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24 marzo 2022

Lirici greci

 
1994, tredici anni. Da una cassettina dei libri vedo spuntare un quadrato tascabile di un colore a cui non potevo resistere. Questa acquamarina psichedelica che faceva sembrare il libro uno strano incrocio fra un manga e un pezzetto di porcellana, altro non era che ledizione dei lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo, apparsi nei “miti poesia” della Mondadori. Un tassello delle piccole collane economiche che hanno fatto la storia editoriale negli anni Novanta, insieme ai cento pagine-mille lire della Newton Compton (le tre cantiche di Dante montate in un formato geniale che le rendeva comodamente leggibili e a portata di mano).
Visto che per me il colore è un elemento decisionale importante, feci subito mia questa bizzarra creaturina. Il colore era già una promessa di ogni bene. E infatti il volumetto quadrato di Quasimodo con copertina celeste e dorata mi sorprese come un fulmine a ciel sereno. In senso positivo. Un fulmine iniziatico. Verso dopo verso approdavo alla mia prima Grecia tutta adolescenziale, una cosa da Sturm und Drang ma più esplosiva e forse un po’ più “svenevole”, come dice la nostra Alessia Rovina nel suo contributo, mettendoci in guardia da letture esagerate e sovrabbondanti.
E però, a quell’età va anche bene così. Il classicista in erba si costruisce la sua patria con molta fantasia e in quelle architetture che sono l’emanazione del mito, anzi sono il mito stesso, si sente proprio a suo agio, non vorrebbe scambiarle per nulla di più oggettivo. Se poi il primo incontro è coi poeti, allora la mitologia della parola entrerà nella mente del giovane e gli resterà sempre, qualsiasi lingua legga, qualsiasi studio affronti in futuro. Ovunque e comunque gli resterà quel soffio, quasi un primitivo incantesimo che sarà per lui misura di tutto il resto.
Nel suo puntuale e raffinato articolo Alessia Rovina ci spiega l’attrazione fatale che da sempre la lirica greca esercita rispetto ad altri elementi dell’antico. Una sorta di irresistibile rabdomanzia capace di accendere trasversalmente gli immaginari. Sarà anche perché la frammentarietà con cui il suo corpo ci si offre, riconduce a una dimensione ermetica novecentesca, per così dire familiare. La grecità è bella anche per questo, per le ombre che non si afferrano, per quelle presenze perdute che pure si intuiscono e che, talvolta, sentiamo vicinissime, anche nella loro assenza. È ancora il lavorio dell’immaginazione che desidera colmare la lacuna ma che al contempo impara ad amarla così. Ce lo spiega molto bene la nostra autrice quando parla di «serena accettazione che va a curare le inevitabili mancanze», che comporta «la necessità non ridondante di tornare, sempre e comunque, a studiare, di nuovo. Talvolta, da capo». Ecco il senso dello studio dell’antico e del percorrere le orme elleniche in particolare. Perché la costante matematica phi, armonia e archè (ἀρχή) delle cose, non è solo in tutta l’arte greca ma anche in ogni sillaba della sua lingua, in ogni respiro della sua inarrivabile poesia.
Ed è proprio ciò in cui consiste la nostra proporzione aurea, quella che ci guida a cogliere la correlazione tra i fenomeni. La mia di sicuro mi è venuta dalle mani di queste immortali cadenze, oltre che dai monumenti della città in cui ho avuto la sfacciata fortuna di nascere – dove non considero un caso l’aver incontrato alcuni dei maggiori maestri della cultura greca – due poli attrattivi potentissimi, accumulatori cosmici di energia e bellezza.

(Di Claudia Ciardi)



  Di pianto, beffa e celebrazione - Il multiforme volto della lirica arcaica

Di Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

Il panorama letterario della Grecità di ieri è, come sappiamo e come mai ci stancheremo di ripetere, immenso. Ed immensa parte è quella che resta a noi sconosciuta, arto mutilo e chissà quanto valido. Di sicuro, preziosissimo, proprio come ogni sussurro che qualsiasi civiltà antica ci fa dono di restituire. Potrebbe sembrare un cliché per i non addetti ai lavori, e rischia di diventare una banalità per chi in questo patrimonio vive immerso, talvolta sopraffatto dalla mole della ricerca e della fatica, ma è davvero bene non scordarsi che il mondo greco ci ha lasciato in eredità un patrimonio caratterizzato da una varietas tale da andare ad intercettare una quantità straordinaria di informazioni e conoscenze, che necessitano di precisione chirurgica per una ricostruzione che sia il più possibile coerente, contestualizzata e responsabile. Ma anche, mi permetto di aggiungere sulla scorta dei Maestri che ho la fortuna di ascoltare quotidianamente in Università, di una buona dose di serena accettazione, che va a curare le inevitabili mancanze, le frammentarietà e quell’irresistibile, piccolo scarto ermeneutico che resta, sempre e comunque, tra noi ed ogni opera di ciascun passato prodotta da qualsiasi cultura, indipendentemente dalla bibliografia prodotta, e che costituisce quel seducente fascino che ci richiede continuamente di tornare e ritornare a scrutare le orme del nostro ieri. Questo è dunque l’invito ed il significato di fondo: la necessità non ridondante di tornare, sempre e comunque, a studiare, di nuovo. Talvolta, da capo.
Non sfugge da questa mia considerazione iniziale il panorama che la tradizione ci riporta sotto il nome di lirica, definita poi nella prassi scolastica come lirica greca arcaica. Una denominazione davvero vaga e ampia, la quale va ad abbracciare non solo un numero considerevole di autori, ma anche una copia di caratteristiche metriche, stilistiche e compositive che giustifica i successivi tentativi di raggruppamento contemporaneo secondo le categorie di genere ed esecuzione. Ecco così che i moderni manuali di storia della letteratura greca ci consegnano una suddivisione tra poeti giambici ed elegiaci e melici monodici e corali.
La prassi filologica alessandrina, d’altro canto, concepiva all’interno del vario magma di autori definiti come λυρικοί, [NOTA 1] una suddivisone monografica per singolo poeta a sua volta distribuita in differenti libri [NOTA 2] che raccoglievano i componimenti giunti.
La lirica arcaica vede la sua nascita in un momento particolare e di transizione umana, sociale, politica e culturale. La stagione dei grandi cicli epici arcaici, troneggiati dall’insuperabile eccellenza costituita da Omero [NOTA 3], prodotto della cultura e dell’organizzazione sociopolitica propria del momento conosciuto come Dark Ages, viene affiancata dalla lirica, che, pur avendo conosciuto manifestazioni preletterarie, si sviluppa come espressione di una grecità che conosce l’organizzazione in πόλεις all’interno delle quali, tra l’VIII ed il VI secolo, si consumano aspre lotte per il potere, profonde rivoluzioni politiche e grandi spostamenti di masse umane. I nuovi cantori sono gli esponenti delle classi sociali più in vista, impegnati nella lotta per l’espansione o per il dominio, conoscitori della lancia e dei doni delle Muse [NOTA 4]. Di nuovo, cantori saranno aristocratici in lotta per la propria supremazia in un’accesissima guerriglia tra consorterie, o altolocate istruttrici di giovani fanciulle. Infine, i poeti saranno artisti di corti, al servizio di tiranni che diverranno i nuovi finanziatori e committenti dei versi poetici. Le tematiche trattate sono le più varie e sono indubbiamente influenzate dal genere scelto. Se l’elegia conoscerà una inclinazione sapienziale, esortativa o mitico-narrativa non esente dal gusto per la γνώμη, il giambo avrà come oggetto principale l’invettiva, l’irrisione di determinati individui e classi sociali, la burla dotta. E così la lirica corale, irrimediabilmente collegata all’occasione compositiva, come ad esempio gli agoni sportivi, i giochi olimpici, oppure i momenti topici della vita di una giovane, come le nozze.
La collocazione temporale in cui questi versi vennero alla luce e soprattutto la nuova facies assunta decretò, oltre ad un’immensa fortuna della lirica greca e la garanzia di una eco che giunge sino a noi, anche qualche sventura, dovuta soprattutto a difficoltà ermeneutiche, filologiche e critiche.
Anzitutto, lo stato dei testi e dei testimoni (diretti ed indiretti) che trasmettono a noi questi componimenti sono spesso mutili e parziali, cosicché la frammentarietà è spesso un ineludibile caveat con il quale il filologo deve fare i conti. Tuttavia, nel mentre che si mantiene come faro il rispetto del testo che si ha dinnanzi, non sono impossibili stravolgimenti o soccorsi che intervengono da nuove fortunose scoperte, specialmente papiracee: destarono scalpore, tra gli altri, rinvenimenti come il P. Oxy. 4708, portatore di un ampio brano elegiaco di Archiloco – conosciuto come L’elegia di Telefo – in grado di ridimensionare la nostra concezione dello stile poetico del πρῶτος εὑρετής del giambo, oppure la pubblicazione del P. Mil. Vogl. VIII 309, frammento di un’antologia contenente un consistente numero di epigrammi di Posidippo di Pella, del quale pure si aveva una conoscenza limitata. Che dire poi di pubblicazioni fondamentali come quelle di alcuni commentari alcaici in grado di restituirci nuove soluzioni – e inevitabilmente nuovi crucci! – come nel caso di P. Oxy. 3711, o ancora, per tornare al Pario, il rinvenimento dei frammenti papiracei di P. Oxy. VI 854 in grado di integrare il fr. 4 W.2 Guai infine a passare sotto silenzio i papiri che la critica conosce come “la nuova Saffo” – P. Köln 21351 – e “la nuovissima Saffo” – P. Saffo Obbink: di nuovo, integrazioni ed inevitabili nuove sfide. Pur non escludendo alcuna possibilità di rivalsa della tradizione, lo stato dei testi e dei testimoni pone sempre cautele che non vanno assolutamente ignorate, e sempre più in questa ottica sta lavorando la filologia contemporanea. [NOTA 5]
In secondo luogo, una innovazione che costituisce una grande complicazione è la presenza della menzione di un io poetico o io lirico. Sovente, questo parlare in prima persona, rivolgendo inviti, dispensando sentenze o ricordando determinate esperienze, ha creato numerosi fraintendimenti già tra gli antichi. Un procedimento assolutamente in uso presso questi nostri predecessori era la redazione di biografie e/o commenti di determinate figure politiche e letterarie, e per questi ultimi spesso le notizie erano attinte direttamente dalle opere poetiche secondo un procedimento autoschediastico, di modo che ciò che ne scaturivano erano tradizioni fiabesche, ingiuriose e in alcuni punti assolutamente non fededegne. Coloro che ne pagavano le spese erano i cantori e le cantrici che si vedevano o innalzati a livelli sovrumani o, più spesso, abbassati a livelli popolareschi e volgari. Due casi, anche solo sommariamente, mi sentirei in dovere di citare, dato l’inevitabile stupore in grado di generare e la eco avuta, in grado di risuonare sino a pochi decenni fa.
Il primo è il fr. 5 W.2 di Archiloco. Si tratta di un turning point all’interno della produzione arcaica. L’elegia si apre con la menzione quanto mai generica di un Saio che si gloria di uno scudo ellenico ritrovato presso un cespuglio, un’arma che apprendiamo essere di bellezza e precisione mitica, ma che ha conosciuto un altro possessore: il poeta stesso. Egli si ritrovò costretto ad abbandonare l’ingombrante oggetto contro il suo volere per avere in cambio un altro bene: salvare la propria vita. Di fronte a questa impegnativa scelta/bilancio/paragone, che cosa può importare di quello scudo? Alla malora! Il poeta se ne potrà benissimo procurare un altro, parimenti valido e bello, magari in un’altra occasione bellica.
Ora, quanto ad un nostro contemporaneo parrebbe una scelta più che mai ragionevole e assennata, non mancò di scandalizzare gli antichi, destinando Archiloco ad una dura condanna della quale si vedono i primi segni di assoluzione dall’accusa di vigliaccheria nell’Ottocento, ad opera dello Schneidewin.
Entrando nel dettaglio di questa elegia notiamo che la tradizione testuale è interessata, in fase imperiale e tardo-antica, da notevole discordia. La difformità delle lezioni presentate nella citazione del frammento da parte dei testimoni antichi va da risolvibili varianti grammaticali ad aggiunte sicuramente comprensibili e che restituiscono un senso compiuto, ma che sono irrisolvibili glosse, spiegazioni aggiuntive e scivolamenti lemmatici in cui gli autori hanno spesso profuso le proprie opinioni, nella maggior parte dei casi mai troppo lusinghiere nei confronti del Pario che si rende colpevole di un disonore: l’abbandono delle armi, presumibilmente lasciate per agevolare la fuga dal campo di battaglia. Il giudizio nato in antico dalla lettura di questo frammento fu di pressoché unanime sdegno e causa della nomea di Archiloco di vile e codardo, forse motivo all’origine di una tradizione sicuramente particolare e davanti alla quale giova sospendere il giudizio, riferitaci da Plutarco, la quale riporterebbe di una condanna del poeta da parte di Sparta a causa del comportamento disonorevole da questi mantenuto in battaglia, quando è ben nota la rigorosa etica marziale professata dalla polis laconica [NOTA 6]. La situazione non è agevolata nemmeno dalla citazione da parte di Aristofane all’interno di una serrata sticomitia di gusto squisitamente letterario, nella quale di nuovo l’abbandono dello scudo viene ascritto alla vergogna provocata ai genitori [NOTA 7]. Non tutte le letture però vengono per nuocere. Originale, in particolare, fu l’interpretazione che la tradizione neoplatonica dette del frammento in questione. Olimpiodoro, Proclo, Elia e lo Pseudo-Elia difatti lodarono Archiloco interpretando il getto dello scudo come l’atto di liberazione dal fardello del corpo che imprigiona l’anima.
Il nostro Archiloco non è stato il solo sventurato, in questa lotta della tradizione testuale di ieri e di oggi. Un altro collega, giambografo, fu oggetto di malintesi sino al secolo scorso, e solo un’attentissima rilettura critica e scientifica, portata avanti peraltro con vigore anche dall’illustre filologo italiano Enzo Degani, riuscì gradualmente a riportare la lente d’ingrandimento sulle sue qualità poetiche nonché sulla sua indiscutibile abilità letteraria e la raffinatezza lessicale. Parliamo di Ipponatte, non il disperato straccione e pitocco che parte della critica ha tratteggiato.
La lirica greca ha da sempre un ruolo estremamente rilevante all’interno del dibattito scientifico, e senza dubbio è uno degli aspetti delle lettere classiche che più si presta all’apprezzamento unanime e, proprio per questo, presta il fianco ad atteggiamenti acritici e talvolta pure svenevoli. Tuttavia, crediamo fermamente che la continua ricerca e il costante lavoro per la migliore ricostruzione dei contesti compositivi e la lettura critica di questi cantori antichi nulla tolgano al loro indiscutibile fascino, ma anzi continuino ad accompagnarci in quella che comunque sarà sempre una relazione in grado di suscitare pianto, scherno e magnificenza, oltre che inevitabili riflessioni sui significati che questi versi trasmettono a ciascuno di noi.

(Di Alessia Rovina, classicista, ricercatrice, studiosa di teatro)

 

Note e suggerimenti bibliografici a cura di Alessia Rovina:

Nota 1: Si tratta del noto “canone dei nove lirici”, compilato in accordo con la costituzione del restante Canone alessandrino ad opera dei filologi e dei grammatici della Biblioteca di Alessandria all’altezza del III sec. a.C. Esso comprendeva Alceo, Saffo, Anacreonte, Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, Bacchilide, Pindaro. Non mancavano naturalmente i canoni anche per gli altri generi poetici.

Nota 2: Con il termine “libri” qui si designa naturalmente la prassi editoriale che divideva le opere, non il supporto cartaceo rilegato che ora conosciamo sotto questo nome. La trascrizione delle edizioni in età alessandrina avveniva su rotoli papiracei.

Nota 3: La produzione letteraria da sempre straordinaria e giunta sotto il nome di Omero costituisce l’immancabile modello stilistico ed espressivo di ogni stagione della grecità, dall’età antica alla contemporaneità, passando per i secoli dell’Impero Bizantino che non hanno certo cessato l’attività ermeneutica e filologica sui due grandi poemi mitici. Iliade ed Odissea non sfuggivano all’erudita penna dei patriarchi e dei monaci.

Nota 4: Arch., fr. 1 W.²

Nota 5: La filologia è disciplina assolutamente delicata. Nonostante ciò, essa è sotto la guida di coloro che la praticano, e con gli anni mutano inevitabilmente gli indirizzi di lavoro. Se nell’Ottocento non mancava una spesso eccessiva smania di intervento sul testo, ora si predilige una linea più rispettosa e cauta.

Nota 6: Plut., Inst. Lac. 34, 239b.

Nota 7: Ar., Pax, 1298-1301. Si noti come mai l’operazione aristofanea del riuso letterario sia scevra da raffinatezza stilistica e conoscenza dotta.

* Esistono assai numerose monografie ed antologie sui lirici greci, sia in versione tascabile ed economica sia in edizione critica. Per l’una e per l’altra categoria ottime sono le edizioni della BUR e i volumi editi dalla Fondazione Lorenzo Valla.


16 marzo 2022

Isaac Levitan - Lo sguardo sul mondo

 


Se un giorno si ritrova la compiutezza della parola, l’intensità di un sentimento, il giorno dopo le perdiamo. È come se in questi tempi una mano lavorasse con ostinazione a sottrarci quel poco di buono che vorremmo preservare. In tutto ciò almeno guardare alla silenziosa bellezza, alla tenerezza dell’arte, infinite volte più dirompente della violenza.
Qualcosa su Isaac Levitan avrei voluto scriverlo da tanto, e sono ben felice che capiti ora. Perché ancor più adesso c’è bisogno di uno sguardo sul mondo.
La contrapposizione degli imperi è qualcosa di connaturato alla storia. Augusto contro l’idea di Antonio che voleva aprire all’oriente. Federico II, il tedesco innamorato del sud, che sognava il dialogo col Mediterraneo e il mondo arabo. Personalmente ho sempre tifato per quei progetti politici meno occidentalcentrici, un’affermazione che nel momento attuale suonerà eterodossa e faziosa, mentre dal mio punto di vista sarebbe la corsia preferenziale verso un mondo più pacificato. Quanto meno, alla luce dei miei studi di storia e antropologia culturale, le visioni ovunque più interessanti mi sono parse quelle più ampie, inclusive, meno irrigidite in schemi limitati e limitanti. Noi invece all’opera di cultura e di politica abbiamo sostituito un dettato economico posticcio, che ci ha affascinati perché prometteva di unire tutto e tutti in tempi rapidi – la globalizzazione come grande inglobatore che avrebbe sopito i conflitti. Abbiamo cioè innescato un processo inverso, che peraltro non si è innescato neppure compiutamente per quel che si immaginava. Ne abbiamo un riscontro, ad esempio, nelle enormi diseguaglianze che ha creato; un divario crescente in questi ultimi anni. Ossia abbiamo lasciato che la livellante chimera economica preparasse il terreno a mutue relazioni di potere e culturali. Anziché porci come artefici e interpreti di queste vie, che auspicabilmente avrebbero potuto essere molteplici e pluridirezionate, ci siamo trovati su un
unica strada, la stessa aperta ad ogni latitudine, i cui flussi sono stati egemonizzati dai mandanti economici detentori dell’infrastruttura. Di qui, una ricerca strumentalizzata ad ogni livello – senza il placet di certe intellighenzie funzionali al progetto di cui sopra è impossibile per alcuni, a parità di progetti, svolgere certe attività o trarre remunerazioni adeguate dal lavoro culturale. E un’arte quasi tutta allineata, non identitaria, non autentica, in ultimo molto poco creativa – e se non è questa la più grande defezione nelle cosiddette attività dello spirito, cos’altro può esservi…

Cosa resta oggi, dunque, dello sguardo sul mondo?
Da studiosa della grecità, affascinata dalle porte orientali, che ho imparato a schiudere sulle soglie elleniche e a cui ho continuato a bussare anche nelle mie frequentazioni del mondo tedesco – Federico II è una figura che dopo aver messo dieci volte sotto i propri piedi tutta la nostra insulsa globalità ancora avrebbe da dire la sua – ritengo che ben altre siano le proposte da considerare, se vogliamo veramente tirarci fuori dall’immanenza dei conflitti, dalla povertà di massa, dal continuo esodo dei profughi – perché nei grandi numeri, inutile nascondercelo, le tutele saltano inevitabilmente per tutti e ci si avvia solo a uno sconvolgente sradicamento collettivo senza protezioni.
Ho sentito in queste ore un intervento di Federico Rampini. In un’analisi tutto sommato condivisibile su certi aspetti della Russia putiniana portati all’attenzione – diversamente sembra infatti di aver scoperto solo negli ultimi giorni la mentalità di questa figura – mi ha creato qualche problema invece l’aver ascoltato, di nuovo, certo occidentalismo quale riflesso condizionato dei nostri discorsi. La considerazione era più o meno questa: la Russia è sempre stata rabbiosa e arretrata, perché mentre noi avevamo il Rinascimento, laggiù avveniva l’invasione dei Mongoli; non si è mai modernizzata.
Ecco, parlare così vuol dire non aver letto nemmeno due righe in croce di antropologia culturale. I fenomeni storici non sono l’uno il metro dell’altro. Vanno proporzionati alle singole aree, nelle quali determinano certi esiti. Ma ciò non significa che un cosa garantisca la superiorità di un’area geografica rispetto a un’altra. Piuttosto si può ragionare sensatamente di differenze marcate, e che i Russi siano qualcosa di differente è fuori di dubbio e nessuno si offende se lo si dice. Infine la lettura monolitica del fenomeno storico è insidiosa. Il periodo augusteo non fu per nulla fondato sulla pace assoluta, il Rinascimento non è stato solo un’epoca di splendori. Ogni fase ha le sue polarità, i suoi dissidi, perché alle sue radici vi sono appunto gli esseri umani.
Allora, proprio per riconciliarci con l’umano, nell’auspicio di tornare a osservare le cose dentro e fuori di noi in assenza di filtri indotti che stanno perfino rasentando l’autocensura, desidero tratteggiate brevemente la vita di un pittore che incarna la voglia di riscattarsi coltivando il proprio talento, la curiosità per l’altro, nel doppio senso di luogo e persona, la volontà di entrare in contatto e assimilare il più possibile, senza tuttavia smarrire le proprie origini, ma nell’incontro affinarle e accrescerle.
Isaac Levitan (1860-1900), ebreo lituano, nato in una famiglia povera di Kibartai, ha avuto in sorte un cognome che sembra un epiteto, “levitante”, il che in effetti rispecchia alcune caratteristiche della sua pittura, la levità dei cieli, la struggente labilità delle nuvole. A proposito di uno dei suoi lavori più conosciuti, Il lago Rus (1900), ebbe a dire che il cielo era più di uno sfondo. Qui le nuvole non solo fluttuano, si stanno avvicinando, ma sembrano andare oltre il quadro.
Uno sguardo che s’innalza, di cui alcune sue incredibili vedute aeree sono la più eclatante rappresentazione. Si pensi allo straordinario Sopra l’eterna pace (1894), dove ci si sente sospesi a mezz’aria e in quella dimensione onnipotenti, capaci di abbracciare tutte le direzioni ed esserne compenetrati. Considerato tra i maggiori paesaggisti del XIX secolo in Russia, compì la sua educazione alla scuola di pittura e scultura moscovita con Savrasov e Polenov. Iniziò la sua esperienza artistica come uno dei cosiddetti “artisti ambulanti” (peredvižniki), più tardi esponendo alla mostra del “Mir Iskusstva” (Mondo dell’arte), movimento di rinnovamento artistico il cui capofila era Sergej Diaghilev.
Sulla sua formazione incisero i viaggi, dapprima nella Russia profonda, poi in Crimea, quindi lungo il corso del Volga (1886). Fu poi la volta dell’esplorazione del vecchio continente, quando tra il 1890 e il 1897 percorse la Finlandia e la Mitteleuropa, per poi raggiungere l’Italia. Folgorato dalle Alpi Marittime soggiornò sia nelle valli italiane che in quelle francesi, spingendosi infine in Provenza. Non si può non rilevare come per lui l’incontro con la nostra penisola anziché privilegiare le capitali culturali, abbia preso la svolta dell’immersione in natura. Nonostante si fosse concesso Venezia e Firenze, come già anche Berlino e Parigi, la maggior parte dei suoi ripetuti soggiorni fu consacrato alla natura. Sotto l’influsso dei maestri di Barbizon, per lui tra i modelli più importanti, diede le spalle alla civiltà scegliendo una prospettiva del tutto fuori centro, i borghi alpini, l’impenetrabile assoluto della montagna, e ancora il ponente ligure, con le vibrazioni cromatiche sulla costa di Bordighera e la vicina Nizza, crocevia di tanti artisti alla fine dell’Ottocento e buen retiro per molti talenti dell’impero russo.
Autore di più di quattrocento opere, Isaac Levitan è stato in pittura un poeta dell’intimo, che nei suoi sconfinamenti spazio-temporali ha sempre saputo raccogliersi e ovunque raccogliere indizi per questa sua delicatissima cadenza.


(Di Claudia Ciardi)

 

Link:

Isaac Levitan / Tretyakovgallerymagazine / Russian-English

Arkhip Kuindzhi

Federico II. Lo stupor mundi - La Sicilia capitale morale del Mediterraneo

(Il sottotitolo potrebbe essere: antidoti di storia contro la presunzione che il nostro angolino sia superiore a ogni altro punto della sfera terrestre)

 

* In copertina: Isaac Levitan, Alpi, 1897  


Primavera in Italia, 1890



Sopra l'eterna pace, 1894



Nuvole, 1895



Izba, 1899

 
 

 Crepuscolo, 1899
 

9 marzo 2022

Il lutto della cultura genera mostri

 


Ancora il lugubre panno nero non è stato rimosso. Dicono sabato, buon per loro. C’è una violenza in questo atto del coprire il David che fa leva su una profonda ignoranza. Ma le due cose, si sa, vanno a braccetto. Il tutto contribuisce a gettare ancor più nello sconforto dello scenario attuale che si aggiunge a quello già raggelante e pesantissimo della pandemia e della sua gestione.
Dopo la censura dell’opera letteraria con il caso di Dostoevskij all’università di Milano – tutta la mia solidarietà a Paolo Nori – ecco puntuale la censura dell’opera d’arte. Vi si legge una contraddizione malata – in quella dell’uomo dubitante non vi sarebbe nulla di male, anzi. Ma qui c’è un’insicurezza nevrotica, oltre che una sistematica ignoranza del fatto culturale, che ormai permea vaste zone del nostro dibattito. O meglio, anche il dibattito è ormai listato a lutto. Del resto, quando non si coglie la gravità insita nel mandare armi e al contempo nel sostenere pubblicamente la pace, se non si coglie in questo ragionamento un cortocircuito che basterebbe a spazzare via tutto il resto, siamo davvero arrivati a un punto di non ritorno. L’università che si chiude come una fortezza impenetrabile, che scaccia chi intenda preservare un giudizio indipendente ed esercitare legittimamente il proprio senso critico, l’università che ha paura di se stessa, del proprio compito di messaggera dei saperi, che alza muri invece di farsi strumento di diffusione della conoscenza nella società, non per i pochi, non per una sola classe sociale di appartenenza ma per i molti, questa università ha abdicato al suo compito. Questa università ha finito di insegnare, perché nei fatti dimostra di non voler insegnare.
Quanto all’iniziativa di coprire il David mette i brividi. Se si voleva dare un messaggio solidale e rassicurante, direi che si è lavorato all’esatto contrario. Appena si posano gli occhi sulla statua incappucciata, si prova un gravoso senso di angoscia. Proprio quello che l’opera d’arte è invece chiamata a dissolvere. Nota a margine: le “vergogne” del capolavoro michelangiolesco sono state coperte – con tanto di altra polemica nei mesi scorsi – anche alla copia collocata al padiglione Italia di Dubai, perché la sua nudità non urtasse nessuno.
Nel dettaglio la storia di David che abbatte il gigante è un’allegoria politica potentissima, un tassello imprescindibile della storia di Firenze, del suo patrimonio identitario. La potenza cittadina nascente che s’innalza sulle grandi. E come simbolo più esteso, il popolo che si risveglia e prende coscienza della propria forza così da abbattere infine il gigante che lo sovrasta.
A titolo d’esempio citiamo dal catalogo sulla mostra “Verrocchio il maestro di Leonardo” (Palazzo Strozzi / Musei del Bargello, Firenze, 2019): «Lo scambio di consegne tra Desiderio da Settignano e Andrea del Verrocchio s’inverò anche nella produzione di effigi marmoree di eroi ed eroine dell’antichità, a mezzo busto e di profilo. […] Sviluppando la traccia di Desiderio, Verrocchio aveva messo a punto coppie di celebri condottieri affrontati, la cui accesa rivalità bellica era insieme contrasto generazionale: il giovane Alessandro, il maturo Dario. Questo tema fu poi carissimo a Leonardo, capace di rielaborarlo senza sosta nei suoi disegni, e di stravolgere il tipo virile maturo fino a trarne le basi della moderna caricatura. Prima che l’allievo liberasse le sue supreme fantasie, Verrocchio aveva dato corpo al tipo giovanile del guerriero nella statua del David, suo capolavoro bronzeo d’esordio: un’opera destinata presto a imporsi anch’essa tra scolari, seguaci e colleghi, come modello di posa elegante non meno che d’innocenza adolescenziale». Insomma intorno al David si sono unite generazioni di artisti e alla sua carica simbolica è legato l’immaginario politico, economico, creativo prerinascimentale e rinascimentale. Un mito di fondazione a tutti gli effetti. Dunque, occultando il senso di questa storia si voleva davvero esprimere vicinanza alla gente ucraina? Cioè inscenando una morte del giovane e fino a quel momento insospettabile eroe che si riscatta? Davvero di buon auspicio, non c’è che dire, in generale per le sorti di tutti i popoli. Nella gestione al rilancio della crisi cui stiamo assistendo, fra sfaceli produttivi e spettri nucleari, non sorprende che la politica anziché farsi custode, anziché stringersi alla cittadinanza che governa e che ha il compito di guidare, additi un fosco capolinea.
E c’è da augurarsi che l’aver vestito a lutto il nostro patrimonio culturale non presagisca cupamente le conseguenze dei pericoli reali che corriamo.

 
(Di Claudia Ciardi)

 

Link all’articolo >>>> La deriva dell'università

Su questo blog >>>> Il fuori tutto del nostro patrimonio culturale