Titolo: Jimmy's Hall
Regia: Ken Loach
Attori: Barry Ward, Andrew Scott, Simone Kirby, Jim Norton, Brian F. O'Byrne, Aisling Franciosi
Montaggio: Jonathan Morris
Musiche: George Fenton
Produzione: Sixteen Films, Element Pictures, Why Not Productions
Distribuzione: BIM
Paese: Francia, Gran Bretagna, Irlanda
Anno: 2014
Durata: 106 Min
Ken Loach è un regista che fa dell’impegno civile il suo tratto distintivo. Ama raccontare le conseguenze del disagio sociale nella vita dei singoli e nel respiro corale di una nazione. Ma il suo credo non si limita al cinema. Chiamato due anni fa al Torino film festival per ritirare un premio, vi rinunciò schierandosi con i dipendenti del Museo nazionale cinematografico pagati appena cinque euro lordi l’ora. Così poco da fornire la sponda al regista per un acceso intervento su precariato e sfruttamento dei lavoratori. Un caso, quello torinese, già portato all’attenzione dei tribunali di Torino e Milano ma al quale la solidarietà pubblicamente espressa da Loach contribuì a dare una grossa risonanza mediatica. La polemica si gonfiò in un men che non di dica, con la ditta appaltatrice sul piede di guerra che minacciò di sporgere querela contro il regista britannico, e il solito parterre di opinionisti e politici formati nel disprezzo della classe operaia che gridò subito all’opportunismo e alla strumentalizzazione da parte del maestro. Inutile soffermarsi sul fatto che chiunque abbia presente almeno un po’ la produzione di Loach, tutto potrà dire tranne che siamo di fronte a atteggiamenti strumentali. Lui, figlio di operai, ha sempre posto l’emarginazione al centro dei suoi racconti e su questo lacerante problema d’occidente, e ora globale, ha sviluppato una delle riflessioni più coerenti e incisive del cinema contemporaneo. Certo, non può non far storcere il naso a chi, convinto ancora che quello in cui viviamo sia il migliore dei sistemi possibili, su certe cose preferisce glissare. Quando Loach parla dell’Irlanda sbattendo in faccia alla madrepatria tutte le dolenti note dei suoi trascorsi coloniali, compie una doppia demistificazione: ci mostra a che prezzo il capitalismo si è aperto la propria strada nel mondo, e ci dice che senza una memoria storica che tenga conto di tutti i fattori e di tutte le vittime, seguiteremo a scrivere e insegnare una non verità. E l’inganno è alla base delle gravi crisi che stiamo attualmente fronteggiando.
Dopo la Palma d’oro ricevuta a Cannes nel 2006 con Il vento che accarezza l’erba, è uscito in questi giorni nelle sale italiane un altro lavoro “irlandese”, stavolta costruito attorno alla biografia dell’attivista James Gralton, del quale peraltro ricorre il settantesimo anniversario dalla morte (29 dicembre 1945). Gralton, esiliato due volte, la seconda in via definitiva, non era né un sovversivo né bombarolo. Sorprende la persecuzione di cui è stato oggetto, conclusasi con un’accusa di clandestinità – Gralton era irlandese di nascita ma finì nell’elenco dei personaggi sgraditi al governo e alla chiesa cattolica del suo paese, colpito quindi da decreto di espulsione, senza possibilità di processo. Ma quali le ragioni di un simile accanimento? Parliamo infatti non di ciò che accade a Dublino o a Belfast ma di un piccolo distretto rurale, Leitrim, in apparenza fuori dai grandi giochi di potere. Si scopre però che la politica centrale rovescia le sue nevrosi anche in quest’angolo di campagna. I maggiorenti locali vessano i contadini, i problemi di spartizione della terra e gli sconfinamenti illegali sono all’ordine del giorno, in un contesto di disoccupazione galoppante, dove la chiesa cattolica anziché unire, schierandosi per strada con i più poveri, strizza l’occhio ai padroni. Dal genocidio di Cromwell, scientificamente pianificato ai fini della conquista territoriale e modello dei successivi stermini di massa, l’Irlanda non si è più ripresa. Prima colonia inglese, le è stato riservato un trattamento peggiore di tutte le altre: sfiancata dalla fame, ridotta in una desolante miseria, depredata della lingua – e su tale questione non mancherà di interrogarsi anche Joyce nel Ritratto dell’artista da giovane, che riconosce la sua incoerenza nel voler andare alle proprie radici culturali, usando tuttavia la lingua dei conquistatori, che ha scalzato via il gaelico – qui corre infatti una delle più profonde fratture identitarie del popolo irlandese.
Loach si concentra sugli anni della guerra per l’indipendenza (1919-’21) finita col compromesso a favore del governo britannico, il che innescò un altro conflitto fratricida mai veramente sopito. Chi tra le file indipendentiste aveva sacrificato tutto, non poteva accettare di svendere se stesso e i compagni al trattato con gli inglesi. Questa guerra civile è stata violentissima, e i suoi strascichi durano tuttora. Ma facciamo un passo indietro. La trattativa con gli inglesi fu sul punto di essere approvata poco prima della guerra mondiale. Nel 1898 il giornalista Arthur Griffith aveva fondato il giornale «United Irishman» (successivamente «Sinn Féin», cioè «Noi stessi»); il gruppo tuttavia si scisse abbastanza precocemente dal momento che Griffith appoggiò l’unione col Regno Unito, mirando a strappare solo l’autogoverno (Home Rule). Nel gennaio del ’13 venne approvato il cosiddetto Home Rule Act, che decretava il processo di unione. Il trattato non poté tuttavia entrare in vigore a causa dello scoppio della Grande Guerra. Fu l’occasione per la Irish Republican Brotherhood, da sempre ostile all’unione con gli inglesi, di riorganizzare le proprie forze. L’insurrezione scoppiò nella Pasqua del 1916, a Dublino (è infatti definita “Insurrezione di Pasqua”). L’indomani circa sessanta volontari fecero irruzione negli uffici delle poste centrali, barricandosi all’interno. Venne proclamato il Governo Provvisorio della Repubblica Irlandese che resistette per cinque giorni all’assedio di ventimila soldati britannici. Ripreso il controllo della situazione, si istituirono nel mese di maggio corti marziali a raffica che decretarono la condanna a morte di quindici capi rivoluzionari. La gente comune, che sulle prime non aveva solidarizzato granché con gli insorti, cambiò radicalmente opinione dopo le condanne. Il poeta William Butler Yeats, da sempre impegnato nelle turbolente vicissitudini del proprio paese – tra parentesi questo fa la differenza tra uno che scrive i suoi versi, tanto per passare il tempo, e un grande – inviò subito un messaggio a Lady Gregory, sua mecenate e protettrice: «Cerco di scrivere un componimento sugli uomini giustiziati: una bellezza terribile è rinata». La poesia sulle esecuzioni di maggio è Easter 1916 e fa parte della raccolta The Wild Swans at Coole (I cigni selvatici a Coole), pubblicata nel ’17 e poi nel ’19. Alla fine della guerra «Sinn Féin» contava centomila membri e si impose alle elezioni politiche. Dette dunque vita a un’assemblea di delegati, il «Dáil Éireann», che proclamò il Governo Nazionale del Libero Stato Irlandese. Gli inglesi risposero con un massiccio stanziamento di forze di polizia regolare nell’Irlanda del Sud, reclutando un contingente speciale, il Black and Tans, tristemente noto per le atrocità commesse: pestaggi, torture, omicidi. La guerra per l’indipendentismo ebbe una battuta d’arresto nel ’21 con l’apertura dei negoziati che portarono alla conferenza di Londra dove l’Irish Free State venne riconosciuto come dominion del Commonwealth. Iniziò così la guerra tra favorevoli alla soluzione del conflitto, i cosiddetti Regulars dell’esercito governativo, e gli Irregulars, nucleo in cui confluirono i combattenti dell’Irish Republican Army (I.R.A). La posizione degli Irregulars si indebolì gradualmente fino al 23 agosto 1923 quando si dispose il cessate il fuoco.
Tale è il contesto in cui si trovò ad agire anche Gralton che prese parte alla guerra contro gli inglesi, e fu coinvolto nella successiva guerra civile. La sua prima espulsione avvenne nel 1922. Il suo reato consisteva nell’aver costruito in paese una sala ricreativa, per tenere insieme la comunità nonostante lo sfaldamento che la minacciava nei giorni della ‘caccia alle streghe’, dove tutti sospettavano di tutti, e si andava avanti a colpi di spiate e arresti.
Nella sua ricostruzione, Loach ci tiene a scendere nel dettaglio storico ma al contempo si sforza di farne una metafora fuori dal tempo, che richiami allo spettatore altre lotte. Il suo vuole essere un discorso ad ampio raggio, attraverso il quale il pubblico divenga cosciente del carattere vessatorio dei poteri, della loro indole corruttibile; il denaro, la salvaguardia cieca dei propri interessi, i metodi coercitivi e violenti sono alla radice di ogni ingiustizia sociale, a qualunque latitudine. Né tralascia di parlare di fascismo e nazismo, la cui ombra si allunga dietro e dentro la classe dominante occupata a difendere leggi scritte a propria immagine e somiglianza.
Anche in Jimmy’s Hall governatore, polizia e uomini di chiesa incarnano dunque quello spirito fascista nutrito di provocazioni e atti intimidatori che mira all’affermazione di un solo gruppo a scapito di tutti gli altri. James (Jimmy) Gralton di ritorno in Irlanda nel 1932, dopo dieci anni passati a vivere di espedienti a New York, pensa che il clima sia più disteso, invece realizza ben presto che a ogni angolo sono appostati i nemici di sempre. L’anziano parroco va casa per casa a registrare umori, dicerie, tessendo trame e attizzando antiche rivalità. È il personaggio che nel film raccoglie la maggior stigma. Solo perché non va in chiesa, taccia Gralton di militanza comunista. A denti stretti lo definisce un uomo onesto, un lavoratore senza invidie. Perciò ancor più pericoloso. In uno dei suoi discorsi pubblici, Jimmy dal canto suo dirà: «Ci fanno credere di essere un’unica nazione ma gli interessi dei proprietari sono diversi da quelli dei contadini, degli operai. Cosa volete che importi ai nostri governanti dei disoccupati, dei nostri lavoratori costretti a emigrare?»
Tutte le manovre del prete sono indirizzate alla chiusura della vecchia sala riaperta da Jimmy su richiesta dei ragazzi del paese. La gente lì si diverte e impara qualcosa. Si tengono circoli di lettura, si parla della poesia di Yeats, si fanno considerazioni sui testi – quante volte la scuola ci ha solo bacchettato, filze di voti in cui si è tradotta la distanza tra compagni, quante volte ha rinunciato a aiutarci?
Dopo l’inutile ricerca di un accordo, più di uno dei sostenitori del progetto dichiara apertamente di essere stufo di attenersi al pragmatismo con la chiesa, perché «queste persone non vogliono partecipare, vogliono solo comandare». Dall’altra parte l’ostilità di parole non tarda a trasformarsi in conflitto vero e proprio. Una sera dei malintenzionati, coperti dal buio, cominciano a sparare mandando in frantumi i vetri della sala durante una festa. La tensione salirà ancora, culminando nell’attentato che ridurrà l’edificio a un mucchio di cenere. Viltà, la definisce il giovane sacerdote che prende le distanze dal suo superiore e dai politici di cui si circonda. Ormai non si può più tornare indietro. Quando Jimmy viene raggiunto dal mandato della polizia, non gli resta che tentare la sorte, dandosi alla macchia. Si aspetta che il caso susciti clamore nell’opinione pubblica, che i suoi riescano a dargli manforte, facendo proseliti. Ma è solo un sogno. Quando la madre, che da giovane portava i libri in giro per il paese e nelle scuole educando i ragazzi alla lettura, quando questa donna, autentica figura di matriarca irlandese dal cuore orgoglioso e fermo, legge in pubblico il suo discorso, chiede a chi la ascolta se sia un crimine aver insegnato al figlio a pensare. Questo infatti sconta Jimmy: essere un uomo in grado di valutare con giustezza gli altri uomini, mostrare senso critico, non temere di esprimere le proprie posizioni.
La speranza nel film viene affidata ai giovani: il giovane prete, lo si è detto, che si fa portavoce di un cattolicesimo rinnovato, più tollerante meno compromesso col potere, e i figli, poveri o un po’ più fortunati, tutti pervasi da uno spirito solidale per provare a cambiare le cose. Questi giovani fanno molta tenerezza, perché nel film hanno la peggio.
Non salveranno la sala, non potranno impedire l’espulsione di Jimmy, dovranno sottostare alle leggi violente dei grandi. Però, alla fine, saranno loro a ereditare il mondo. Nelle loro mani le chiavi per aprire le porte sul futuro del paese.
(Di Claudia Ciardi)
Irruzione della polizia e pestaggio delle donne (una scena del film)
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La mia recensione di I cigni selvatici a Coole pubblicata su Lankelot.eu
Il gran rifiuto di Ken Loach a Torino su «Linkiesta» del 22 novembre 2012
La scheda di Jimmy's Hall su Bim distribuzione
Ken Loach
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