Il grazioso librino a firma di Davide Rossi, direttore del Centro Studi Anna Seghers di Milano, è un tributo a una delle più importanti figure della poesia italiana, Umberto Saba, e alla sua Trieste, città natale cantata con sognante dimessa malinconia in un dialogo mai venuto meno, dove l’io lirico scaturisce dal luogo, ricreandone di volta in volta identità e contorni nel proprio spazio interiore. Come ebbe a dire in tarda età, attanagliato dall’amarezza del disincanto politico, in polemica col centrismo democristiano, sotto il cui ombrello prosperavano disinvoltamente non pochi fascisti che avevano fatto il buono e il cattivo tempo, «se la mia poesia è – come ogni poesia – un’interpretazione del mondo, questo mondo è veduto da Trieste, non da Cesena o da Predappio, o da Firenze. E nemmeno da Roma. È già “l’altro mondo”, quello che gli italiani non possono assimilare». Non si sentiva dunque capito, Saba, e legava questa incomprensione al naufragio rovinoso della complessità culturale cui apparteneva, in altre parole la vertigine della frontiera. Storia di una città multietnica per secoli sospesa tra mondo germanico e slavo, tra Italia e oriente, patria di aristocratici, mercanti, avventurieri, che difficilmente avrebbe saputo rassegnarsi alla perdita delle proprie vocazioni dopo il crollo degli imperi seguito alla prima guerra mondiale, con cui finì pure l’egemonia dell’Europa al di fuori del continente.
Nato nella città giuliana il 9 marzo 1883, all’epoca sotto gli Asburgo, Saba era figlio di un commerciante di origini veneziane, Ugo Poli, e dell’ebrea triestina Felicita Rachele Cohen. Abbandonato dal padre, che dopo le nozze riparatrici e la frettolosa conversione alla religione israelitica non volle comunque vederlo nascere, facendo perdere ogni traccia di sé, il piccolo Umberto venne alla luce in una situazione familiare non certo bella. La madre, caduta in depressione, lo affidò a una balia slovena, tale Peppa Sabaz, nome leggendario degno di una fiaba, cui più tardi il giovane legò il suo esordio letterario. La donna lo crebbe con straordinario affetto, finché la madre si decise a riprenderlo con sé, attirandolo nell’orbita delle due sorelle, quelle zie la cui letterarietà non è inferiore alla buona nutrice. Le tre donne praticavano con profitto un commercio di mobili, che più tardi permise a Saba di vivere piuttosto agiatamente in Toscana, prima nei mesi trascorsi all’università di Pisa e quindi a Firenze, tra gli amici che animavano «La Voce», la rivista che fece conoscere il poeta in Italia.
Questo prima della Grande Guerra, quando la corona austriaca valeva al cambio tre lire e Trieste prosperava sulla propria centralità di porto imperiale. Fino al 1914 il panorama editoriale della città vantava otto quotidiani in quattro lingue (italiano, tedesco, sloveno, croato). A distanza di quasi cento anni dagli eventi, in un volume storico stampato da «Il Piccolo», di cui mi ha fatto graditissimo dono il mio amico triestino Nereo Polo, la primavera del 1914 è efficacemente descritta come «uno dei momenti di incoscienza collettiva più incredibili della storia». Ai primi di marzo Francesco Ferdinando e la consorte si recarono al castello di Miramare. A quanto pare le loro fughe da Vienna verso il sud erano piuttosto frequenti, a causa delle continue umiliazioni ricevute a corte dall’arciduchessa. In aprile vennero raggiunti da Guglielmo II. Una foto d’epoca ritrae la scialuppa reale mentre sta attraccando ai piedi del castello, il re prussiano seduto al centro, in attesa che la manovra sia completata. Sebbene si tratti di uno scatto in bianco e nero, doveva essere una bella giornata di sole. E col bel tempo a Miramare ci si può sentire a un passo dal paradiso. Sembravano tutti tranquilli in quest’ultima primavera senza guerra.
I triestini, insieme ai trentini, furono i primi a essere mobilitati. I reparti, al cui interno vi erano pure italiani irredentisti, vennero schierati sul fronte orientale. Per molti di questi soldati si trattò di un conflitto nel conflitto. Gli austriaci, spiazzati dall’intervento della Russia a sostegno dei serbi, si trovarono sguarniti proprio in quelle remote zone di confine – Polonia, Galizia, Ucraina – dove le inefficienti ferrovie imperial-regie faticarono per settimane a trasferire i propri soldati. In Galizia i russi si fecero trovare pronti assai prima degli uomini appartenenti alla Triplice Alleanza. Tra il 6 e l’8 settembre del ‘14 le truppe zariste sfondarono le linee nemiche conquistando Leopoli e arrivando quasi a Cracovia. Una scena descritta molto bene nelle sue memorie dall’amico di Joseph Roth, Soma Morgenstern, che racconta di una fuga rocambolesca da casa, insieme ai suoi familiari, lasciando la tavola apparecchiata per il pranzo. Proprio davanti a Leopoli operava il 97° reggimento, con sede a Trieste, che subì il settantacinque per cento delle perdite, tra morti e prigionieri. A tale proposito vale la pena ricordare la testimonianza di Mario Rigoni Stern: «Coloro che non caddero finirono prigionieri dei russi, e un cupo silenzio e un’ansia di notizie scesero sulle province italiane di governo asburgico».
Per Saba la guerra ebbe il volto di molti mestieri che fortunatamente lo tennero al riparo dalle zone più disastrate del fronte. Munito di passaporto italiano, unica eredità di quel padre sconosciuto, gli venne risparmiata la militanza presso gli Asburgo. Nel lungo periodo delle ostilità fu militare in caserma, dattilografo, collaudatore, traduttore dal tedesco per i prigionieri austriaci.
Davide Rossi è molto abile a farci entrare con brevi cenni nella stratificata vicenda storico politica di Trieste che accompagna per intero l’avventura umana e letteraria di Saba. La fine della potenza asburgica, coincise con l’inizio di ristrettezze. Assottigliati se non azzerati i risparmi di famiglia, a causa del nuovo cambio sfavorevole fissato dal governo italiano, il cognato dette al poeta una mano assumendolo nella sala cinematografica che dirigeva in Via XX Settembre. Un episodio degno del miglior Wim Wenders, quello di Im Lauf der Zeit per intendersi. Poi, finalmente, l’occasione benedetta di rilevare la libreria antiquaria Mayländer di Via San Nicolò, che da lì in avanti, pur tra le interruzioni dovute alle leggi razziali e della seconda guerra mondiale, fu il rifugio sicuro in cui attingere al suo testamento spirituale, il Canzoniere.
Con l’armistizio del ’43 Mussolini cedette la città al Reich che ne fece una provincia tedesca ribattezzata Adriatische Kustenland, e il poeta attese l’arrivo degli alleati a Firenze, grazie all’ospitalità di Eugenio Montale, Ottavio Cecchi e Carlo Levi, per poi trasferirsi a Roma, prima del definitivo rientro a Trieste. La liberazione gli portò in regalo il Premio Viareggio, vinto col suo Canzoniere nel ’46, stampato da Einaudi l’anno prima. Autobiografia in versi ispirata all’ermetismo di stampo montaliano, opera sui generis senza eguali nella lirica italiana novecentesca, se non qualche consonanza con la ricerca di Alfonso Gatto.
Il decennio di controllo statunitense sulla città, formalmente libera, fu vissuto da Saba con non poche preoccupazioni. Temeva una nuova escalation del conflitto che avrebbe gettato Trieste nella nuova stessa situazione della Palestina. La storia pur tra alti e bassi ha seguito però un corso diverso, restituendole, se non il passato prestigio, almeno una certa prosperità negli scambi e nelle attività commerciali, grazie alla posizione di cerniera tra est e ovest. In modo scherzoso ma estremamente icastico «a Trieste si usa dire che l’est inizia al caffè Fabris all’angolo tra piazza Dalmazia e via Romagna e finisce a Vladivostok».
Oggi le cose sono di nuovo cambiate. La crisi picchia duro e il triestino, mite e riservato per natura, non può fare a meno di lamentarsi di una città che vede in affanno, in parte svenduta in parte svuotata. Eppure il luogo ha in sé tantissime risorse, energie e un fascino invidiabile che il tempo non scalfisce. Io mi sento di consigliare questa lettura a tutti coloro che desiderano capire qualcosa in più della poesia di Saba e necessariamente del carattere di Trieste. Da queste pagine si entra in punta di piedi in un regno meraviglioso che in maniera sintetica ma non incompleta riusciamo a contemplare nella sua interezza. Un bagaglio leggero e prezioso con cui avviarci alla conoscenza di un luogo che ha di sicuro ancora moltissimo da esprimere e che non mancherà di ammaliare altri artisti nelle future generazioni.
(Di Claudia Ciardi)
Umberto Saba,
Umberto Saba,
Trieste,
a cura di Davide Rossi,
Mimesis edizioni, 2013
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Trieste
Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
Da “Trieste e una donna”, 1910-12
Il garzone con la carriola
È bene ritrovare in noi gli amori
perduti, conciliare in noi l’offesa;
ma se la vita all'interno ti pesa
tu la porti al di fuori.
Spalanchi le finestre o scendi tu
tra la folla: vedrai che basta poco
a rallegrarti: un animale, un gioco
o, vestito di blu,
un garzone con una carriola,
che a gran voce si tien la strada aperta,
e se appena in discesa trova un’erta
non corre più, ma vola.
La gente che per via a quell’ora è tanta
non tace, dopo che indietro si tira.
Egli più grande fa il fracasso e l'ira,
più si dimena e canta.
Da “La serena disperazione”, 1915
La mia infanzia fu povera e beata
La mia infanzia fu povera e beata
di pochi amici, di qualche animale;
con una zia benefica ed amata
come la madre, e in cielo iddio immortale.
All’angelo custode era lasciata
sgombra, la notte, metà del guanciale;
ma più cara la sua forma ho sognata
dopo la prima dolcezza carnale.
Di risa irrefrenabili i compagni,
e a me di strano fervore argomento,
quando alla scuola i versi recitavo;
tra fischi, cori, animaleschi lagni,
ancor mi vedo in quella bolgia, e sento
solo un’intima voce dirmi bravo.
Dalla raccolta “Autobiografia”, 1924
Inverno
È notte, inverno rovinoso.
Un poco sollevi le tendine, e guardi.
Vibrano i tuoi capelli, selvaggi,
la gioia ti dilata improvvisa l’occhio nero;
che quello che hai veduto
– era un’immagine della fine del mondo –
ti conforta l'intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.
Da “Parole”, 1934
Neve
Neve che turbini in alto e avvolgi
le cose di un tacito manto.
Neve che cadi dall’alto e noi copri
coprici ancora, all’infinito: imbianca
la città con le case, con le chiese,
il porto con le navi,
le distese dei prati.....
Da “Parole”, 1934
Il golfo di Trieste da Barcola prima del temporale
Bibliography:
Gli spari di Sarajevo. L’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando mise in moto un processo atteso da tempo dagli apparati affaristici e militari.
In «Il Piccolo», pp. 30-31
130 anni. La nostra storia, la vostra storia dal 1881 a oggi. A cura di Fabio Amodeo, febbraio 2012
Gli italiani dell’imperatore di Alessandro Marzo Magno su «Focus» n. 97, novembre 2014, pp. 46-51.
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Sul tram per Opicina
(Foto di Claudia Ciardi ©)