12 marzo 2017

Dal mito antico al grido espressionista. Spunti per una lettura dei Cantos


Ripropongo di seguito alcuni stralci della lezione sui Pisan Cantos che si tenne presso la sede della casa editrice ETS il pomeriggio del 23 marzo 2011. In coda allarticolo le riproduzioni delle pagine che si riferiscono a questo intervento, contenute nel volume degli Annali dellAccademia dellUssero, stampato nel 2011.


Le rovine di Palmira

In una lettera del 12 ottobre 2010, Mary de Rachewiltz mi sollecitava a tornare ai temi del Canto 76, eccezionale inscriptio vastitudinis che bolla con parole di fuoco la follia della guerra: «Formica solitaria da un formicaio distrutto/ dalle rovine d’Europa, ego scriptor./ È caduta la pioggia, il vento vien giù/ dai monti/ Lucca, Forte dei Marmi, Berchthold dopo l’altra…/ parti rimesse insieme […]/ e le nuvole sui prati di Pisa/ non hanno nulla da invidiare alle altre/ sulla penisola/ oi bárbaroi non le hanno distrutte/ come il Tempio di Sigismundo/ Divae Ixottae (e la sua effigie a Pisa?)». Inviando una fotografia nella quale era riprodotto il “busto di gentildonna ignota” entrato in Camposanto nel 1823, di cui sarebbe autore Matteo Civitali, e per lo più identificato impropriamente con Isotta da Rimini (così pure secondo i versi poundiani, cf. supra), mi chiedeva notizie circa la sua sorte: «Le avevo già chiesto se si è mai saputo che fine abbia fatto. Canto 76. Io non l’ho trovata. Anche nel libro Rimini (1882) c’è quest’immagine in piccolo e dice che è nel Camposanto di Pisa – (distrutto…) Non so perché quest’immagine mi si presenta di continuo».
Dunque, icona della bellezza e della femminilità, e anche dell’arte che patisce il vulnus della guerra, andando incontro alla distruzione. Ma questo atteggiamento di rifiuto della violenza, come si potrebbe pensare in un primo momento, non fa il suo ingresso nella poesia “pisana”. In realtà, Pound lo mette a fuoco fin dalle battute iniziali della sua opera, cosicché la denuncia dei mali della guerra si scopre intrinseca al suo verso. Considerando che i primi trenta Cantos sono stati abbozzati e scritti tra il 1912 e il 1929, vi si trovano già quasi tutti gli elementi che entreranno nel suo laboratorio poetico, dalla precoce esperienza di esule in conflitto con le proprie origini, alla constatazione di una pericolosa deriva culturale che vedeva affermarsi saperi e studi specialistici troppo spesso non comunicanti tra loro, fino ai durissimi colpi inferti dalla Grande Guerra prima e poi dalla pesante crisi economica, due eventi che cambiano profondamente e a un prezzo altissimo i connotati delle società occidentali.
Quando gli amici più cari se ne vanno a combattere senza tornare, l’inquietudine e il disincanto diventano incontenibili. È la fine dell’avventura perfetta e magnifica degli anni londinesi. Le idee affrontate nella sua incipiente teoria letteraria, orientata al recupero delle radici poetiche del passato, greche e provenzali, e alla necessità di rinvenire i frammenti dispersi della realtà, − I gather the limbs of Osiris è per l’appunto il titolo programmatico dell’essay concepito tra il 1911 e il ’12 – dopo il dramma mondiale acquistano un rilievo ancor più marcato. Più che naturale, quindi, se in questo primo, eppure già densissimo, saggio dell’opus magnum, Ezra Pound intride la materia poetica dei temi e delle metafore da cui svilupperà la sua complessa costruzione, riflesso di un ininterrotto lavorío interiore ed anche di uno slancio continuamente teso al raggiungimento di una mèta ideale.
E c’è un altro aspetto che contribuisce, forse in maggior grado, alla sua levatura artistica. Nelle vesti di infaticabile passeggiatore tra luoghi e culture, Ezra plasma la propria opera utilizzando due strumenti che gli permettono una straordinaria capacità di movimento, e perciò un’infiltrazione capillare e trasversale all’interno del molteplice problematico di attualità e tradizione: il mýthos e l’épos.
Il mito, espressione prima del pensiero greco antico, è un enunciato orale, nel quale può ravvisarsi un precetto e in generale quel vasto e stratificato patrimonio di conoscenze in cui si condensano le origini di una cultura. Questo insieme fluido e composito non è certamente il prodotto creativo di un singolo ma piuttosto un “prodursi” che racchiude in sé diverse sensibilità ed esperienze.
Un simile amalgama condivide le sue caratteristiche con la “poesia”, poieîn, ossia una narrazione senza intenzionalità ma che reca intatto il seme creativo e demiurgico di ogni forma d’arte. Allora, mito come insieme di storie ma non storia. E tuttavia in costante dialogo con la storia. L’epica è il punto in cui queste due sponde entrano in contatto. Ma più ancora è ciò che porta con sé «la responsabilità per la vita che si distrugge», secondo l’efficace definizione di Elias Canetti; una fotografia scattata sull’orlo del precipizio.
Allo stesso modo di Edipo, Pound si aggira per le vie di Tebe, guarda negli occhi la Sfinge, studia il suo enigma, lasciando che alimenti il labirinto del poema. Edipo uccide la Sfinge ma non sfugge alla Nemesi che incombe sulla sua stirpe. Tebe è il luogo del conflitto e della problematicità religiosa, legislativa e giuridica per eccellenza. E del resto, l’arte e l’aspirazione all’arte sono essi stessi territori conflittuali ed enigmatici, nei quali si sta sospesi ai margini dell’essere.  
I Cantos sono una rappresentazione della Sfinge che siede sull’insolvibile poetico. Pound non ha la pretesa di decifrarlo, piuttosto di mostrarlo. Attraverso il dilemma provoca la reazione del lettore, non fosse altro per indicargli che la soluzione è proprio l’uomo. Nulla di più banale e complesso a un tempo.
Creatore di incontri, disegnatore di collisioni tra suoni, immagini, parole, culture, la sua è quasi una predicazione, una recitazione ossessiva con l’intento di riportarci al sema, il segno, come insieme grafico di significante e significato. E restituire le parole all’essenza del segno, vuol dire chiarezza, ossia il fondamento di ogni onestà, morale e intellettuale.   
Il Canto IV, rielaborato nel 1919, nel quale entra presumibilmente l’affanno della realtà del dopoguerra, si apre con la caduta di Troia, la gloriosa città di cui non restano altro che macerie e cenere, e un’accorata implorazione del poeta agli dei, in particolare ad Apollo, perché la sua parola sia ascoltata. L’immagine della guerra sembra quindi influire sul rovesciamento del modulo che ricorre nell’incipit di ogni narrazione epica: non più “cantami”, rivolto alla Musa, ma “ascoltami”, con cui si cerca di richiamare l’attenzione del dio della poesia, responsabile degli oracoli. Il grido della città lungamente assediata ed espugnata, che ha subito una profanazione di luoghi e corpi, si prolunga nel grido di Itis, servito alla mensa del padre Tereo, e poi ancora nel riferimento a Cabestan, il trovatore amante di Seremonda, costretta dalla vendetta del marito a mangiarne il cuore.
Ezra Pound si serve a piene mani del simbolismo dello sparagmós, ossia lo smembramento della vittima nel contesto rituale dionisiaco. Ma al di là della perdita di spazi e persone si intravede la possibilità di una ricomposizione pacifica. Allo sparagmós succede infatti il momento dell’unione augurale, con l’imeneo intonato alla sposa e, di seguito, la visione della città ideale di Ecbatana.   
Molti saranno in corso d’opera i ritorni alla sezione proemiale dei Cantos, e più dettagliate le variazioni costruite volta per volta dal poeta sullo sfondo di rinnovate esperienze. Dalle catabasi iniziatiche, ispirate a Odisseo e alle discese orfiche, alla navigatio di Iside in cerca delle membra di Osiride, dalla fine del giovane Adone, allegoria del principio di morte e rigenerazione che è nella natura, al dramma rituale di Dioniso Zagreo, nel quale a intervalli di tempo la tradizione letteraria e filosofica occidentale ha riconosciuto l’essenza stessa del tragico – così ad esempio Hugo von Hofmannsthal: «le potenze della vita dilaniarono il corpo di Dioniso in pezzi» che «caddero qua e là sulla terra come grandi, pesanti stelle cadenti nelle notti d’estate».
Dunque, da una parte Tebe accecata dalla tirannide, che profana i legami tra consanguinei e rifiuta di onorare Dioniso, dall’altra la volontà del poeta di risolvere positivamente questa tensione. Anche nei giorni più bui della prigionia emerge una riconoscenza per quel che si è vissuto, nella convinzione che il suo racconto, il suo incarnarsi nel verso, possa diventare testimonianza e insegnamento per altri: «Se il gelo ti stringe la tenda / saluterai l’alba ringraziando», con questa epigrafe che ricorda il distico di un inno alla terra si chiudono per lappunto i Pisan Cantos.

[...]

Abbiamo quindi avuto modo di parlare di cultura europea, nel contesto dei rimandi tra America e vecchio continente, in un momento peraltro molto complesso che mette alla prova, rimescolandoli, gli equilibri geopolitici nel Mediterraneo e, in generale, i rapporti tra i paesi occidentali.
Pound è stato un uomo di confine, profondamente spezzato, che aveva capito l’entità della frattura che nei secoli aveva scosso l’occidente, una irriducibilità già avvistata nel proprio paese – la sua autobiografia è non a caso Une Revue des deux Mondes, ossia una cronaca familiare incline al romanzo storico, nella quale si mettono a nudo le notevoli aporie tra est e ovest americano. Siamo di fronte a uno dei grandi critici e interpreti della sintassi entro cui si distribuiscono le nostre identità culturali, uno di quei tessitori d’eccezione che si abbeverano ad ogni goccia di sapere, sfidando agitate periferie e chiusure di frontiera, zone dove si viaggia scomodamente, talora pagando con tutti gli interessi, e anche più.
Il ductus poundiano sta nel disinvolto eclettismo con cui afferra la tradizione, talora smascherando in lei certi vizi un po’ maniacali da vecchia signora ma isolandone anche i punti di forza, imprescindibili per ogni lavoro creativo e per l’elaborazione di una mitologia credibile di fatti e personae. In un modo personalissimo fa parte del gruppo di quegli studiosi – si pensi per l’arte e la storia e filosofia ad un personaggio ingombrante come Aby Warburg – i quali, prendendo le mosse dai paradigmi del mito, hanno cercato di rintracciare l’importante eredità, in termini di etica e metodo, rappresentata dall’antichità nell’occidente contemporaneo, col proposito di richiamare tale sopravvivenza alla nostra attenzione di eredi spesso distratti o inconsapevoli.

(Di Claudia Ciardi, 23 marzo 2011)



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