Pinacoteca di Savona – Fotografia di Claudia Ciardi © 2018
Sopra
un tavolino davanti a un finestra aperta c’erano dei fogli sparsi, forse i suoi
ultimi appunti. Un gabbiano, quasi sfiorandole il capo, la desta da quella
strana condizione di dormiveglia. Ma era accaduto in sogno o nella realtà a cui
era stata appena restituita? Le tornò in mente qualcosa, un frammento di
ricordo, troppo labile per lasciarsi decifrare, uguale al volo che l’aveva sorpresa.
Fu come aprire un cassetto e sentirsi intorno l’aroma del legno mischiato a
chissà quale fragranza del tempo che voleva trascinare via. Poi
quell’impressione scomparve o solo perse d’importanza nel suo ragionare, mentre
erano altri brandelli d’incerte fantasie a pulsare e risalire dentro quell’insano
stato in cui si sentiva come venir meno. Ne aveva perfino paura ma provava
anche un’equivoca tenerezza man mano che era sommersa. Il suo sguardo si era richiuso
su alcune frasi di Hofmannsthal, la sua fiaba della donna senz’ombra, e da lì
facilmente si era lasciato andare. “Questo scrittore mi legge dentro”, lo pensò
per tutto il tempo che lo tenne fra le mani, “è come se agitasse uno specchio davanti a me”.
Una sensualità destinata a disarmare, a ricadere nelle forme di una
frastornante dolcezza in cui ci si smarrisce volentieri. Ebbe più volte la
netta sensazione che fosse una presenza in carne e ossa né sarebbe rimasta confinata
lì tra quelle pagine.
Quando
poco dopo seppe che era uscito del fumo da un tetto là vicino, restò incredula.
“È stato come toccarsi”, pensò ancora tra sé in uno stato di parziale
incoscienza. Gli venne spontaneo, quasi parlasse a qualcuno. Lo stesso episodio
si ripresentò poi nell’aspetto di una fiamma, imprevista si alzò fra le spire di
un altro sogno. Era un fuoco basso, controllabile, che non cresceva né
camminava. Restava lì in un angolo della stanza, ma proprio il suo scaturire improvviso
l’aveva spaventata. Lo percepiva come una personificazione. Avvertiva in ciò l’inquietudine
di un cercarsi che prorompeva per l’appunto in strane fantasie, che due
esistenze sconosciute sfioravano, nelle vaghe somiglianze di cose comuni che
sembravano a quel modo disporsi fra loro. Pensava a un’occasione in cui avrebbe
recitato volentieri un paio di strofe dell’Achmatova, perché in quell’anno le
forze del mondo erano esauste come in una poesia che ora insistentemente le
risuonava dentro. Ma sarebbe potuto succedere anche in modo diverso, anche
senza poesia. Già in quel muto richiamo dalla lontananza era un canto in cui germogliava
la comune radice di giorni prescelti.
Che quello che s’immagina sicuro possa divenire sommamente incerto fino a
rinnegarsi, che in cose che sembrano tranquille e sempre identiche a se stesse
nasca un imprevisto tanto da sovvertirle. Lo aveva sperimentato abbastanza
spesso nella sua vita. Il fatto che ora simili rovesciamenti la investissero
con frequenza sempre maggiore non la lasciava indifferente. Erano tempi così e
nel dissidio dei tempi si sollevavano onde d’indeterminatezza ma anche momenti di
assoluta concentrazione. In simili condizioni è difficile anche solo
riconoscersi una volta. Eppure accadeva e quando accadeva era tutta in se
stessa. Sentiva spalancarsi la vita, esattamente dove l’aveva attesa.
I gabbiani la sera risalgono il fiume, gridano sopra i cortili dei paesi dove
il sole è ormai tramontato, son distanti dal mare. Tante volte camminando
insieme per strada, per piazze e quartieri solitari si erano detti che era
strano, che quel sonno ininterrotto e forzato dei luoghi somigliava a certi
quadri, e de Chirico soprattutto aveva intuito ogni cosa. Molto di quello che
era cominciato anni addietro, ciò che credevano lontano, irreale era giunto infine
alle soglie della loro vita. Si erano illusi che non sarebbe capitato nulla, eppure
di recente sempre meno illusi, e ovunque i loro passi calpestavano perdite e
vuoto. Mentre s’interrogavano su cosa si stesse preparando, senza avvedersene
erano sempre più prigionieri. Per due anni le stagioni si erano schiuse su di loro,
prede in un’invisibile rete. Aspettavano senza confidare in nulla, scossi,
divelti, confusi, pure lentamente accoglievano in sé una consapevolezza che
prima non avevano.
Uno
di quei giorni una donna venne alla sua porta. Le annunciò la perdita del padre,
un uomo di quasi cent’anni che fino all’ultimo si era conservato lucido,
elegante, sereno, per nulla toccato dalle paure dell’epidemia. Diverse volte dallo
studio aveva posato gli occhi su quell’uomo. Si era costruito la sua casa, era
ben piantato in tutto, negli affetti, nelle sue convinzioni, una bonaria
fierezza gli scorreva nelle vene; vederlo o immaginarlo in quella serenità guadagnata
a testa alta, le dava calma. Pensò, guarda com’è estrema questa donna nel suo
dolore, vibra in ogni parte del corpo. Il padre le ha lasciato questo, essere
la creatura più vivida e sincera anche nel momento più cupo del distacco. Ed è
bella così, proprio perché è tutta di quel dolore e non lo nasconde. L’estrema verità
che affiora in lei l’hai qui davanti, eppure non la fa soccombere, la cinge
anzi di un’incrollabile compostezza. Guardala, osserva bene il dono che ti fa mostrando
intera a te soltanto la sua sofferenza. È nel mezzo di una tempesta e ha scelto
te per rivelarla.
Una
tale intima condivisione della scomparsa l’aveva avuta di rado. E ultimamente
più che altrove visitando il vecchio cimitero di Sanremo. Dietro una spiaggia
da cui arrivavano le calde voci della vita, decine di sepolture stavano quasi
dimenticate. I rampicanti avevano abbracciato le lapidi, pietre mutile adagiate
sul terreno dov’era a malapena leggibile un nome o da cui un ritratto sembrava
invocare la sosta nel passante. “Quanta promiscuità di tombe cattoliche,
ebraiche, ortodosse. Questi nomi d’inglesi, tedeschi, russi rimandano a una
vita piena, anche in un simile abbandono si fa avanti o forse è proprio
perché giace in tanta trascuratezza che si avverte più vicina”, lo disse piano
fra sé, come una preghiera, mentre si aggirava fra i viali. Nella selva di
croci, incisioni, fiori c’era un sepolcro piuttosto grande. Al centro della
bianca pietra una fotografia guardava il visitatore alla sua stessa altezza. Era
il ritratto di una giovane donna, i neri capelli ondulati, gli occhi neri
luminosi, se ne stava lì di tre quarti un po’ trasognata, bellissima. Uno
scatto di una modernità imbarazzante, “immagine di un attimo fa”, pensò, ma era
quasi passato un secolo da quella morte e ancor più da quell’istantanea di
giovinezza. Eppure a chi osservava il disco rotondo che porgeva quel volto
sembrava di cogliere un tempo fermo, e voleva solo restare nell’incantesimo. Le
parve di intuire la quotidianità di quell’esistenza, il suo essere fisico e
spirituale, il suo esser lì un istante in quella fotografia e fuori da lì, il suo
essere sempre stata, e attraverso lei anche tutto il luogo entrò infine in
risonanza.
Stanotte, nell’ora del piacere, una libellula è scesa dentro la lucerna. Si è lasciata trovare al mattino nel piatto dove a lungo la fiamma è arsa, un fossile
imprigionato nella cera. Avrà lottato per salvarsi? L’idea di questo fragile
essere sopraffatto senza un lamento, senza uno spasmo, metteva malinconia. Giù
in strada le passa davanti un’anziana. Ha lo stesso odore di basilico attaccato
ai vestiti che aveva sua nonna quando usciva dall’orto, è la prima cosa che le fa
venire in mente. L’orizzonte è limpido e c’è un’aria tesa che scivola giù dalla
collina. Sembra di stare davanti ai cancelli del cielo. E le chiome delle palme
si scuotono come un saluto di naufraghi. Immaginare di far naufragio in questa
luce, andare incontro a qualcuno così in una chiara giornata di sole e di vento,
da qualche parte su un lastricato deserto, recitare dei versi o cantare in uno
dei nostri dialetti. Quando un nome resta tra le dita, capita di sentire a
momenti il suo esserci come acqua come spettro nelle vie del mondo, nel suo
inesorabile sussulto, in ogni filo d’erba. Potrebbe quel nome farsi largo per
poco, bagliore o riflesso, dal nulla apparire una sera quando tutte le piante
tremano nei giardini. E vagare così, senza cenno, senza volto, respirare l’ombra,
il silenzio, ricordare anche l’erba che calpesta, e a questo pensiero tremare, poi
farsi radice e foglia.
(Di Claudia Ciardi)