Un ragazzino timido e ritenuto quasi dislessico, che
non aveva nessuna inclinazione per la scuola e a nove anni non sapeva ancora
leggere. Un attaccamento fortissimo alla campagna irlandese per la quale
continuava a struggersi da Londra e Dublino. Chi avrebbe scommesso che dentro
questo involucro imbranato, all’apparenza privo di attitudini, aspettasse di
rivelarsi il grande poeta?
Non furono le precoci esperienze nelle grandi città
d’Europa a segnarne l’immaginazione ma i saltuari ritorni nella nativa Contea
di Sligo. Qui crebbe in lui «un vecchio istinto di razza, come di un selvaggio»
che investì la sua vita, facendogli sempre desiderare fino alle lacrime un
pezzetto di terra di quei campi da stringere tra le mani.
E certo Yeats è una figura immensa che si iscrive
profondamente nella storia del suo paese. La sua opera ha dato un grande
contributo al ricongiungimento del popolo irlandese con la propria eredità
culturale. Ne sono testimoni i numerosi scritti dedicati alle leggende, alle
tradizioni contadine, alla sistemazione di un canone di autori rappresentativi
della nazione, una infaticabile attività di letterato-antropologo, di cui il
teatro fu espressione altrettanto cospicua e variegata.
Significativa fu a questo riguardo la collaborazione
con Lady Gregory, la roccia d’Irlanda, l’amica, la confidente dalla quale Yeats
approdò trentunenne in una fase di smarrimento di se stesso e, quindi, della
propria arte. Un’ospitalità generosa che gli dischiuse le bellezze e la pace di
Coole dove da allora in avanti, per più di trent’anni, Yeats sarebbe tornato a
soggiornare, recuperando la sua salute e un equilibrio mentale da tempo
compromessi, trovando nuovi stimoli alla scrittura. Alla Gregory riconobbe di
aver fatto di lui un vero poeta. Ciò che fino a quel momento era stata una
forza latente trovò un fulcro e, crescendo in intensità, si indirizzò a una
nuova ricerca.
I cigni
selvatici a Coole sono dunque la sintesi di un passaggio fondamentale nel destino
poetico di Yeats. La raccolta celebra l’affascinante emotività di un luogo,
espressa non solo nella sua essenza geografica ma più ancora nella sua
consistenza interiore, che i versi tracciano in un puro stato di grazia. “I
cigni” sono una sorta di galleria aperta alle stagioni della vita, dove gli
amici che se ne sono andati ricevono il loro tributo con un’intonazione
melanconica e colma, nella speciale forza data alle cose dal ricordo. Questo inno sepolcrale cantato a una Demetra dal
volto dipinto in bianco e nero sorprende il poeta mentre soppesa la
clavicola di una lepre. E il primitivo manufatto «affinato dalla lingua
dell’acqua» offre la reale visione di un mondo in difetto e la conferma
all’artista di trovarsi su un confine selvaggio, ma infine veramente libero e
autentico.
La poesia di Yeats ha le caratteristiche di un
fluido che attraversa la vita e la morte. Non può considerarsi perciò casuale
il ricorrere dell’immagine della corrente, l’inafferrabile stream che esercita un richiamo potentissimo su ogni essere e porta
nel testo una sorta di memoria allegorica su cui condensa il
misticismo yeatsiano.
Il poeta amalgama la materia in questo lievito
primordiale e accende il fuoco che avvia il processo di trasformazione. Come la
sostanza alchemica, la poesia si compone di due elementi, uno in combustione,
la vita e le sue prove, e uno volatile, la luce lunare che osserva la
metamorfosi del cigno sulle rive del lago, solitaria apparizione del sé.
«Sono uscito da me stesso e ho rivestito un corpo
che non muore. […] Non sono più colorato, tangibile, misurabile», le parole del
Corpus Hermeticum si adattano
perfettamente all’opus di Yeats. Dal dolore e dalla macerazione, «vediamo il nudo
camino spento e nero/ perché l’opera fu compiuta in quella vampa», e tra le
ceneri si raccolgono le membra di Osiride. Yeats, mago e filosofo della natura,
propizia il rinvenimento.
I nostri occhi sono colpiti dal biancore, «tra
l’attrazione del plenilunio e della luna nuova», come davanti al modello di Omero, nel componimento “La doppia visione di Michael Robartes”. Noi stiamo camminando in bilico sul
bordo dell’albedo, e da qui
raggiungiamo «il picco di follia» quale giusta ricompensa, ossia uno sguardo
chiaro e fermo su ciò che abbiamo attraversato in vita. L’opera al bianco,
l’unione degli opposti nel foco che gli
affina, ha finalmente dato il suo frutto di conoscenza.
(Di Claudia Ciardi - articolo del 2011)
*Alcuni dei componimenti, entrati nella “rosa” di
Coole, fecero la loro prima comparsa a stampa nel 1917 sulle riviste «The
Little Review» e «Poetry (Chicago)». L’edizione di I cigni selvatici a Coole risale al 1919.
Senza dubbio le caratteristiche simboliche ed
evocative del cigno e del mito di Leda, oltre al legame personale con il
paesaggio onirico di Coole, esercitarono sul poeta un fascino duraturo e lo
spinsero a sviluppare ampiamente questi temi.
Edizione consigliata:
William Butler Yeats, I cigni selvatici a Coole,
introduzione e commento di Anthony L. Johnson, traduzione di Ariodante
Marianni, testo inglese a fronte, Bur, 2001 [prima edizione, 1989]
Yeats scelse a sua dimora Thoor Ballylee, una torre normanna acquistata intorno al giugno 1917. Gli arredi ordinò che venissero ricavati da un vecchio olmo della tenuta. In un poeta attento alla simbologia esoterica e alchemica la scelta di una casa-torre non passa inosservata. Nei tarocchi la torre squarciata dal fulmine rimanda al crollo delle difese, metaforicamente la distruzione delle fondamenta e delle certezze che riteniamo rassicuranti. Dall’altra parte ciò può avere anche implicazioni positive, tese al rinnovamento. Le costruzioni mentali complesse finiscono per decadere. Rompere i muri mentali se si vuole vedere oltre.
La Sibilla eritrea. Acquaforte di Giuseppe Canale (Roma, 1725 - Dresda, 1802). Collezione privata. Dal catalogo: Tarocchi dal Rinascimento a oggi, Edizioni Lo Scarabeo. In collaborazione col Museo Ettore Fico di Torino. Mostra aperta fino al 14 gennaio 2018.
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