e al di là del terremoto. La regista
Cecilia Fasciani, squarcia quindi il racconto, riandando all’indietro, ai concitati
momenti in cui gli aquilani reclamarono le proprie case, il ritorno simbolico
a quel centro storico da troppi mesi isolato, sottratto, abbandonato. Una
cittadinanza determinata a fondare ritualmente la città che sarebbe venuta e
che perciò cercava un contatto, perfino una consonanza con le macerie lasciate nelle strade. Con quelle macerie bisognava ritrovare un dialogo
e da lì recuperare, almeno iniziare un processo di recupero, della propria
identità, altrettanto costretta a frantumarsi.
Così Antonietta
ci accompagna per le vie della città-cantiere, anche le sue sono soste quasi
rituali, ad ogni angolo, piazza o slargo sorveglia lo spazio, mette un’idea del
prima e dell’ora in quegli scorci squassati e non manca di sottolineare quanta
bellezza venga da lì, quanta nonostante tutto. Sembra volerci dire: ma non
immaginate cos’è stato qui, la forza e la grazia che c’erano ovunque, se la
città irradia ancora così tanta intensità? È quel che ho pensato anch’io,
sfiorando coi miei passi queste architetture, violate, prostrate ma a loro modo resilienti. È quello, lo capisco ora, che negli anni
mi ha fatto pensare parecchie volte ad Antonietta, alle sue battaglie. Anche
quando la sua voce si è sentita di meno, ma c’era, c’è sempre stata. Allora,
guai voltarsi adesso. Il ritorno alla normalità suona come una formula vuota,
che non fa presa su chi si trova spodestato, sradicato dentro e fuori. Ci sarà
un’altra normalità, auspicabile, che per un po’ correrà parallela a quella
interrotta e poi farà la sua strada. Ma in tutto questo la memoria avrà bisogno
di essere salvata e custodita, rifondata, a sua volta, sugli accertamenti delle
responsabilità, sulla serenità derivante dal fatto che molte cose hanno infine ritrovato
una sistemazione, un senso, una strada per poter essere definite e comprese. “Io
prometto” è un’espressione difficile. Ce lo dice Valentina Valleriani, sul filo
dei ricordi, dell’essere stata negli anni ostinata, per sé, per la
comunità. Siamo persone, immerse nei nostri condizionamenti, nei nostri limiti,
eppure qualcosa si può fare, anche solo dall’acquisire questi limiti, provare a
guardarli e capirli. Già questa è una promessa a se stessi, in grado di motivare
ognuno nella propria quotidianità. Una lezione, quella dell’impegno civile, cui
le aree terremotate richiamano con durezza, sia quando è stata disattesa sia
quando ha dato la miglior prova di sé, attraverso le reti solidali spontanee e
nazionali. Se i morti non hanno un senso, e fermo restando che una vita non si
risarcisce, almeno provare a far sbocciare il meglio da queste macerie, almeno
avere questa determinazione, è cosa dovuta a chi non c’è più.
(Di Claudia Ciardi)
Argomenti correlati:
numero 87, Donne che
hanno fatto l’Italia, maggio 2011, nel ricordo di Bia Sarasini,
recentemente scomparsa. Bia si era dedicata fin da subito a divulgare e
sostenere il movimento delle "Terre-Mutate", un’associazione
spontanea di donne colpite dal sisma in cerca di nuove forme di aggregazione
sociale, per superare insieme l’emergenza. L’ho incontrata nel 2013, durante le
giornate romane che la Sil dedicò alla poesia della Bachmann. La ringrazio per
le parole che mi riservò: “se stai con noi, io sono contenta”. Non si riferiva
solo alla Sil, ma a qualcosa di più grande, a un impegno ancora più vasto e
capillare nella mia vita, che seppe racchiudere in quelle poche parole. Ora ne
capisco pienamente il senso.
«Leggendaria» numero 95, Donne in città, settembre 2012. Le Terre-Mutate dell’Aquila incontrano le donne di Mirandola dopo il sisma in Emilia.
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