Ripropongo di seguito alcuni stralci della lezione sui Pisan Cantos che si tenne presso la sede della casa editrice ETS il pomeriggio del 23 marzo 2011. In coda all’articolo le riproduzioni delle pagine che si riferiscono a questo intervento, contenute nel volume degli Annali dell’Accademia dell’Ussero, stampato nel 2011.
Le rovine di Palmira
In una lettera del 12
ottobre 2010, Mary de Rachewiltz mi sollecitava a tornare ai temi del Canto 76,
eccezionale inscriptio vastitudinis
che bolla con parole di fuoco la follia della guerra: «Formica solitaria da un
formicaio distrutto/ dalle rovine d’Europa, ego scriptor./ È caduta la
pioggia, il vento vien giù/ dai monti/ Lucca, Forte dei Marmi, Berchthold
dopo l’altra…/ parti rimesse insieme […]/ e le nuvole sui prati di Pisa/ non
hanno nulla da invidiare alle altre/ sulla penisola/ oi bárbaroi non le hanno distrutte/ come il Tempio di Sigismundo/
Divae Ixottae (e la sua effigie a Pisa?)». Inviando una fotografia nella quale
era riprodotto il “busto di gentildonna ignota” entrato in Camposanto nel 1823,
di cui sarebbe autore Matteo Civitali, e per lo più identificato impropriamente
con Isotta da Rimini (così pure secondo i versi poundiani, cf. supra), mi chiedeva notizie circa la sua
sorte: «Le avevo già chiesto se si è mai saputo che fine abbia fatto. Canto 76.
Io non l’ho trovata. Anche nel libro Rimini
(1882) c’è quest’immagine in piccolo e dice che è nel Camposanto di Pisa –
(distrutto…) Non so perché quest’immagine mi si presenta di continuo».
Dunque, icona della
bellezza e della femminilità, e anche dell’arte che patisce il vulnus della guerra, andando incontro
alla distruzione. Ma questo atteggiamento di rifiuto della violenza, come si
potrebbe pensare in un primo momento, non fa il suo ingresso nella poesia
“pisana”. In realtà, Pound lo mette a fuoco fin dalle battute iniziali della
sua opera, cosicché la denuncia dei mali della guerra si scopre intrinseca al
suo verso. Considerando che i primi trenta Cantos sono stati abbozzati e scritti tra il 1912 e il 1929, vi si trovano già quasi tutti gli elementi che entreranno
nel suo laboratorio poetico, dalla precoce esperienza di esule in conflitto con
le proprie origini, alla constatazione di una pericolosa deriva culturale che
vedeva affermarsi saperi e studi specialistici troppo spesso non comunicanti
tra loro, fino ai durissimi colpi inferti dalla Grande Guerra prima e poi dalla
pesante crisi economica, due eventi che cambiano profondamente e a un prezzo
altissimo i connotati delle società occidentali.
Quando gli amici più
cari se ne vanno a combattere senza tornare, l’inquietudine e il disincanto
diventano incontenibili. È la fine dell’avventura perfetta e magnifica degli
anni londinesi. Le idee affrontate nella sua incipiente teoria letteraria,
orientata al recupero delle radici poetiche del passato, greche e provenzali, e
alla necessità di rinvenire i frammenti dispersi della realtà, − I gather the limbs of Osiris è per
l’appunto il titolo programmatico dell’essay
concepito tra il 1911 e il ’12 – dopo il dramma mondiale acquistano un rilievo
ancor più marcato. Più che naturale, quindi, se in questo primo, eppure già
densissimo, saggio dell’opus magnum,
Ezra Pound intride la materia poetica dei temi e delle metafore da cui
svilupperà la sua complessa costruzione, riflesso di un ininterrotto lavorío
interiore ed anche di uno slancio continuamente teso al raggiungimento di una
mèta ideale.
E c’è un altro aspetto
che contribuisce, forse in maggior grado, alla sua levatura artistica. Nelle
vesti di infaticabile passeggiatore tra luoghi e culture, Ezra plasma la
propria opera utilizzando due strumenti che gli permettono una straordinaria
capacità di movimento, e perciò un’infiltrazione capillare e trasversale
all’interno del molteplice problematico di attualità e tradizione: il mýthos e l’épos.
Il mito, espressione
prima del pensiero greco antico, è un enunciato orale, nel quale può ravvisarsi
un precetto e in generale quel vasto e stratificato patrimonio di conoscenze in
cui si condensano le origini di una cultura. Questo insieme fluido e composito
non è certamente il prodotto creativo di un singolo ma piuttosto un “prodursi”
che racchiude in sé diverse sensibilità ed esperienze.
Un simile amalgama
condivide le sue caratteristiche con la “poesia”, poieîn, ossia una narrazione senza intenzionalità ma che reca
intatto il seme creativo e demiurgico di ogni forma d’arte. Allora, mito come
insieme di storie ma non storia. E tuttavia in costante dialogo con la storia.
L’epica è il punto in cui queste due sponde entrano in contatto. Ma più ancora
è ciò che porta con sé «la responsabilità per la vita che si distrugge»,
secondo l’efficace definizione di Elias Canetti; una fotografia scattata
sull’orlo del precipizio.
Allo stesso modo di
Edipo, Pound si aggira per le vie di Tebe, guarda negli occhi la Sfinge, studia
il suo enigma, lasciando che alimenti il labirinto del poema. Edipo uccide la
Sfinge ma non sfugge alla Nemesi che incombe sulla sua stirpe. Tebe è il luogo
del conflitto e della problematicità religiosa, legislativa e giuridica per
eccellenza. E del resto, l’arte e l’aspirazione all’arte sono essi stessi
territori conflittuali ed enigmatici, nei quali si sta sospesi ai margini
dell’essere.
I Cantos sono una rappresentazione della Sfinge che siede
sull’insolvibile poetico. Pound non ha la pretesa di decifrarlo, piuttosto di
mostrarlo. Attraverso il dilemma provoca la reazione del lettore, non fosse
altro per indicargli che la soluzione è proprio l’uomo. Nulla di più banale e
complesso a un tempo.
Creatore di incontri, disegnatore di collisioni tra suoni, immagini, parole, culture, la sua è quasi una
predicazione, una recitazione ossessiva con l’intento di riportarci al sema, il segno, come insieme grafico di significante e significato.
E restituire le parole all’essenza del segno, vuol dire chiarezza, ossia il
fondamento di ogni onestà, morale e intellettuale.
Il Canto IV,
rielaborato nel 1919, nel quale entra presumibilmente l’affanno della realtà
del dopoguerra, si apre con la caduta di Troia, la gloriosa città di cui non
restano altro che macerie e cenere, e un’accorata implorazione del poeta agli
dei, in particolare ad Apollo, perché la sua parola sia ascoltata. L’immagine
della guerra sembra quindi influire sul rovesciamento del modulo che ricorre
nell’incipit di ogni narrazione
epica: non più “cantami”, rivolto alla Musa, ma “ascoltami”, con cui si cerca
di richiamare l’attenzione del dio della poesia, responsabile degli oracoli. Il
grido della città lungamente assediata ed espugnata, che ha subito una
profanazione di luoghi e corpi, si prolunga nel grido di Itis, servito alla
mensa del padre Tereo, e poi ancora nel riferimento a Cabestan, il trovatore
amante di Seremonda, costretta dalla vendetta del marito a mangiarne il cuore.
Ezra Pound si serve a
piene mani del simbolismo dello sparagmós,
ossia lo smembramento della vittima nel contesto rituale dionisiaco. Ma al di
là della perdita di spazi e persone si intravede la possibilità di una
ricomposizione pacifica. Allo sparagmós
succede infatti il momento dell’unione augurale, con l’imeneo intonato alla
sposa e, di seguito, la visione della città ideale di Ecbatana.
Molti saranno in corso
d’opera i ritorni alla sezione proemiale dei Cantos, e più dettagliate le variazioni costruite volta per volta
dal poeta sullo sfondo di rinnovate esperienze. Dalle catabasi iniziatiche,
ispirate a Odisseo e alle discese orfiche, alla navigatio di Iside in cerca delle membra di Osiride, dalla fine del
giovane Adone, allegoria del principio di morte e rigenerazione che è nella
natura, al dramma rituale di Dioniso Zagreo, nel quale a intervalli di tempo la
tradizione letteraria e filosofica occidentale ha riconosciuto l’essenza stessa
del tragico – così ad esempio Hugo von Hofmannsthal: «le potenze della vita
dilaniarono il corpo di Dioniso in pezzi» che «caddero qua e là sulla terra
come grandi, pesanti stelle cadenti nelle notti d’estate».
Dunque, da una parte
Tebe accecata dalla tirannide, che profana i legami tra consanguinei e
rifiuta di onorare Dioniso, dall’altra la volontà del poeta di risolvere positivamente
questa tensione. Anche nei giorni più bui della prigionia emerge una
riconoscenza per quel che si è vissuto, nella convinzione che il suo racconto,
il suo incarnarsi nel verso, possa diventare testimonianza e insegnamento per
altri: «Se il gelo ti stringe la tenda / saluterai l’alba ringraziando», con
questa epigrafe che ricorda il distico di un inno alla terra si chiudono per l’appunto i Pisan Cantos.
[...]
Abbiamo quindi avuto modo
di parlare di cultura europea, nel contesto dei rimandi tra America e vecchio
continente, in un momento peraltro molto complesso che mette alla prova,
rimescolandoli, gli equilibri geopolitici nel Mediterraneo e, in generale, i
rapporti tra i paesi occidentali.
Pound è stato un uomo
di confine, profondamente spezzato, che aveva capito l’entità della frattura
che nei secoli aveva scosso l’occidente, una irriducibilità già avvistata nel
proprio paese – la sua autobiografia è non a caso Une Revue des deux Mondes, ossia una cronaca familiare incline al
romanzo storico, nella quale si mettono a nudo le notevoli aporie tra est e
ovest americano. Siamo di fronte a uno dei grandi critici e interpreti della
sintassi entro cui si distribuiscono le nostre identità culturali, uno di quei
tessitori d’eccezione che si abbeverano ad ogni goccia di sapere, sfidando
agitate periferie e chiusure di frontiera, zone dove si viaggia scomodamente,
talora pagando con tutti gli interessi, e anche più.
Il ductus poundiano sta nel disinvolto eclettismo con cui afferra la
tradizione, talora smascherando in lei certi vizi un po’ maniacali da vecchia
signora ma isolandone anche i punti di forza, imprescindibili per ogni lavoro
creativo e per l’elaborazione di una mitologia credibile di fatti e personae. In un modo personalissimo fa
parte del gruppo di quegli studiosi – si pensi per l’arte e la storia e
filosofia ad un personaggio ingombrante come Aby Warburg – i quali, prendendo
le mosse dai paradigmi del mito, hanno cercato di rintracciare l’importante
eredità, in termini di etica e metodo, rappresentata dall’antichità
nell’occidente contemporaneo, col proposito di richiamare tale sopravvivenza
alla nostra attenzione di eredi spesso distratti o inconsapevoli.
(Di Claudia Ciardi, 23 marzo 2011)
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