Proposte di lettura a partire dall’Indice dei libri di marzo
In apertura una riflessione sui tre livelli
dell’editoria. Il cartaceo, che qualcuno dava per morto e sepolto già anni fa,
è ormai obbligato a dialogare strettamente tra digitale e social (dagli
estratti postati su facebook all’esperienza di microblogging di twitter,
passando per instagram ecc…). Un ruolo che si configura sempre più come
subalterno. Ma non è detto: la partita è ancora aperta. Di certo però la
convivenza non è proprio pacifica, specie riguardo le regole circa la
diffusione e la censura dei materiali. Se a dettar legge in materia diventa uno
dei boss dei maggiori social network, il mercato editoriale rischia di tirare
laddove il social decide, magari in rapporto alle sue campagne di
marketing. Si pone inoltre un problema per così dire filosofico. La fruizione
del testo, che nelle stanze di internet procede inevitabilmente per estratti,
sunti, passi salienti commentati a grandi linee o più spesso incollati in
citazioni veloci, rischia non solo la deportazione forzata del senso e dei
singoli contesti ma anche l’appiattimento in una dimensione temporale scandita
dalla fretta. E ciò poco e nulla ha a che fare con la natura posata, profonda,
cronologicamente estesa della letterarietà. Vale la pena tornare a un celebre
passo di Todorov, all’interno del suo saggio La letteratura in pericolo, in cui
si delinea la lentezza con la quale ciò che è scrittura, creatività letteraria
– e per la parola poetica il discorso è ancor più refrattario alle fughe
odierne – penetra lo spirito umano, affermando la propria verità in scia al
consenso che le diverse generazioni le accordano.
Todorov, La letteratura in pericolo
La
casa editrice L’Orma ripropone una cronaca dell’esperienza del festival dei
poeti a Castelporziano nel giugno ’79, tra letture in versi e invasioni del
palco da parte del pubblico. Esperimento della performance poetica portato alle
estreme conseguenze, con qualche strascico molesto – in peggio e di molto
rispetto a quella serata – che tuttora permane. Per quanto mi riguarda non sono
una grande ammiratrice di azioni gestuali (e che vuol dire, poi?), mimesi
letterarie con improbabili maddalene che dovrebbero inscenare non si sa bene
quale provocazione artistica, in generale blandi scampoli di postavanguardia che
contribuiscono soltanto allo sterminio verbale e forse anche del corpo, qui chiamato
in causa quasi sempre a sproposito. E si torna al buon vecchio Todorov, al compito quasi sacrale di spender tempo sui testi, girando al largo da imbarazzanti surrogati e abbattendo le inutili impalcature che anziché sorreggere, accompagnarne il senso, lo nascondono alla vista.
A Castelporziano il sovvertimento fu unico
e forse spontaneo fino in fondo, non mediato da quella volontà di rappresentare
a tutti i costi qualcosa, che principalmente guasta un certo tipo di esperienze.
Basti mettere in campo due del calibro di William Burroughs e Allen Ginsberg,
tra le voci sul palco di allora, per fugare ogni dubbio di inautenticità.
Il
genio di Johann Joachim Winckelmann fotografato nella monumentale pubblicazione
delle sue lettere romane, edite dall’Istituto italiano di studi germanici. Personaggio chiave all’interno di quel filone che
vede il tedesco colto trasferirsi per un periodo più o meno lungo della sua
vita nella capitale italiana, Winckelmann diviene qui protagonista di una stagione turbolenta e affascinante, tra sogni piranesiani e spionaggio
antiquario. Gli scavi illegali erano all’ordine del giorno, così come i
tentativi di trafugare pezzi rari e unici dai siti. Winckelmann fu guida
turistica, archivista, prefetto delle antichità di Roma, pupillo prediletto del
Cardinal Albani che gli schiuse la sua preziosa collezione. Grazie ad Albani
poté ritagliarsi quegli spazi di libertà intellettuale necessari al suo
ingegno, insofferente agli incarichi che lo sottraevano allo studio e alla
ricerca. Nell’epistolario rivive non solo il grande intellettuale ma anche l’affresco
di un’epoca.
Le
lettere e i saggi di Louis-Ferdinand Céline, genio indiscusso della letteratura
francese insieme a Proust, l’unico verso cui si sbilanciò. Non lo fece con
nessun’altro. Pezzi di assoluta avventatezza caustica, tra ironia e fosco disincanto.
Secondo Céline gli editori sarebbero in sostanza degli sfruttatori, “ruffiani
delle meningi”, coadiuvati da una pletora di incapaci e vacanzieri. Emerge
tutta la sua burrascosa amarezza per l’imbarbarimento dettato dal consumismo,
lo stupro della letteratura incapace di innovarsi senza svendersi, la crescente
pesantezza degli esseri umani.
Gli
interventi di Pound, Miller, Borroughs che ricorda la visita a Meudon insieme a
Ginsberg nel 1958, configurano l’accettazione americana senza riserve dell’autore
francese.
(Selezione e commenti di Claudia Ciardi)
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