The Lights Go Down - Wenn die Lichter ausgehen
Erika Mann als Pierrot, 1934
Erika Mann (Monaco di Baviera, 1905 – Zurigo 1969) è l’eclettica figlia di Thomas Mann. Scrittrice, attrice, giornalista, col padre – il “Caro Mago” al quale tra affetto e ammirazione si rivolge nelle lettere – ebbe un rapporto di scambio continuo, sia sul piano personale che su quello artistico, fino a influenzarne la decisione di lasciare la Germania per gli Stati Uniti.
Nel suo percorso di intellettuale la Mann non conobbe allineamento alcuno con le polarizzazioni ideologiche che impegolarono la politica di prima e dopo la seconda guerra mondiale.
Questa donna ha vissuto tutto in maniera estremamente indocile, rifiutando ogni compromesso che esigesse in cambio di addomesticare l’originalità della propria parola e smorzarne l’intento polemico. Perciò la Mann fu una outsider, sempre. Osteggiò il nazismo ma non condivise nulla della spartizione del mondo successiva alla guerra. Provò disagio e insofferenza per lo schiacciamento dell’Europa tra i due blocchi. Il comunismo sovietico, il terrorismo bellico, l’imperialismo americano erano quanto di più lontano dalle radiose promesse di rinascita e libertà dell’estate ’45.
Non mancò di scagliarsi contro il clima della guerra fredda e si batté perché l’Europa ritrovasse una propria dimensione culturale e politica, in grado di suffragare un dialogo franco, aperto e inclusivo della maggioranza dei punti di vista dei suoi interlocutori.
Si spiega così la cocente delusione che gli riservò l’America maccartista, tanto da spingerla a ritirare la domanda per la cittadinanza.
Scoprire le contraddizioni della società che le aveva dato rifugio dalla barbarie nazista, fare i conti con le ansie psicologiche della patria adottiva comportò il crollo delle ultime certezze che quel mondo le aveva offerto fin da prima dell’ascesa al potere di Hitler. Quando gli opposti rivelarono in maniera tanto scoperta e perfino con cinico compiacimento le loro somiglianze, Erika Mann abbandonò per sempre la scena.
Erika Mann, Quando si spengono le luci. Storie dal Terzo Reich,
a cura di Agnese Grieco, Il Saggiatore, 2013
pp. 267
Euro 19,50
ISBN 978-88-428-1295-1
Uno straordinario talento per il teatro, un’attitudine alla performance e alla critica irriverente per tutto ciò che alimenta un rigido classismo, questi gli aspetti che tengono a battesimo la creatività della primogenita di Thomas Mann. Il carisma di Erika si mette in luce già dal 1921, su un piccolo palco improvvisato entro la cerchia di amici e familiari dei giovanissimi interpreti, il Laienbund Deutscher Mimiker. E non avrebbe potuto essere altrimenti per una ragazzina cresciuta all’ombra del genio paterno e che da parte di madre vantava una nonna e una bisnonna protagoniste dell’emancipazione femminile a Monaco e Berlino. Hedwig Dohm, la bisnonna, è un personaggio magnifico, quasi l’eroina di un romanzo. Giornalista e scrittrice aderisce ai movimenti femministi; la sua è una delle prime voci a sostegno del diritto al voto delle donne in Germania. Quando, infine, l’entusiasmo per l’inizio della prima guerra mondiale avrà contagiato tutti, sarà tra i pochissimi intellettuali a respingere con lucidità ogni slancio per quella che riconosce immediatamente come una tremenda carneficina.
Erika Mann nasce dunque già contaminata dall’aria familiare anticonformista e battagliera; questo peraltro continuerà ad essere il destino dei Mann con l’arrivo al potere dei nazisti.
Quando Erika lascia Monaco per studiare recitazione a Berlino è il 1924. Ottiene importanti ingaggi senza tralasciare la collaborazione col fratello Klaus, scrittore e critico di teatro. Un sodalizio e un’alleanza che si interromperanno solo nel 1949, in seguito al suicidio di Klaus. Per Erika sarà come perdere metà del proprio mondo. I due infatti avevano condiviso praticamente tutto, vocazione artistica, amicizie, viaggi, esilio. Un doppio nel quale si legge in controluce il manifesto dei figli che si sentono estromessi dai padri, che sperimentano sulla propria pelle la crisi del sistema di valori in cui sono cresciuti e rivendicano uno spazio per autorappresentarsi.
È proprio questa presa di coscienza generazionale a confluire nel famoso «Macinapepe», il Kabarett politico letterario nato nel 1933 di cui Erika è l’indiscussa animatrice. I testi sono ironici, mordaci con qualche nuance espressionista ma senza zavorre ideologiche. Il «Macinapepe» viene inaugurato nello spazio della Bonbonniere, a Monaco, il primo gennaio del ’33. A febbraio Hitler tiene il suo discorso di accettazione dell’incarico di cancelliere nell’edificio confinante. Fatalità della storia – espressione verso cui la Mann, a ragione, provava una grande insofferenza. Di fatto questo episodio annuncia tempi difficili per il Kabarett. Dopo un rapido ripiegamento della compagnia a Zurigo, anche qui nascono ben presto dissapori con le autorità e nel ’35 gli artisti sono costretti a fare fagotto. Gli spettacoli vengono portati in giro per l’Europa, il pubblico non manca, tuttavia i problemi per la messa in scena si moltiplicano. Erika organizza il trasferimento in America ma oltreoceano è un flop completo e la compagnia costretta a sciogliersi. I tre anni del «Macinapepe» restano in ogni caso un esempio di infaticabile attivismo politico mentre il vecchio continente si apprestava a mettere in soffitta senso critico e progresso sociale.
I racconti che compongono il volume pubblicato da Il Saggiatore, per la cura di Agnese Grieco, che nella sua articolata postfazione ricostruisce in dettaglio la storia dei Mann sullo sfondo di una Germania annichilita dal regime, risalgono al 1939. Erika ha ormai intrapreso con successo in America l’attività di conferenziera. Si dedica anima e corpo alla scrittura, anche quella per bambini, che suscita molti apprezzamenti, cercando così di ricostruire un presidio di opposizione politica alla dittatura. La Mann, in questo catalogo di tipi e situazioni fotografati in una non meglio precisata città tedesca, intende portare all’attenzione dei suoi lettori lo scandalo di un’opinione pubblica anestetizzata dalle ‘verità’ di regime e da una ben orchestrata retorica bellica. I protagonisti delle sue narrazioni assurgono a exempla di una piccola borghesia ripiegata su se stessa, in preda a uno sconcertante fatalismo storico, secondo cui le cose non possono che andare nella direzione presa, visione pusillanime e acritica come la Mann in più punti non manca di sottolineare. La denuncia della abulia che immobilizza la società tedesca colpisce di rimbalzo anche chi da fuori assiste alla catastrofe pianificata dalla Germania, senza opporvi la necessaria resistenza, in una colpevole attesa degli eventi.
Il ‘decalogo’ che ci scorre sotto gli occhi mostra in tutte le sue sfaccettature il processo che comporta l’occupazione dei vertici dello Stato e di ogni posizione disponibile nella società da parte di soggetti incompetenti e totalmente pervertiti dall’indottrinamento. Si tratta della messa a nudo di un vizio umano che nella Germania hitleriana conobbe una stagione trionfale, con tutte le nefaste conseguenze che ne derivarono, ma a fronte del quale ancora oggi è importante mettere in campo tutte le risorse disponibili per restare vigili e non cadere in tentazione.
(Di Claudia Ciardi)
Vincent van Gogh, La ronda dei carcerati, 1890
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«La questione non è banale. A entrare in gioco, infatti, nella definizione formulata dai nazisti per bollare negativamente le opere dell’avanguardia sono sia l’idea di arte che il regime intendeva divulgare sia il processo, a ciò strettamente legato, di elaborazione di una damnatio memoriae che, se osservato più da vicino, si scopre estremamente ambiguo».
Un articolo su Tacito, Elias Canetti, Ezra Pound, James Joyce, Giuseppe Ungaretti, Claudio Magris
Fabula fluit. Corpi fluviali e geografie letterarie
di Claudia Ciardi
«Intendiamo qui svolgere una riflessione affiorata durante lo studio dei Pisan Cantos (2008-2010), che nel (per)corso della nostra lettura sono venuti rappresentandosi come un corpo fluviale. Il dettato poundiano ha sollecitato così l’approfondimento di uno dei nessi da sempre forse più vitali a livello di “inventio” letteraria che vede replicarsi nel fluire della “fabula” il moto inesauribile dei fiumi. Il saggio con cui tentiamo di dare forma a questa idea si nutre di appunti e osservazioni personali non a caso proposti in un andamento estremamente ondivago, nel quale voci antiche e recenti di scrittori e poeti si mischiano, alimentando il grande fiume della narrazione letteraria. Perché se è chiaro che l’acqua in cui ci bagniamo non è mai la stessa, tuttavia il fiume che Eraclito contemplava scendeva al mare quasi identico da millenni, raccogliendo nel proprio alveo e attorno a sé, storie, pensieri, umanità simili pur nella distanza tra generazioni e culture marcata dal passare del tempo. Ma vero è pure che questo senso del trascorrere della vita non appartiene alla natura. Perciò il moto delle acque fa del fiume una creatura mutevole all’apparenza e al contempo eterna nel suo esistere. A guardarlo resta in noi la vertigine dell’infinito, e la lontananza tra i nostri limiti fisici e l’ampiezza del suo fluire fa nascere la nostalgia per un’origine perduta, una culla violata. Proprio dal senso di questo distacco, proprio in virtù della nostra immaginazione che coglie la perdita di un passato fuori da se stessa ma che ancora la abita, facciamo anche noi l’esperienza di un non finito, di un tutto dai contorni sfumati nel quale abitiamo da millenni, uguali ai fiumi che attraversiamo, sommati entrambi all’eterna corrente che anima mondi differenti».
(Dall’introduzione)
(Dall’introduzione)
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