Egon Schiele - Una casa
«Non si possono più riconoscere
i monumenti dell’epoca trascorsa,
immensi spalti ha consunto il tempo vorace.
Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,
giacciono tetti sepolti in vasti ruderi.
Non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino:
ecco che possono anche le città morire».
Rutilio Namaziano, De reditu suo
Credo
che il passo del poema tardolatino composto da Namaziano si presti molto bene a
introdurre questo breve discorso sull’antropologia di Marc Augé, di cui ho
sempre letto con interesse la produzione saggistica. Francese di Poitiers, nato
nel 1935, instancabile viaggiatore come si addice a chi pratichi il mestiere di
osservare uomini appartenenti a diverse latitudini e culture, è autore di numerosi
studi che non solo hanno contribuito ad aprire nuovi itinerari nella sua disciplina, ma si sono imposti a livello assai più ampio, cosa ben attestata
dalla diffusione di alcuni suoi neologismi, uno su tutti quello di “nonluogo”.
Ricordo di essere tornata alla lettura di Augé un paio di anni fa, nel corso di
una sosta affatto breve alla stazione di Milano. In quelle ore
sentii l’esigenza di tuffarmi tra i suoi libri e feci incetta delle
ultime edizioni riviste e introdotte ex novo dall’antropologo. Trovai anche
abbastanza singolare d’essermi imbattuta, sempre in quella strana giornata di
rimeditazione degli argomenti di Augé, in un corteo di attivisti in partenza
per Ginevra che inscenarono una prolungata invasione delle zone di attesa per
difendere il diritto al libero attraversamento delle frontiere europee da parte dei cittadini extracomunitari. Tema spinoso che si sarebbe
materializzato di lì a un anno con la grande spinta migratoria, determinando i
bivacchi d’emergenza proprio in stazione centrale a Milano, immagine stridente
con l’inaugurazione di Expo, e le famose marce dei disperati sulla via dei
Balcani. Della concitazione di quelle settimane si rammenta troppo poco, se non
l’imbarazzo stizzito degli euro leader e il cosiddetto coraggio della Cancelliera che da una parte voleva
accogliere e dall’altra premeva, senza parere, affinché la rotta balcanica
venisse sigillata al più presto. E qui si potrebbe malignare ulteriormente: in tal modo il peso sarebbe tornato a scaricarsi in direzione univoca
sull’Italia, cosa accaduta con la puntualità di una pendola prussiana.
Rileggere allora le pagine dedicate da Augé al concetto di frontiera è
stato un esercizio di grande utilità per mettere meglio a fuoco le dinamiche in
atto ma anche le non poche dissennatezze politiche espresse da tutte le parti
in gioco; mentre il parlamento europeo sbandierava il rispetto dei diritti
umani, a est ferveva il lavoro attorno ai muri anti migranti. E dunque ecco
spuntare la domanda di sempre: quale Europa?
Nel
definire la contemporaneità una messa in discussione dalle fondamenta delle
idee consolidate di spazio e tempo, lo studioso francese ci parla di un inevitabile
scorrimento delle frontiere, moto parallelo al manifestarsi delle direttrici globali.
Non sono solo i confini fisicamente tracciati e riconosciuti in un territorio a
essere ripensati ma anche le nostre stesse barriere interne orientate
a negoziare un’identità condivisa, a costituire gruppi e nuclei comunitari dai
tratti distintivi che siano al contempo punti d’incontro per l’altro. In un
livellamento anonimo, consumato a ritmi vertiginosi, pure il rito di conoscenza
e accettazione dell’alterità, processo fondamentale nella definizione del sé,
sembra condannato a svuotarsi. Orizzonti, consuetudini, bisogni omologati
prosciugano i particolarismi, rendono quasi superflua ogni ipotesi di
differenziazione. In tal senso la scomparsa della frontiera potrebbe venire
accolta come il realizzarsi di un’utopia umanistica per così dire liberatoria e
coerente con le tendenze attuali. Mentre Augé appunto ci mette in guardia dalle
false semplificazioni. La globalità, come lui la chiama, è omologante in
superficie ma contiene i medesimi nuclei narrativi su cui l’antropologia indaga
dall’inizio del suo operare. L’accelerazione di tempo e spazio, lo
schiacciamento delle coordinate da cui l’essere umano era solito attribuire
senso alle proprie azioni, sono esiti che non rimuovono le problematiche di
fondo del vivere ossia le strategie che alimentano il suo organizzarsi. Ciò che
cambia è il riflesso, la ricaduta in termini soprattutto di percezione che i nuovi
parametri della contemporaneità impongono a chi vi si trova immerso nei doppi
panni di attore-spettatore.
Responsabile di un simile abbaglio,
secondo Augé, sarebbe la sovrabbondanza di elementi intesa come eccesso di
informazioni che impediscono di acquisire sia un
punto di vista su quel che accade sia un metodo efficace di catalogazione. La storia, di pari passo all’identità dei
luoghi, a festività e ricorrenze nelle quali sono piantate le radici di ognuno, alla
condivisione sociale delle esperienze, meccanismo basilare del
cementarsi di una comunità, sembra perdere di significato. E questo perché
l’orizzonte contemporaneo, cosmo policentrico e sfuggente, non è in grado di
offrire un principio di intelligibilità, almeno stando ai codici che hanno sostenuto
l’avventura della conoscenza in epoca moderna. L’uomo del nuovo millennio va
incontro alla storia animato da un movimento riflesso. Scendendo in
metropolitana, davanti ai suoi occhi scorrono nomi di quartieri che rimandano a
monumenti, battaglie, personaggi, sedimenti urbani del passato, eppure non è il
coefficiente temporale a imporsi all’attenzione di chi affronta quel percorso
ma una spazialità di natura meccanicistica, ripetitiva – per molti si tratta
dell’itinerario che tutti i giorni conduce al lavoro o verso impegni familiari,
ed è quindi lo spazio a dare un volto alla storia e non viceversa.
Così
negli svincoli autostradali che ci conducono all’aeroporto o che affiancano il
nostro viaggio, incidentalmente ci vengono incontro i cartelli che invitano a
fare una deviazione per visitare un complesso architettonico o i resti di una
villa romana. Il nonluogo, un raccordo a scorrimento veloce che serve solo a
trasportarci da un posto all’altro, costeggia i luoghi della storia, i luoghi
dell’identità e della relazione, ammicca alla loro presenza e alle loro ragioni ma non va oltre. L’essere umano globale «guarda e passa», anzi più spesso passa soltanto. Questo scarto prosegue e compendia per certi versi il
ragionamento sviluppato in Rovine e
macerie, l’altro celebre scritto di Augé. La rovina in quanto costruzione abbandonata
dalla storia, non è più in grado di parlarci in dettaglio del tempo vissuto da
coloro che se ne servivano, è una scheggia indistinta di un capitolo ormai
sfuocato. Ma il fatto che sia ancora lì e possiamo contemplarla, ha in sé
qualcosa di rassicurante, il peso del passato si stempera e si lascia scrutare
attraverso un velo di nostalgia. Nelle macerie invece si avverte il
deragliamento della storia. Dal latino maceria,
muro di cinta non legato da calce o fatto di terra impastata (da cui si suppone
il greco massein, impastare),
edificato per chiudere un vigneto o un parco per la caccia, in italiano è registrato l’uso plurale indicante ciò che resta di strutture abbattute da
fenomeni che recidono in modo violento il vissuto da un luogo. Può essere un
bombardamento o un cataclisma, come il terremoto. Di qui l’importanza di
rinsaldare subito le comunità e contribuire al ripristino dei legami necessari
alla socialità di quei luoghi. Diversamente verrebbero cancellati, le macerie
non diverrebbero rovine, non potrebbero neppure trasformarsi in “luoghi della
memoria” perché l’unica possibilità per la
memoria di preservarsi è rappresentata dagli abitanti dei territori.
Nella
polarizzazione odierna di luogo e nonluogo Augé riscontra qualcosa di simile,
pur ammettendo che gli incroci tra queste due realtà sono tutt’altro che
infrequenti. Come le macerie, anche i nonluoghi – le aree destinate al
passaggio, al commercio massificato o quelle deputate alla sosta dei disperati
del mondo (campi profughi, centri di identificazione) – tendono ad annullare il
patrimonio relazionale umano. Le destabilizzazioni che producono, differenti nei modi in cui avvengono, sortiscono un impatto per lo più identico.
Da
nessuna parte tuttavia si danno luoghi e nonluoghi in senso assoluto, le
infiltrazioni sono anzi il vero paradigma del loro definirsi tali. L’aspetto
contaminante è veicolato dagli esseri umani che attraversano di continuo
entrambe le dimensioni. Nelle loro mani l’opportunità di non soccombere all’anonimia ma
di farsi interpreti delle istanze di una nuova idea di spazio comunitario,
sorto dallo scontro-incontro dei due poli.
Pensiamo alle isole. Luoghi per loro definizione staccati dalla terra e forse perciò meno soggetti al mutamento o al culto dell’effimero che ovunque ci tallona. Il turismo però ha dettato le sue necessità, livellato e reso accessibile quel che in un primo tempo non era. Ha portato il mondo globale, le sue immagini, le sue nevrosi anche dove sembravano non poter attecchire e dove paradossalmente – uno dei tanti paradossi della nostra epoca – andiamo in cerca di tranquillità e ritmi del tutto differenti da quelli della terraferma. E però la natura ingaggia a sua volta una specie di lotta con le nostre abitudini, quasi avessimo due ombre. La vita isolana resta dura, anche se si va da turisti e accolti appunto dal comfort turistico. L’ambiente conserva la sua asprezza, in qualche caso è vero si tratta di mimica facciale, di una simulazione costruita ad hoc per lo sguardo del turista, ma in profondità si fa esperienza di un luogo che non si lascia addomesticare. Ed è forse anche questa consapevolezza, questa oscillazione tra un estremo e l’altro ad esercitare un richiamo così forte sui visitatori.
Pensiamo alle isole. Luoghi per loro definizione staccati dalla terra e forse perciò meno soggetti al mutamento o al culto dell’effimero che ovunque ci tallona. Il turismo però ha dettato le sue necessità, livellato e reso accessibile quel che in un primo tempo non era. Ha portato il mondo globale, le sue immagini, le sue nevrosi anche dove sembravano non poter attecchire e dove paradossalmente – uno dei tanti paradossi della nostra epoca – andiamo in cerca di tranquillità e ritmi del tutto differenti da quelli della terraferma. E però la natura ingaggia a sua volta una specie di lotta con le nostre abitudini, quasi avessimo due ombre. La vita isolana resta dura, anche se si va da turisti e accolti appunto dal comfort turistico. L’ambiente conserva la sua asprezza, in qualche caso è vero si tratta di mimica facciale, di una simulazione costruita ad hoc per lo sguardo del turista, ma in profondità si fa esperienza di un luogo che non si lascia addomesticare. Ed è forse anche questa consapevolezza, questa oscillazione tra un estremo e l’altro ad esercitare un richiamo così forte sui visitatori.
In
una delle sue più recenti apparizioni per la tv italiana, Augé sedeva in un
caffè di Parigi. Fu un paio di settimane prima del Bataclan. Non parlò molto,
stava davanti al tavolino dove qualcuno gli aveva ordinato qualcosa e disse in
due parole come era cambiato negli ultimi anni il modo di condividere uno
spazio così tipico della metropoli parigina – il caffè-bistrot amatissimo approdo dei primi flâneur – alla
luce della nuova generazione social.
Il fatto che una decina di giorni dopo quegli spazi siano stati violati da
un’altra delle fratture più estreme prodotte dall’era globale, il terrorismo
fondamentalista, ha dato alle parole dell’antropologo una forza
ulteriore.
Si
torna così all’inizio del nostro ragionare. Le frontiere, quelle geografiche ma
ancor più quelle etniche e sociali che vedono lo sconvolgente incrementarsi del
divario tra ricchi e poverissimi, non vanno né ignorate né fortificate. Vanno
prima di tutto comprese, perché di qui passa la vera conoscenza e il rispetto
dell’altro. E nel caso del divario sociale va gradualmente limato e risolto. Questa la principale tra le sfide che ci attendono.
(Di Claudia Ciardi)
Edizione consigliata:
Marc Augé, Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodernità.
Con una nuova prefazione
dell’autore,
Elèuthera, 2009Manifestazione per l’asilo politico "europeo" a Milano Centrale - giugno 2014