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8 aprile 2022

Largo ai creativi!

 

Berndnaut Smilde - Nuvola

Nei disastri e dissesti che scuotono il nostro tempo, l’invito a valorizzare i creativi potrebbe suonare quasi velleitario. In un’ottica conservatrice di vecchie categorie forse sì. Ma nei ribaltamenti dell’oggi, con gli scenari estremamente instabili che ne conseguono, potrebbe darsi invece come la via d’uscita a molti dei nostri problemi. Una via coraggiosa, che implica certamente la rottura di tanti schemi – cosa ormai inevitabile ma che trova ancora altrettanti attriti – e che potrebbe finalmente liberare quelle energie latenti nella società la cui entrata in circolo segnerebbe un rinnovamento dell’organismo e un significativo cambio d’impostazione. Quale inafferrabile utopia, eppure direi, quale migliore e più sicura strada da percorrere se ci teniamo davvero a risolvere i conflitti e le contraddizioni di un periodo storico che si ostina a riproporre e contrapporre – anche violentemente – schemi superati, se vogliamo piuttosto provare a rimescolare le carte. Se lo vogliamo… 
Secondo stime rese note nel 2021, il 4 % del pil mondiale va perso a causa delle calamità naturali. Questo è già indicativo di come l’andare incontro a situazioni di divario, povertà endemica, mancanza di risorse primarie non sembri scuoterci più di tanto. Proseguiamo in difetto, osserviamo ingigantirsi il problema delle migrazioni e dell’impoverimento collettivo, senza mettere in discussione niente o quasi dei nostri massimi sistemi. Anche il mondo del lavoro risente, è chiaro, di dinamiche entrate in affanno secondo il metro dell
ufficialità o, sempre secondo quel metro, di mancanza di dinamiche. La lunga stagnazione, che i più anziani si ostinano a non vedere – ma non è solo un difetto mentale dei meno giovani, purtroppo – come anche le sempre più frequenti fibrillazioni del mercato, andrebbero affrontate con minore rigidità. Si parla sempre di formazione, questa grande chimera, ma quale poi? Il rilascio delle risorse in ambito culturale è vittima di condizionamenti di ogni tipo, lo stesso lavoro culturale, specie in Italia, fatica a godere di un riconoscimento degno, appena ci si muove in ambiti paralleli, meno istituzionalizzati o che non lo sono affatto. Eppure, proprio per le difficoltà che si vanno palesando, ci sarebbe bisogno di un coinvolgimento più ampio, di una formazione quasi permanente – una formazione capillare, vera, non strumentale a qualche centro di potere o via dicendo.
Keynes aveva previsto molto bene gli effetti della cosiddetta “technological unemployment”, ossia la disoccupazione generata dalla crescente automazione. Un periodo transitorio, a suo dire, ma destinato a un impatto sociale rilevante. A tale proposito la Rai – dunque non una rete clandestina, ma la tv di Stato – qualche mese fa aveva trasmesso un interessante documentario sugli effetti dell’automazione in alcuni paesi del mondo: Germania, Canada, Giappone, Cina. Latitudini e culture diverse ma una problematica comune ed estesa. Quanto alle risposte, sono ancora estremamente incerte, soprattutto in occidente, mentre l’oriente sembra essersi preparato con maggior tempismo al salto tecnologico, anche per ciò che riguarda le conseguenze sociali (la Cina soprattutto).
Un esempio. In Ontario è stato condotto il primo esperimento di reddito universale su un gruppo eterogeneo di persone con bagagli culturali e professionali differenti. Queste persone non avrebbero avuto alcuna effettiva possibilità di ricollocarsi nel mondo del lavoro. Se una banca decide di tagliare il suo organico, seguendo un piano di ristrutturazione pluriennale, lo taglierà, senza che si generino ulteriori posti
men che meno quindi aspettative di lavoro e creando un problema di disoccupazione in coloro che vengono messi alla porta. Il risultato dell’esperimento canadese mostrava come i cittadini selezionati, aiutati a sostenersi economicamente e liberati dal disagio psicologico del vedersi sostanzialmente rifiutati dal contesto sociale, liberavano energie creative. Qualcuno ha investito buona parte del proprio reddito in percorsi formativi scelti in autonomia – dunque corsi non calati dall’alto ma cercati in proprio e meglio tarati sulle attitudini individuali, in base a obiettivi professionali aggiornati, fuori da schemi obsoleti che, diciamolo ancora una volta, non producono nuove idee.
Purtroppo con il cambio di governo, l’esperimento è stato interrotto. Chiaro, vale ciò che si è detto sopra. I politici che si sono avvicendati hanno ritenuto quel capitolo un inutile esercizio di welfare, tanto più che il problema occupazionale sarebbe un qualcosa di ciclicamente inerente al capitalismo. Non un evento che per estensione finora non si era mai visto, pur nelle cicliche crisi capitaliste; come in questo caso. E ad ogni modo, fosse anche un episodio, nelle attuali società complesse sempre più scandite dall’innovazione tecnologica si richiederebbe affrontarlo con strumenti appropriati, aggiornati per l’appunto.
Torniamo quindi alla domanda iniziale. A fronte di simili scossoni, quali orientamenti vogliamo seguire? Cito da alcuni studiosi che hanno osservato le dinamiche del lavoro durante i lockdown dettati dalla pandemia, concentrandosi proprio sugli aspetti della produttività creativa. Intanto una definizione generale. Se è vero che la creatività è difficile da misurare, da indicizzare, la professoressa Teresa Amabile della Harvard Business School, esperta in questo tipo di attività, ha così dichiarato: «Spesso quando parliamo di creatività intendiamo la produzione di idee nuove, ma non solo, anche appropriate, quindi utili e corrette. In fisica un’idea non può essere considerata creativa se non funziona. Ma nell’arte dovremmo usare parametri completamente diversi». Infatti, parametri diversi per reclutare le capacità umane nel settore produttivo, per una società che necessariamente avrà da muoversi su scale di valori mutate. Se da un lato le macchine si fanno carico dei compiti più ripetitivi, dall’altro la creatività è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale sul mercato. Dunque, i creativi producono ricchezza. Oggi, ciò che fa la differenza è saper essere versatili, cucire scampoli di cultura pur fra loro non immediatamente contigui e da quelli produrre idee (e quando l’idea incontra il capitale diventa innovazione, cioè innesca un ciclo economico di più o meno larga portata).
Alf Rehn, professore di innovazione, design e management alla University of Southern Denmark, ha affrontato il tema dei milioni di persone che in piena pandemia si sono trovate a gestire il lavoro da casa, avendo i figli vicini e che dei figli si sono dovute occupare nel medesimo ambiente, un unico spazio domestico-lavorativo senza soluzione di continuità. Ciò ha comportato in molti casi una perdita qualitativa nel lavoro prodotto. Le distrazioni e preoccupazioni familiari del momento hanno forse contribuito in larga parte a questo calo. Ma prosegue lo studioso «trovarsi di fronte a qualcosa che aiuti il distacco dal proprio lavoro di routine potrebbe ispirare nuove idee». Cosa valida anche per chi ha vissuto la propria attività diversamente, senza incombenze stringenti generate dalla propria sfera affettiva. Se la solitudine potrebbe essere interpretata come mancanza di interazione che tendenzialmente non giova al lavoratore, si può anche ipotizzare che in questa condizione di isolamento qualcuno abbia beneficiato di una concentrazione che prima non aveva. Insomma, la risposta agli eventi che coinvolgono l
essere umano, non è mai univoca in quanto univoco non è l’uomo.
E c’è ancora un messaggio beneaugurante nella lettura di Rehn, attualizzato se vogliamo allo scenario che purtroppo dalla pandemia ci sta proiettando in un conflitto a tinte fosche, in cui si giocherà un nuovo bilanciamento di forze e, direi, di visioni del mondo.
Il professore ha spiegato che spesso la creatività viene influenzata maggiormente da fattori diversi rispetto al semplice luogo di lavoro, che non va celebrato o demonizzato: «Nulla garantisce che chi non è creativo lavorando da casa lo sia se tornasse in ufficio dall’oggi al domani. Anche lo stress per la crisi economica, la possibile perdita del posto di lavoro, le restrizioni sociali di questa fase storica ostacolano naturalmente la creatività e non dipendono dal luogo». […] «Nessuno dice che sia facile, ma l’uomo ha creato fantastiche opere d’arte e nuove aziende durante le guerre più atroci. La speranza è che dalla pandemia possiamo trarre un importante insegnamento: la consapevolezza che la creatività è un duro lavoro».
Mi sento di aggiungere che è proprio in momenti di pesante cesura e sradicamento, che certo causano enorme sofferenza e nessuno si sogna di sostenere il contrario, ebbene, proprio in questo pathei-mathos su vasta scala, avviene quel vitale scorrimento di energie che permette appunto alla vita di procedere, di trovare i modi per preservarsi. Allora, si tratta di avere più coraggio nel valorizzare chi abbiamo intorno. Ci sono persone che hanno miniere di bellezza dentro di sé, e talenti e capacità, pur non avendo beneficiato di percorsi ritenuti lineari o istituzionalizzati o funzionali a compagini di potere. Ma a questo punto conta ancora qualcosa? Nei disastri che incombono e che già ci mostrano i movimenti profondi in atto nel nostro tessuto sociale (guardiamo ad esempio al vistoso calo delle immatricolazioni universitarie), se aspettiamo la regolarità di una vita per ritenere quella vita reclutabile in un progetto, ci ritroveremo a contare sulle dita di una mano
i prescelti. Questo è il momento di liberare le energie creative nascoste nei nostri organismi sociali. Multidisciplinarità, capacità di adattamento, versatilità, curiosità, esseri umani vivi, dubitanti, pensanti. Voglia di rimescolare le carte, di rovesciare le sorti, di squadernare (che modernità in questo verbo dantesco; «Nel suo profondo vidi che s’interna,/ legato con amore in un volume,/ ciò che per l’universo si squaderna», Paradiso, XXXIII, 85-87). Sono questi i veri atti rivoluzionari che bisogna avere il coraggio di compiere.
Qualcuno potrebbe obiettare che è un po’ come inseguire le nuvole mentre c’è un terremoto. E perché no? Perché non provarci? Non di rado le vere svolte vengono proprio dall’aver immaginato le cose più improbabili.

 
(Di Claudia Ciardi)

 

Rimandi:

Per il documentario a cui mi riferisco nell’articolo si veda:

Progetto scienza verso il futuro - in onda su Rai Scuola del 31 ottobre 2021

A cura di Chiara Buratti.  

Titolo del documentario in oggetto: Robot intelligenti, automazione, sostituzione del lavoro. Una transizione che aveva previsto l'economista Keynes.


Per dettagliati approfondimenti su Keynes e l’automazione si vedano i dettagliati articoli di «Futuri Magazine»

 

 

Dalla mia bacheca «Vissi d'arte»
 

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