Berndnaut Smilde - Nuvola
Nei
disastri e dissesti che scuotono il nostro tempo, l’invito a valorizzare i
creativi potrebbe suonare quasi velleitario. In un’ottica conservatrice di
vecchie categorie forse sì. Ma nei ribaltamenti dell’oggi, con gli scenari
estremamente instabili che ne conseguono, potrebbe darsi invece come la via
d’uscita a molti dei nostri problemi. Una via coraggiosa, che implica
certamente la rottura di tanti schemi – cosa ormai inevitabile ma che trova
ancora altrettanti attriti – e che potrebbe finalmente liberare quelle energie
latenti nella società la cui entrata in circolo segnerebbe un rinnovamento
dell’organismo e un significativo cambio d’impostazione. Quale
inafferrabile utopia, eppure direi, quale migliore e più sicura strada da
percorrere se ci teniamo davvero a risolvere i conflitti e le contraddizioni di
un periodo storico che si ostina a riproporre e contrapporre – anche
violentemente – schemi superati, se vogliamo piuttosto provare a rimescolare le
carte. Se lo vogliamo…
Secondo
stime rese note nel 2021, il 4 % del pil mondiale va perso a causa delle
calamità naturali. Questo è già indicativo di come l’andare incontro a
situazioni di divario, povertà endemica, mancanza di risorse primarie non sembri
scuoterci più di tanto. Proseguiamo in difetto, osserviamo ingigantirsi il
problema delle migrazioni e dell’impoverimento collettivo, senza mettere in
discussione niente o quasi dei nostri massimi sistemi. Anche
il mondo del lavoro risente, è chiaro, di dinamiche entrate in affanno secondo il metro dell’ufficialità o, sempre secondo quel metro, di mancanza di
dinamiche. La lunga stagnazione, che i più anziani si ostinano a non vedere –
ma non è solo un difetto mentale dei meno giovani, purtroppo – come anche le sempre
più frequenti fibrillazioni del mercato, andrebbero affrontate con minore rigidità.
Si parla sempre di formazione, questa grande chimera, ma quale poi? Il rilascio
delle risorse in ambito culturale è vittima di condizionamenti di ogni tipo, lo
stesso lavoro culturale, specie in Italia, fatica a godere di un riconoscimento
degno, appena ci si muove in ambiti paralleli, meno istituzionalizzati o che non lo sono affatto.
Eppure, proprio per le difficoltà che si vanno palesando, ci sarebbe bisogno di
un coinvolgimento più ampio, di una formazione quasi permanente – una formazione
capillare, vera, non strumentale a qualche centro di potere o via dicendo.
Keynes
aveva previsto molto bene gli effetti della cosiddetta “technological
unemployment”, ossia la disoccupazione generata dalla crescente automazione. Un
periodo transitorio, a suo dire, ma destinato a un impatto sociale rilevante. A
tale proposito la Rai – dunque non una rete clandestina, ma la tv di Stato – qualche
mese fa aveva trasmesso un interessante documentario sugli effetti dell’automazione
in alcuni paesi del mondo: Germania, Canada, Giappone, Cina. Latitudini e
culture diverse ma una problematica comune ed estesa. Quanto alle risposte,
sono ancora estremamente incerte, soprattutto in occidente, mentre l’oriente
sembra essersi preparato con maggior tempismo al salto tecnologico, anche per ciò che riguarda le conseguenze sociali (la Cina soprattutto).
Un
esempio. In Ontario è stato condotto il primo esperimento di reddito universale
su un gruppo eterogeneo di persone con bagagli culturali e professionali
differenti. Queste persone non avrebbero avuto alcuna effettiva possibilità di
ricollocarsi nel mondo del lavoro. Se una banca decide di tagliare il suo
organico, seguendo un piano di ristrutturazione pluriennale, lo taglierà, senza
che si generino ulteriori posti – men che meno quindi aspettative di lavoro – e creando un problema di
disoccupazione in coloro che vengono messi alla porta. Il risultato dell’esperimento
canadese mostrava come i cittadini selezionati, aiutati a sostenersi economicamente e liberati dal disagio psicologico del vedersi sostanzialmente rifiutati dal contesto sociale,
liberavano energie creative. Qualcuno ha
investito buona parte del proprio reddito in percorsi formativi scelti in autonomia
– dunque corsi non calati dall’alto ma cercati in proprio e meglio tarati sulle
attitudini individuali, in base a obiettivi professionali aggiornati, fuori da schemi obsoleti che, diciamolo ancora una volta, non producono nuove idee.
Purtroppo
con il cambio di governo, l’esperimento è stato interrotto. Chiaro, vale ciò
che si è detto sopra. I politici che si sono avvicendati hanno ritenuto quel
capitolo un inutile esercizio di welfare, tanto più che il problema occupazionale
sarebbe un qualcosa di ciclicamente inerente al capitalismo. Non un evento che
per estensione finora non si era mai visto, pur nelle cicliche crisi
capitaliste; come in questo caso. E ad ogni modo, fosse anche un
episodio, nelle attuali società complesse sempre più scandite dall’innovazione
tecnologica si richiederebbe affrontarlo con strumenti appropriati, aggiornati
per l’appunto.
Torniamo
quindi alla domanda iniziale. A fronte di simili scossoni, quali orientamenti vogliamo
seguire? Cito
da alcuni studiosi che hanno osservato le dinamiche del lavoro durante i
lockdown dettati dalla pandemia, concentrandosi proprio sugli aspetti della
produttività creativa. Intanto una definizione generale. Se è vero che la
creatività è difficile da misurare, da indicizzare, la professoressa Teresa
Amabile della Harvard Business School, esperta in questo tipo di attività, ha
così dichiarato: «Spesso quando parliamo di creatività intendiamo la produzione
di idee nuove, ma non solo, anche appropriate, quindi utili e corrette. In
fisica un’idea non può essere considerata creativa se non funziona. Ma
nell’arte dovremmo usare parametri completamente diversi». Infatti, parametri
diversi per reclutare le capacità umane nel settore produttivo, per una società
che necessariamente avrà da muoversi su scale di valori mutate. Se da un lato
le macchine si fanno carico dei compiti più ripetitivi, dall’altro la
creatività è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale sul mercato. Dunque, i
creativi producono ricchezza. Oggi, ciò che fa la differenza è saper essere
versatili, cucire scampoli di cultura pur fra loro non immediatamente contigui
e da quelli produrre idee (e quando l’idea incontra il capitale diventa
innovazione, cioè innesca un ciclo economico di più o meno larga portata).
Alf
Rehn, professore di innovazione, design e management alla University of
Southern Denmark, ha affrontato il tema dei milioni di persone che in piena
pandemia si sono trovate a gestire il lavoro da casa, avendo i figli vicini e che
dei figli si sono dovute occupare nel medesimo ambiente, un unico spazio domestico-lavorativo
senza soluzione di continuità. Ciò ha comportato in molti casi una perdita
qualitativa nel lavoro prodotto. Le distrazioni e preoccupazioni familiari del
momento hanno forse contribuito in larga parte a questo calo. Ma prosegue lo
studioso «trovarsi di fronte a qualcosa che aiuti il distacco dal proprio
lavoro di routine potrebbe ispirare nuove idee». Cosa valida anche per chi ha
vissuto la propria attività diversamente, senza incombenze stringenti generate dalla propria sfera
affettiva. Se la solitudine potrebbe essere interpretata come mancanza di
interazione che tendenzialmente non giova al lavoratore, si può anche ipotizzare
che in questa condizione di isolamento qualcuno abbia beneficiato di una
concentrazione che prima non aveva. Insomma, la risposta agli eventi che coinvolgono l’essere umano, non è mai univoca in quanto univoco non è l’uomo.
E
c’è ancora un messaggio beneaugurante nella lettura di Rehn, attualizzato se
vogliamo allo scenario che purtroppo dalla pandemia ci sta proiettando in un
conflitto a tinte fosche, in cui si giocherà un nuovo bilanciamento di forze e,
direi, di visioni del mondo. Il professore ha spiegato che spesso la
creatività viene influenzata maggiormente da fattori diversi rispetto al
semplice luogo di lavoro, che non va celebrato o demonizzato: «Nulla garantisce
che chi non è creativo lavorando da casa lo sia se tornasse in ufficio
dall’oggi al domani. Anche lo stress per la crisi economica, la possibile
perdita del posto di lavoro, le restrizioni sociali di questa fase storica
ostacolano naturalmente la creatività e non dipendono dal luogo». […] «Nessuno
dice che sia facile, ma l’uomo ha creato fantastiche opere d’arte e nuove
aziende durante le guerre più atroci. La speranza è che dalla pandemia possiamo
trarre un importante insegnamento: la consapevolezza che la creatività è un
duro lavoro».
Mi
sento di aggiungere che è proprio in momenti di pesante cesura e sradicamento,
che certo causano enorme sofferenza e nessuno si sogna di sostenere il
contrario, ebbene, proprio in questo pathei-mathos su vasta scala, avviene quel
vitale scorrimento di energie che permette appunto alla vita di procedere, di trovare
i modi per preservarsi. Allora,
si tratta di avere più coraggio nel valorizzare chi abbiamo intorno. Ci sono
persone che hanno miniere di bellezza dentro di sé, e talenti e capacità, pur
non avendo beneficiato di percorsi ritenuti lineari o istituzionalizzati o
funzionali a compagini di potere. Ma a questo punto conta ancora qualcosa?
Nei disastri che incombono e che già ci mostrano i movimenti profondi in atto nel nostro tessuto sociale (guardiamo ad esempio al vistoso calo delle immatricolazioni universitarie), se aspettiamo la regolarità di una vita per ritenere quella vita reclutabile in un progetto, ci ritroveremo a contare sulle dita di una mano “i prescelti”. Questo è il momento di liberare le energie creative nascoste nei nostri
organismi sociali. Multidisciplinarità,
capacità di adattamento, versatilità, curiosità, esseri umani vivi, dubitanti,
pensanti. Voglia di rimescolare le carte, di rovesciare le sorti, di squadernare
(che modernità in questo verbo dantesco; «Nel suo profondo vidi che s’interna,/
legato con amore in un volume,/ ciò che per l’universo si squaderna», Paradiso,
XXXIII, 85-87). Sono questi i veri atti rivoluzionari che bisogna avere il
coraggio di compiere.
Qualcuno
potrebbe obiettare che è un po’ come inseguire le nuvole mentre c’è un
terremoto. E perché no? Perché non provarci? Non di rado le vere svolte vengono
proprio dall’aver immaginato le cose più improbabili.
(Di
Claudia Ciardi)
Rimandi:
Per il documentario a cui mi riferisco nell’articolo si veda:
Progetto scienza verso il futuro - in onda su Rai Scuola del 31 ottobre 2021
A cura di Chiara Buratti.
Titolo del documentario in oggetto: Robot intelligenti, automazione, sostituzione del lavoro. Una transizione che aveva previsto l'economista Keynes.
Per
dettagliati approfondimenti su Keynes e l’automazione si vedano i dettagliati articoli di «Futuri Magazine»
Dalla mia bacheca «Vissi d'arte»
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