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8 gennaio 2018

W. B. Yeats - I cigni selvatici a Coole




Un ragazzino timido e ritenuto quasi dislessico, che non aveva nessuna inclinazione per la scuola e a nove anni non sapeva ancora leggere. Un attaccamento fortissimo alla campagna irlandese per la quale continuava a struggersi da Londra e Dublino. Chi avrebbe scommesso che dentro questo involucro imbranato, all’apparenza privo di attitudini, aspettasse di rivelarsi il grande poeta?
Non furono le precoci esperienze nelle grandi città d’Europa a segnarne l’immaginazione ma i saltuari ritorni nella nativa Contea di Sligo. Qui crebbe in lui «un vecchio istinto di razza, come di un selvaggio» che investì la sua vita, facendogli sempre desiderare fino alle lacrime un pezzetto di terra di quei campi da stringere tra le mani.
E certo Yeats è una figura immensa che si iscrive profondamente nella storia del suo paese. La sua opera ha dato un grande contributo al ricongiungimento del popolo irlandese con la propria eredità culturale. Ne sono testimoni i numerosi scritti dedicati alle leggende, alle tradizioni contadine, alla sistemazione di un canone di autori rappresentativi della nazione, una infaticabile attività di letterato-antropologo, di cui il teatro fu espressione altrettanto cospicua e variegata.
Significativa fu a questo riguardo la collaborazione con Lady Gregory, la roccia d’Irlanda, l’amica, la confidente dalla quale Yeats approdò trentunenne in una fase di smarrimento di se stesso e, quindi, della propria arte. Un’ospitalità generosa che gli dischiuse le bellezze e la pace di Coole dove da allora in avanti, per più di trentanni, Yeats sarebbe tornato a soggiornare, recuperando la sua salute e un equilibrio mentale da tempo compromessi, trovando nuovi stimoli alla scrittura. Alla Gregory riconobbe di aver fatto di lui un vero poeta. Ciò che fino a quel momento era stata una forza latente trovò un fulcro e, crescendo in intensità, si indirizzò a una nuova ricerca.
I cigni selvatici a Coole sono dunque la sintesi di un passaggio fondamentale nel destino poetico di Yeats. La raccolta celebra l’affascinante emotività di un luogo, espressa non solo nella sua essenza geografica ma più ancora nella sua consistenza interiore, che i versi tracciano in un puro stato di grazia. “I cigni” sono una sorta di galleria aperta alle stagioni della vita, dove gli amici che se ne sono andati ricevono il loro tributo con un’intonazione melanconica e colma, nella speciale forza data alle cose dal ricordo. Questo inno sepolcrale cantato a una Demetra dal volto dipinto in bianco e nero sorprende il poeta mentre soppesa la clavicola di una lepre. E il primitivo manufatto «affinato dalla lingua dell’acqua» offre la reale visione di un mondo in difetto e la conferma all’artista di trovarsi su un confine selvaggio, ma infine veramente libero e autentico.
La poesia di Yeats ha le caratteristiche di un fluido che attraversa la vita e la morte. Non può considerarsi perciò casuale il ricorrere dell’immagine della corrente, l’inafferrabile stream che esercita un richiamo potentissimo su ogni essere e porta nel testo una sorta di memoria allegorica su cui condensa il misticismo yeatsiano.
Il poeta amalgama la materia in questo lievito primordiale e accende il fuoco che avvia il processo di trasformazione. Come la sostanza alchemica, la poesia si compone di due elementi, uno in combustione, la vita e le sue prove, e uno volatile, la luce lunare che osserva la metamorfosi del cigno sulle rive del lago, solitaria apparizione del sé.
«Sono uscito da me stesso e ho rivestito un corpo che non muore. […] Non sono più colorato, tangibile, misurabile», le parole del Corpus Hermeticum si adattano perfettamente all’opus di Yeats. Dal dolore e dalla macerazione, «vediamo il nudo camino spento e nero/ perché l’opera fu compiuta in quella vampa», e tra le ceneri si raccolgono le membra di Osiride. Yeats, mago e filosofo della natura, propizia il rinvenimento.
I nostri occhi sono colpiti dal biancore, «tra l’attrazione del plenilunio e della luna nuova», come davanti al modello di Omero, nel componimento “La doppia visione di Michael Robartes”. Noi stiamo camminando in bilico sul bordo dell’albedo, e da qui raggiungiamo «il picco di follia» quale giusta ricompensa, ossia uno sguardo chiaro e fermo su ciò che abbiamo attraversato in vita. L’opera al bianco, l’unione degli opposti nel foco che gli affina, ha finalmente dato il suo frutto di conoscenza.

(Di Claudia Ciardi - articolo del 2011)

*Alcuni dei componimenti, entrati nella “rosa” di Coole, fecero la loro prima comparsa a stampa nel 1917 sulle riviste «The Little Review» e «Poetry (Chicago)». L’edizione di I cigni selvatici a Coole risale al 1919.
Senza dubbio le caratteristiche simboliche ed evocative del cigno e del mito di Leda, oltre al legame personale con il paesaggio onirico di Coole, esercitarono sul poeta un fascino duraturo e lo spinsero a sviluppare ampiamente questi temi.

Edizione consigliata:

William Butler Yeats, I cigni selvatici a Coole, introduzione e commento di Anthony L. Johnson, traduzione di Ariodante Marianni, testo inglese a fronte, Bur, 2001 [prima edizione, 1989]


Yeats scelse a sua dimora Thoor Ballylee, una torre normanna acquistata intorno al giugno 1917. Gli arredi ordinò che venissero ricavati da un vecchio olmo della tenuta. In un poeta attento alla simbologia esoterica e alchemica la scelta di una casa-torre non passa inosservata. Nei tarocchi la torre squarciata dal fulmine rimanda al crollo delle difese, metaforicamente la distruzione delle fondamenta e delle certezze che riteniamo rassicuranti. Dall’altra parte ciò può avere anche implicazioni positive, tese al rinnovamento. Le costruzioni mentali complesse finiscono per decadere. Rompere i muri mentali se si vuole vedere oltre.



La Sibilla eritrea. Acquaforte di Giuseppe Canale (Roma, 1725 - Dresda, 1802). Collezione privata. Dal catalogo: Tarocchi dal Rinascimento a oggi, Edizioni Lo Scarabeo. In collaborazione col Museo Ettore Fico di Torino. Mostra aperta fino al 14 gennaio 2018.




12 marzo 2017

Dal mito antico al grido espressionista. Spunti per una lettura dei Cantos


Ripropongo di seguito alcuni stralci della lezione sui Pisan Cantos che si tenne presso la sede della casa editrice ETS il pomeriggio del 23 marzo 2011. In coda allarticolo le riproduzioni delle pagine che si riferiscono a questo intervento, contenute nel volume degli Annali dellAccademia dellUssero, stampato nel 2011.


Le rovine di Palmira

In una lettera del 12 ottobre 2010, Mary de Rachewiltz mi sollecitava a tornare ai temi del Canto 76, eccezionale inscriptio vastitudinis che bolla con parole di fuoco la follia della guerra: «Formica solitaria da un formicaio distrutto/ dalle rovine d’Europa, ego scriptor./ È caduta la pioggia, il vento vien giù/ dai monti/ Lucca, Forte dei Marmi, Berchthold dopo l’altra…/ parti rimesse insieme […]/ e le nuvole sui prati di Pisa/ non hanno nulla da invidiare alle altre/ sulla penisola/ oi bárbaroi non le hanno distrutte/ come il Tempio di Sigismundo/ Divae Ixottae (e la sua effigie a Pisa?)». Inviando una fotografia nella quale era riprodotto il “busto di gentildonna ignota” entrato in Camposanto nel 1823, di cui sarebbe autore Matteo Civitali, e per lo più identificato impropriamente con Isotta da Rimini (così pure secondo i versi poundiani, cf. supra), mi chiedeva notizie circa la sua sorte: «Le avevo già chiesto se si è mai saputo che fine abbia fatto. Canto 76. Io non l’ho trovata. Anche nel libro Rimini (1882) c’è quest’immagine in piccolo e dice che è nel Camposanto di Pisa – (distrutto…) Non so perché quest’immagine mi si presenta di continuo».
Dunque, icona della bellezza e della femminilità, e anche dell’arte che patisce il vulnus della guerra, andando incontro alla distruzione. Ma questo atteggiamento di rifiuto della violenza, come si potrebbe pensare in un primo momento, non fa il suo ingresso nella poesia “pisana”. In realtà, Pound lo mette a fuoco fin dalle battute iniziali della sua opera, cosicché la denuncia dei mali della guerra si scopre intrinseca al suo verso. Considerando che i primi trenta Cantos sono stati abbozzati e scritti tra il 1912 e il 1929, vi si trovano già quasi tutti gli elementi che entreranno nel suo laboratorio poetico, dalla precoce esperienza di esule in conflitto con le proprie origini, alla constatazione di una pericolosa deriva culturale che vedeva affermarsi saperi e studi specialistici troppo spesso non comunicanti tra loro, fino ai durissimi colpi inferti dalla Grande Guerra prima e poi dalla pesante crisi economica, due eventi che cambiano profondamente e a un prezzo altissimo i connotati delle società occidentali.
Quando gli amici più cari se ne vanno a combattere senza tornare, l’inquietudine e il disincanto diventano incontenibili. È la fine dell’avventura perfetta e magnifica degli anni londinesi. Le idee affrontate nella sua incipiente teoria letteraria, orientata al recupero delle radici poetiche del passato, greche e provenzali, e alla necessità di rinvenire i frammenti dispersi della realtà, − I gather the limbs of Osiris è per l’appunto il titolo programmatico dell’essay concepito tra il 1911 e il ’12 – dopo il dramma mondiale acquistano un rilievo ancor più marcato. Più che naturale, quindi, se in questo primo, eppure già densissimo, saggio dell’opus magnum, Ezra Pound intride la materia poetica dei temi e delle metafore da cui svilupperà la sua complessa costruzione, riflesso di un ininterrotto lavorío interiore ed anche di uno slancio continuamente teso al raggiungimento di una mèta ideale.
E c’è un altro aspetto che contribuisce, forse in maggior grado, alla sua levatura artistica. Nelle vesti di infaticabile passeggiatore tra luoghi e culture, Ezra plasma la propria opera utilizzando due strumenti che gli permettono una straordinaria capacità di movimento, e perciò un’infiltrazione capillare e trasversale all’interno del molteplice problematico di attualità e tradizione: il mýthos e l’épos.
Il mito, espressione prima del pensiero greco antico, è un enunciato orale, nel quale può ravvisarsi un precetto e in generale quel vasto e stratificato patrimonio di conoscenze in cui si condensano le origini di una cultura. Questo insieme fluido e composito non è certamente il prodotto creativo di un singolo ma piuttosto un “prodursi” che racchiude in sé diverse sensibilità ed esperienze.
Un simile amalgama condivide le sue caratteristiche con la “poesia”, poieîn, ossia una narrazione senza intenzionalità ma che reca intatto il seme creativo e demiurgico di ogni forma d’arte. Allora, mito come insieme di storie ma non storia. E tuttavia in costante dialogo con la storia. L’epica è il punto in cui queste due sponde entrano in contatto. Ma più ancora è ciò che porta con sé «la responsabilità per la vita che si distrugge», secondo l’efficace definizione di Elias Canetti; una fotografia scattata sull’orlo del precipizio.
Allo stesso modo di Edipo, Pound si aggira per le vie di Tebe, guarda negli occhi la Sfinge, studia il suo enigma, lasciando che alimenti il labirinto del poema. Edipo uccide la Sfinge ma non sfugge alla Nemesi che incombe sulla sua stirpe. Tebe è il luogo del conflitto e della problematicità religiosa, legislativa e giuridica per eccellenza. E del resto, l’arte e l’aspirazione all’arte sono essi stessi territori conflittuali ed enigmatici, nei quali si sta sospesi ai margini dell’essere.  
I Cantos sono una rappresentazione della Sfinge che siede sull’insolvibile poetico. Pound non ha la pretesa di decifrarlo, piuttosto di mostrarlo. Attraverso il dilemma provoca la reazione del lettore, non fosse altro per indicargli che la soluzione è proprio l’uomo. Nulla di più banale e complesso a un tempo.
Creatore di incontri, disegnatore di collisioni tra suoni, immagini, parole, culture, la sua è quasi una predicazione, una recitazione ossessiva con l’intento di riportarci al sema, il segno, come insieme grafico di significante e significato. E restituire le parole all’essenza del segno, vuol dire chiarezza, ossia il fondamento di ogni onestà, morale e intellettuale.   
Il Canto IV, rielaborato nel 1919, nel quale entra presumibilmente l’affanno della realtà del dopoguerra, si apre con la caduta di Troia, la gloriosa città di cui non restano altro che macerie e cenere, e un’accorata implorazione del poeta agli dei, in particolare ad Apollo, perché la sua parola sia ascoltata. L’immagine della guerra sembra quindi influire sul rovesciamento del modulo che ricorre nell’incipit di ogni narrazione epica: non più “cantami”, rivolto alla Musa, ma “ascoltami”, con cui si cerca di richiamare l’attenzione del dio della poesia, responsabile degli oracoli. Il grido della città lungamente assediata ed espugnata, che ha subito una profanazione di luoghi e corpi, si prolunga nel grido di Itis, servito alla mensa del padre Tereo, e poi ancora nel riferimento a Cabestan, il trovatore amante di Seremonda, costretta dalla vendetta del marito a mangiarne il cuore.
Ezra Pound si serve a piene mani del simbolismo dello sparagmós, ossia lo smembramento della vittima nel contesto rituale dionisiaco. Ma al di là della perdita di spazi e persone si intravede la possibilità di una ricomposizione pacifica. Allo sparagmós succede infatti il momento dell’unione augurale, con l’imeneo intonato alla sposa e, di seguito, la visione della città ideale di Ecbatana.   
Molti saranno in corso d’opera i ritorni alla sezione proemiale dei Cantos, e più dettagliate le variazioni costruite volta per volta dal poeta sullo sfondo di rinnovate esperienze. Dalle catabasi iniziatiche, ispirate a Odisseo e alle discese orfiche, alla navigatio di Iside in cerca delle membra di Osiride, dalla fine del giovane Adone, allegoria del principio di morte e rigenerazione che è nella natura, al dramma rituale di Dioniso Zagreo, nel quale a intervalli di tempo la tradizione letteraria e filosofica occidentale ha riconosciuto l’essenza stessa del tragico – così ad esempio Hugo von Hofmannsthal: «le potenze della vita dilaniarono il corpo di Dioniso in pezzi» che «caddero qua e là sulla terra come grandi, pesanti stelle cadenti nelle notti d’estate».
Dunque, da una parte Tebe accecata dalla tirannide, che profana i legami tra consanguinei e rifiuta di onorare Dioniso, dall’altra la volontà del poeta di risolvere positivamente questa tensione. Anche nei giorni più bui della prigionia emerge una riconoscenza per quel che si è vissuto, nella convinzione che il suo racconto, il suo incarnarsi nel verso, possa diventare testimonianza e insegnamento per altri: «Se il gelo ti stringe la tenda / saluterai l’alba ringraziando», con questa epigrafe che ricorda il distico di un inno alla terra si chiudono per lappunto i Pisan Cantos.

[...]

Abbiamo quindi avuto modo di parlare di cultura europea, nel contesto dei rimandi tra America e vecchio continente, in un momento peraltro molto complesso che mette alla prova, rimescolandoli, gli equilibri geopolitici nel Mediterraneo e, in generale, i rapporti tra i paesi occidentali.
Pound è stato un uomo di confine, profondamente spezzato, che aveva capito l’entità della frattura che nei secoli aveva scosso l’occidente, una irriducibilità già avvistata nel proprio paese – la sua autobiografia è non a caso Une Revue des deux Mondes, ossia una cronaca familiare incline al romanzo storico, nella quale si mettono a nudo le notevoli aporie tra est e ovest americano. Siamo di fronte a uno dei grandi critici e interpreti della sintassi entro cui si distribuiscono le nostre identità culturali, uno di quei tessitori d’eccezione che si abbeverano ad ogni goccia di sapere, sfidando agitate periferie e chiusure di frontiera, zone dove si viaggia scomodamente, talora pagando con tutti gli interessi, e anche più.
Il ductus poundiano sta nel disinvolto eclettismo con cui afferra la tradizione, talora smascherando in lei certi vizi un po’ maniacali da vecchia signora ma isolandone anche i punti di forza, imprescindibili per ogni lavoro creativo e per l’elaborazione di una mitologia credibile di fatti e personae. In un modo personalissimo fa parte del gruppo di quegli studiosi – si pensi per l’arte e la storia e filosofia ad un personaggio ingombrante come Aby Warburg – i quali, prendendo le mosse dai paradigmi del mito, hanno cercato di rintracciare l’importante eredità, in termini di etica e metodo, rappresentata dall’antichità nell’occidente contemporaneo, col proposito di richiamare tale sopravvivenza alla nostra attenzione di eredi spesso distratti o inconsapevoli.

(Di Claudia Ciardi, 23 marzo 2011)



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28 luglio 2016

Thomas Stearns Eliot «Non c'è neppure solitudine fra i monti»




Si vuole qui commentare brevemente la chiusa del The Waste Land, oscillante tra allucinazione colta, miraggio onirico e profetismo nietzschiano, del quale si coglie un riflesso nel titolo, Ciò che disse il tuono, ma che nei fatti risulta subito disinnescato da un’attitudine alla miniatura ironica e scomposta, in linea col resto del poema. Riconosciuto all’unanimità come pietra angolare della poesia novecentesca, che con questo lavoro di Eliot si allarga a nuovi orizzonti sul piano tecnico e dei suoi principi ispiratori, in riferimento alla mia esperienza personale posso dire di averlo letto una dozzina di volte in italiano e altrettante in inglese. E di non esserne ancora sazia, direi anzi per nulla. Il fotomontaggio per frammenti che Eliot ha concepito sfugge e allo stesso tempo attrae in virtù della sua assoluta compiutezza. Le intersezioni letterarie, il loro peso immaginifico, ma ancor più la disinvoltura con cui vengono fatte cadere nel grembo dell’opera, le assicurano il costante ritorno di chi legge.
Lode del frammento, della rovina, dell’abbandono, di ciò che non si riesce compiutamente a raccontare di sé, come lautore non manca di ribadire in una delle strofe finali che introducono non a caso l’immagine dantesca della prigione di Ugolino. È chiara, soprattutto, l’amarezza per il poeta che non sa trasmettere agli altri il momento della resa (a moment’s surrender), quando spiritualmente diviene unisono col mondo raggiungendo quelle altezze interiori che l’ordinarietà delle cose disperde: «La terribile audacia d’un momento d’abbandono/ che una vita di prudenza non potrà mai revocare». Disfatta e attesa di rigenerazione in un aprile “non crudele”, questi i due centri radiali che tengono a battesimo l’intero ragionamento poetico. 
Tali tematiche si prestano all’entrata in scena di quelle ombre rituali ed escatologiche che si addensano attorno a buona parte della lirica anglosassone del primo Novecento. Lo smembramento di Osiride-Dioniso, metafora dell’atomizzazione della storia dopo la prima guerra mondiale, la morte di Cristo, associato a Tammuz e alle altre figure divine della fertilità, che raccoglie su di sé l’idea di una palingenesi, cui spesso si accompagna l’alternarsi delle stagioni imperniate sulla primavera, come metafora di rinascita. Anche qui infatti l’origine è aprile, sebbene di un tempo sovvertito si tratti, doloroso snodo di memoria e desiderio dove tutto si rimescola. A ciò vanno aggiunte l’allegoria dell’ascesa al monte e la sacralità che circonfonde il paesaggio di montagna, così come il viaggiatore che gli si avvicina. Nel caso del passo di Eliot, tutto risulta amplificato dall’accumulo di altri indizi pertinenti con l’immaginario sacro orientale: il Gange, il fiume della vita e della morte, asse dell’induismo, il riferimento esplicito all’Himavant, una delle cime dell’Himalaya che presiede alla manifestazione del tuono, e le citazioni dalle Upanishad, che Eliot era in grado di padroneggiare avendo studiato sanscrito ad Harvard nel 1911-’13. Una propensione all’orientalismo che attraversa la cultura europea dalla fine del Settecento, continuando a ramificarsi nelle più recenti espressioni della creatività letteraria. Pensiamo ad esempio al soggiorno di W. B. Yeats a Palma di Majorca in compagnia di uno Swami indiano, Shri Purohit, al fine di tradurre insieme le maggiori Upanishad.
Si consideri la frequenza con la quale simili riferimenti affiorano tra le pagine dei Pisan Cantos di Ezra Pound, la cui elaborazione risale al termine della seconda guerra mondiale ma che evidentemente sviluppano motivi già incardinati nel ciclo dei Cantos inaugurato nel 1919. Uno su tutti, la sovrapposizione tra il Taishan, il complesso montuoso venerato in Cina, e i Monti Pisani che fanno da sfondo alla prigionia del poeta. Allegoria, quella della salita al monte, che nell’immaginario poundiano si salda sull’essenza femminile in quanto mistica portatrice di un principio di creazione: «To be gentildonna in a lost town in the mountains» (Canto 78).
Sui nomi di Eliot, Pound, Yeats confluiscono dunque interessi che attengono al medesimo sostrato culturale, dagli spunti mitologici all’esoterismo, dal modo di dialogare con l’antico e in generale con le lingue all’insegna del pastiche fino al gioco onomatopeico. Letterati che strinsero tra loro rapporti di amicizia e che forse, proprio per questo, si ritrovarono anche nella trasposizione di una memoria autobiografica, oggetto di scavo simbolico e depositaria di una sintassi parallela a quella del mito.
Le opere dove più sono vivi i contatti cui si accennava originano peraltro nel medesimo arco di anni. Il The Waste Land vide la luce nel ’22, ultimo in ordine di tempo. Dell’inizio dei Cantos si è già detto; li precedette di poco la raccolta I cigni selvatici a Coole di Yeats (’17). Costruiti attorno alla sagoma della vecchia torre normanna di Ballylee, sua amata residenza raggiungibile a piedi da Coole House, dimora dell’amica e protettrice Lady Gregory, i versi di Yeats nella loro soffusa rappresentazione di un cosmo primitivo dal quale dipende l’alchimia spirituale che sorregge l’intera architettura poetica, esprimono probabilmente una delle più profonde consonanze con il poema di Eliot. Quell’accenno à la tour abolie, la torre infranta, su cui si chiude La terra desolata appare quasi un tributo iniziatico alle simbologie del grande poeta irlandese. 

Nei tarocchi la carta della torre, emblema della ragione, ci mostra un fulmine che si abbatte sulla sommità dell’edificio. Monito a non salire troppo in alto, guidati dalla superbia – richiamo al meden agan greco – ma di nuovo pure aspirazione al cambiamento, alla conquista della libertà. La folgore distrugge le strutture del pensiero e in tal senso l’autore guarda con una specie di accondiscendenza al capitolare del proprio stesso lavoro. Il suo sforzo di traduzione imperfetta e incompleta dell’umano sentire, del travaglio di intelligenza e cultura che è alla base della civiltà, trova rifugio e autentica comprensione in una pace che travalica l’esercizio raziocinante.

(Di Claudia Ciardi)  


Ciò che disse il tuono
(Parte V – The Waste Land)

Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
dopo il silenzio gelido nei giardini
dopo langoscia in luoghi petrosi
le grida e i pianti
la prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
del tuono a primavera su monti lontani
colui che era vivo ora è morto
noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
con un po di pazienza

Qui non cè acqua ma soltanto roccia
roccia e non acqua e la strada di sabbia
la strada che serpeggia lassù fra le montagne
che sono montagne di roccia senzacqua
se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
vi fosse almeno acqua fra la roccia
bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
non cè neppure silenzio fra i monti
ma secco sterile tuono senza pioggia
non cè neppure solitudine fra i monti
ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
da porte di case di fango screpolato

Se vi fosse acqua
e niente roccia
se vi fosse roccia
e anche acqua
e acqua
una sorgente
una pozza fra la roccia
se soltanto vi fosse suono dacqua
non la cicala
e lerba secca che canta
ma suono dacqua sopra una roccia
dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini
drip drop drip drop drop drop drop
ma non cè acqua

Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
cè sempre un altro che ti cammina accanto
che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
io non so se sia un uomo o una donna
- ma chi è che ti sta sull'altro fianco?

Cosè quel suono alto nellaria
quel mormorio di lamento materno
chi sono quelle orde incappucciate che sciamano
su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
accerchiata soltanto dal piatto orizzonte
qual è quella città sulle montagne
che si spacca e si riforma e scoppia nellaria violetta
torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
irreali

Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri
e sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
e pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
squittivano, e battevano le ali
e strisciavano a capo all'ingiù lungo un muro annerito
e capovolte nellaria cerano torri
squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore
e voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.

In questa desolata spelonca fra i monti
nella fievole luce della luna, lerba fruscia
sulle tombe sommosse, attorno alla cappella
cè la cappella vuota, dimora solo del vento.
non ha finestre, la porta oscilla,
aride ossa non fanno male ad alcuno.
Soltanto un gallo si ergeva sulla trave del tetto
chicchirichì chicchirichì
nel guizzare di un lampo. Quindi unumida raffica
portatrice di pioggia

Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate
attendevano pioggia, mentre le nuvole nere
si raccoglievano molto lontano, sopra lHimavant.
La giungla era accucciata, ingobbita in silenzio.
allora il tuono parlò
DA
Datta: che abbiamo dato noi?
Amico mio sangue che scuote il mio cuore
lardimento terribile di un attimo di resa
che unèra di prudenza non potrà mai ritrattare
secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
che non si troverà nei nostri necrologi
o sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
o sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
nelle nostre stanze vuote
DA
Dayadhvam: ho udito la chiave
girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei
ravvivano un attimo un Coriolano affranto
DA
Damyata: la barca rispondeva
lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
lietamente, invitato, battendo obbediente
alle mani che controllano

Sedetti sulla riva
a pescare, con la pianura arida dietro di me
riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?
Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo
poi sascose nel foco che gli affina
quando fiam uti chelidon - O rondine rondine
le Prince dAquitaine à la tour abolie
con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
bene allora vaccomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih sbantih sbantib


16 giugno 2013

Ro-Ro-Ro

Ro-Ro-Ro
Rowohlt-Rotations-Roman


Ernst Rowohlt è una pietra miliare nell’editoria tedesca. Fra gli scrittori da lui pubblicati si contano Franz Blei, Alfons Goldschmidt, Heinrich Eduard Jacob, Kurt Pinthus, Alfred Polgar, Robert Musil, conosciuto a Berlino nel ’20, del quale dieci anni dopo inizierà a dare alle stampe L’uomo senza qualità, Hans Fallada, massimo autore del cosiddetto neorealismo weimariano, di cui nel ’32 pubblicherà E adesso pover’uomo? Ma vanno anche ricordati i romanzi di Balzac, Fiesta di Hemingway, e altri americani come Thomas Wolfe e Sinclair Lewis. 
Rowohlt è inoltre l’ideatore, insieme al figlio Heinrich, di quei giornali venduti a un prezzo più che popolare (50 pfennig) sui quali si pubblicavano i grandi classici della letteratura che nella Germania distrutta del dopoguerra (’46) permettevano alle persone di continuare a coltivare il piacere della lettura. Il progetto ci insegna che pure in momenti economicamente difficili è importante salvaguardare la circolazione della cultura. Una bella lezione, di straordinaria attualità, visti i nostri tempi. 
Recentemente le Edizioni Clichy di Firenze hanno riproposto questa idea, stampando su fogli di giornale celebri opere di narrativa al prezzo di 1 euro. Questa versione italiana dei Ro-Ro-Ro (Rowohlt-Rotations-Roman, romanzo Rowohlt stampato in rotativa) è la migliore risposta a chi vive gli investimenti a sostegno della cultura e delle iniziative legate alla sua diffusione come un peso e uno spreco di risorse. Una società colta sarà una società meglio attrezzata ad affrontare i problemi e a mettere in campo gli strumenti necessari per uscire dalle difficoltà.

Ulteriori informazioni nel sito delle Edizioni Clichy


Originally, RO-RO-RO stood for ‘Rowohlt Rotations Romane’: large-format novels printed on cheap newspaper stock and sold at no more than 50 pfennig apiece. In June 1950 their format shrank, as did the letters in the logo: Rowohlt published the first paperback novels on the German market. They were affordable – mainly because they would contain full-page ads for petrol, cars, perfume or cigarettes – and for many, rororos became the first books they could afford to buy with their pocket money. And yet they weren’t just pulp fiction. The first four rororos were by first-class writers of international renown: Hans Fallada, Graham Greene, Rudyard Kipling and Kurt Tucholsky. Rororo told the young Germany of the post-war generation good stories, but it also taught them something about the world.

In 2008, the year of Rowohlt’s hundredth birthday, the rororo paperback ethos still sums up the ideals and ambitions that the publishing house believes in. As Thomas Überhoff, Rowohlt’s fiction editor-in-chief, puts it: ‘We all believe that our books have something to say – they have an aufklärerischer Gestus – but that doesn’t mean they shouldn’t be fun to read. For us, there’s no necessary contradiction between intellect and entertainment, not even between schlock and avant garde.’

ROWOHLT CELEBRATES 100 YEARS (Abstract)
A Profile by Philip Oltermann (2008)


Rowohlts Rotationsromane



Um der steigenden Nachfrage nach billigen Büchern in Deutschland nach dem 2. Weltkrieg und der Währungsreform von 1948 nachzukommen, entwickelte Ernst Rowohlt zusammen mit seinem Stiefsohn Heinrich Maria Ledig-Rowohlt die sog. "Rowohlts-Rotations-Romane". Ihr Ziel war es, möglichst viel Text auf möglichst wenig Papier für möglichst wenig Geld zu verkaufen. So wurden die großen Romane der Weltliteratur im Rotationsverfahren (beim Zeitungsdruck angewandtes Rolldruckverfahren) auf stark holzhaltigem Papier gedruckt und als ungebundene und ungeheftete Hefte in Zeitungsformat zu 50 Pfennig das Stück verkauft. Auf diesen Heften wurden in den 50er-Jahren die ersten Taschenbücher des Rowohlt Verlags, die sich noch heute unter dem Namen ro-ro-ro einer großen Beliebtheit erfreuen.

Rororo war die erste Taschenbuch-Reihe in Deutschland. Im Juni 1950 erschien im Rowohlt Verlag mit Hans Falladas «Kleiner Mann - was nun?» der Starttitel in ein neues Buchzeitalter. Heinrich Maria Ledig-Rowohlt hatte die Idee preisgünstiger Paperbacks aus Amerika mitgebracht und revolutionierte damit den deutschen Buchmarkt. Nach einem Jahr waren bereits mehr als eine Million rororo Taschenbücher gedruckt. Werke, die noch heute zur Weltliteratur zählen, schmückten von Beginn an das Programm: Graham Greene, Albert Camus, Rudyard Kipling, Kurt Tucholsky, Ernest Hemingway - um nur einige der berühmtesten und erfolgreichsten Autoren der ersten Stunde zu nennen.

Seither sind rund 16 000 rororo Bände erschienen, in einer Gesamtauflage von nahezu 600 Millionen Exemplaren. Die erfolgreichsten Bücher waren Friedrich Dürrenmatts «Der Richter und sein Henker» und Wolfgang Borcherts «Draußen vor der Tür», beide mit Auflagen von mehr als zweieinhalb Millionen Exemplaren. Allein zwölf Literaturnobelpreisträger finden sich in der Geschichte von rororo. 

Aber auch Sachbücher prägten und prägen das Gesicht des Rowohlt Taschenbuch Verlags. 1955 wurde mit rowohlts deutscher enzyklopädie unter dem Motto «Das Wissen des 20. Jahrhunderts» die erste Sachbuch-Reihe gegründet, 1958 die berühmten monographien, auch heute noch ebenso populär wie nützlich. 1961 erschien der von Martin Walser herausgegebene erste Band der aktuell-Reihe, die seither mit über 700 Publikationen das politische Zeitgeschen kritisch begleitete.

Um die programmatische Vielfalt und das expandierende Titelvolumen übersichtlich zu gestalten, kam es immer wieder zu Neugründungen von Reihen. Ob Belletristik, Sachbuch oder Ratgeber - die Geschichte von rororo ist auch die Geschichte ständiger Programminnovationen. Zuletzt kam 1998 das Wunderlich Taschenbuch hinzu mit rund sechzig Unterhaltungstiteln jährlich. 

Zu allen Neuerscheinungen im Rowohlt Taschenbuchverlag

Rowohlt Taschenbuch Verlag 
Hamburger Straße 17
21465 Reinbek

See also:

Die Rotationsromane des Rowohlt-Verlags






Auch Kurt Tucholsky gehörte zu den Rowohlt-Autoren. Er starb 1935 in der Emigration
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Ringrazio Radio Città futura nelle persone di Alberto Gaffi, Fabrizio Patriarca e Gabriele Sabatini per aver dedicato questa mattina uno spazio della trasmissione Carta Vetrata al volumetto di Robert Musil, Narra un soldato, edito da Via del Vento edizioni.

Abstract

«L’immaginario musiliano ruota attorno all’impero austro-ungarico votato alla fine. Risente della problematica coesistenza dei diversi popoli che articolano il concetto di Mitteleuropa, un mosaico complesso, segnato da convivenze difficili. Nella vita di Musil, come dei suoi contemporanei, l’evento della guerra rappresenta un punto di rottura, una lacerazione e uno sradicamento dei quali si fa fatica a parlare.
La guerra segna la disgregazione dell’impero austro-ungarico e orienta profondamente la poetica musiliana che registra il trauma e quindi il crollo epocale del mondo di cui è figlia. Dopo il primo conflitto mondiale l’Europa acquista la sconvolgente consapevolezza della mutilazione che si è autoinflitta. Nelle coscienze restano solo dei frammenti, dei lacerti che sono come ciò che affiora del sartiame di una nave dopo il naufragio.
La forma del frammento diviene anche una metafora narrativa della dissoluzione, del dramma che l’ha causata e del recupero di ciò che è stato disperso. È l’affannosa ricerca di un senso che gli eventi hanno rovinosamente distrutto, polverizzato.
Si spiega allora l’attenzione dedicata dallo stesso Musil alla figura di Osiride. Ma si spiega pure come questa immagine riaffiori nei poeti anglosassoni, il corpo lacerato di Osiride è uno dei simulacri che ispirano il viaggio poundiano, e si può dire che alimenta, nascostamente ma neppure tanto, anche l’epica del The Waste Land.  
Pare, dunque, che il mito di Osiride presieda a una elaborazione sincronica del lutto collettivo generato dalla guerra». 

(di Claudia Ciardi)
See also:

Carta Vetrata  (in diretta da Roma)

Su Walter Benjamin e Robert Musil - I dilemmi della traduzione - Claudia Ciardi e Paolo Zignani, «Quaderni corsari», 3 giugno 2013

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