30 settembre 2020

La fotografia di Riccardo Moncalvo

 

Pubblicato nel 1976 dalla Tipografia Torinese Editrice, questo catalogo di Riccardo Moncalvo è una delle più suggestive e complete raccolte sulla fotografia del Novecento. Un volume che ogni cultore di quest’arte, e non solo, dovrebbe conoscere tanto è sfaccettata la materia qui offerta, campionario essenziale ed esemplare di uno dei grandi maestri italiani che ha letteralmente attraversato il secolo. Di fronte a un’opera del genere si resta ammirati e subito dopo si avverte il bisogno di rinnovarne la divulgazione, magari percorrendo di nuovo quell’impresa editoriale che Alfonso Dellavedova, fotografo, ma anche grafico esperto ed editore, volle con estro tenace perché da queste pagine si scattasse un’altra e più compiuta fotografia alla mostra promossa in occasione del cinquantenario di attività dell’autore.

Il padre, Carlo Emilio Moncalvo (1887-1935), giunto giovanissimo nella capitale sabauda, radicato in una famiglia della vecchia aristocrazia piemontese, si forma presso l’atelier di Ferdinando Bietenholz, quindi, trasferitosi per un periodo a Napoli, realizza qui le inedite riprese della vita delle creature marine nell’acquario cittadino, riscuotendo il favore della critica per l’assoluta novità della prova. Tra il 1928 e il 1929, Carlo Moncalvo fonda – primo a Torino – il nuovo laboratorio per lo sviluppo, l’ingrandimento e la stampa del 35 millimetri – nel volantino della ditta si leggeva “stampa garantita in ventiquattro ore”. In questo antro delle meraviglie, il giovane Riccardo inizia a prendere familiarità coi ferri del mestiere, rivelando un’attitudine così spiccata da garantirgli un esordio assai precoce, ad appena quindici anni. Da allora la sua carriera non conosce battute d’arresto, consegnandolo a premi e rassegne nazionali ed estere. Incarichi, mostre, ma anche, soprattutto, tanta ininterrotta devozione che lo induceva a “vedere” l’immagine sempre, ovunque, a scovare l’incanto della composizione anche quando non lavorava.

Attraverso le parole di Angelo Dragone, Luigi Firpo, Michele Ghigo, Alfonso Dellavedova che dedicano autentici saggi di poesia all’opera di Moncalvo, prende vita un mondo culturale di ascendenze piemontesi che tessendo i più diversi talenti e stimoli creativi ha saputo fare scuola, segnando indiscutibilmente le arti e i saperi per mettere poi in circolo questi semi. Tra le tante voci citate non si può trascurare quella di Carlo Mollino, architetto e fotografo, autore del celebre libro Il messaggio della camera oscura che nel 1969 scriveva così: «le cose di Moncalvo sono ritratto, una rivelazione di una cosa che prima ci appariva senz’anima»

Quando a Torino ho visto l’album dei suoi provini sul Barocco sono rimasta folgorata. Già solo da quel campionario, quasi il quaderno di un sarto che colleziona stoffe per i suoi abiti migliori, s’intuiva una storia avventurosa ed estremamente densa di luoghi, soggetti, ispirazioni. L’occhio instancabile di Moncalvo ha infatti saputo rendere omaggio tanto alla natura, con le sue cadenze sospese tra estasi romantica e tempeste sublimi, quanto alle architetture industriali. Due versanti investiti dalle medesime venature simboliche, suggestioni e toni affini, sebbene si tratti di cose all’apparenza tanto lontane. Bellissimi i ritratti dei langaroli che ho amato dapprima nelle serie di Michele Pellegrino e che qui ho scoperto a uno stadio per così dire primevo, ancor più circonfusi e allo stesso tempo intagliati in quell’arcaismo terreno da cui sembrano affiorare direttamente.

Perché l’uomo è in queste immagini misura e compendio del tempo. È l’elemento da cui si rinvengono le proporzioni, anche in senso metaforico  – il fondovalle apuano con il piccolo gruppo in marcia, le orme sulla neve altrimenti immacolata e perfetta, i comignoli che fumano in un mattino di periferia. L’essere umano sia che si stagli in un paesaggio che lo soverchia sia che rimanga non visto nel chiuso delle case è una presenza che scandisce, un controcanto cromatico, un’armonica dissonanza su cui in ogni caso ci si trova a riflettere. Così pure nel caso degli oggetti i reticoli delle impalcature con la loro geometria ossessiva o il lucido speculare bilanciamento metallico dei binari si trasfigurano, quasi un voluttuoso ideogramma l’uno, e un morbido spago intrecciato alle mani per un gioco d’infanzia l’altro. Anche nell’apparente freddezza, estraneità delle cose avviene di sentirsi attraversati dal tepore di chi le ha fabbricate, dall’intima quotidianità di chi le utilizza e dunque da chi, il fotografo, fa per avvicinarcele. Dettagli – la catena di un contadino o la punta del suo badile –  che dominano la scena o panoramiche assolute che sembrano sfuggire e che si tendono in una coralità pur tesa, ma infine raccolta. E una religiosità dellattimo spesso affidata al titolo, segnacolo che richiama il potere magico dello scatto. Ci sono generi e stagioni nei temi prescelti da Riccardo Moncalvo ma anche molti ritorni, sintomo di una sperimentazione, di una volontà di rivedere quel che si era già visto sotto una luce nuova, investendolo delle attese di una ricerca in cammino, di un passo ulteriore. Non sorprende pertanto incontrarlo ancora all’inizio del millennio e sulla soglia dei novant’anni, allestire le sue ultime personali. Segno anche di una professionalità indiscussa e di un temperamento ammirevole, ben ripartito fra scrupolo dettato dal mestiere e straordinaria passione del creare.


(Di Claudia Ciardi)

 

Catalogo:

La fotografia di Riccardo Moncalvo, introduzione di Angelo Dragone, Tipografia Torinese Editrice, 1976


Link: Archivio Riccardo Moncalvo


Salgono le nubi - Champoluc (Aosta), settembre, ore 11 (1938)



Langaroli al mercato - Murazzano (Cuneo), luglio, ore 11 (1947)



Tempo d'autunno nel vercellese - novembre, nebbia, ore 10 (1938)



Cézar 'd la fisa - Antagnod (Aosta), febbraio, al sole, ore 14 (1938)


Appunto di paese - Racconigi, Cuneo, novembre, ore 9 (1937)




Fondovalle - Cave di marmo nelle Apuane, luglio, ore 13:30 (1975)

 

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