30 marzo 2019

Ricostruzioni


Si è da poco conclusa alla Triennale di Milano una rassegna importante dedicata ad approfondire un tema oggetto di molte attenzioni, quello dei disastri provocati da eventi naturali (alluvioni, terremoti, incendi) o dalla guerra. Dinamiche territoriali esplorate percorrendo il doppio binario della progettualità, di un’architettura che sappia recuperare e ripristinare i codici identitari dei luoghi colpiti, e degli orientamenti sociali che simili contesti esigono. La necessaria riappropriazione di uno spazio che non è solo fisicamente dato ma ancor più definito dalla rete relazionale che nel tempo lì si è espressa e radicata, determina lunghe, non di rado complesse, vicende contrattuali per un possibile ripensamento del tornare a vivere laddove la quotidianità ha subito una brusca interruzione.
Riflettendo sulla natura delle rovine e quella delle macerie, dalle più poetiche e soffuse letture piranesiane agli squarci aperti dalle violenze novecentesche, l’itinerario della mostra si è proposto d’indagare come queste definizioni siano mutate durante gli ultimi tre secoli, fino a sovrapporsi nel brutale sterminio delle recenti escalation mediorientali. La Siria, dove Palmira diviene simbolo di questa assurda furia devastatrice che ha sabotato il racconto dell’antico attraverso i resti greci e romani, trasformando le passate rovine in un campo di macerie, è al centro di tale scenario sovvertito, atomizzato, inedito. Salta la griglia concettuale di Marc Augé che individua nelle rovine la testimonianza di un tempo distante, pacificato, nel quale il rumore della storia si percepisce come lontano, privo della forza sconvolgente dei fatti nel loro accadere. Qui le rovine finiscono fagocitate dalla guerra perenne, alimentando nuove macerie. Queste “Ricostruzioni” allestite alla Triennale hanno rappresentato dunque un’indagine ad ampio raggio che, soffermandosi sui drammatici eventi del Novecento, si è concentrata soprattutto sulla sequenza sismica che ha stremato il centro-sud della penisola, dall’Abruzzo del 2009 fino alle Marche del 2016. Crisi, sradicamenti, memorie, che sono state oggetto anche delle giornate di Paraloup nel settembre 2017, sui temi dell’abbandono e di un ritorno possibile ai luoghi della montagna colpiti dal fenomeno dell’emigrazione di massa. E poi discussi ancora al grande convegno internazionale Un paese ci vuole, al Pau di Reggio Calabria, nel novembre 2018. Letture, introspezioni di ambienti, collettività, persone che hanno ispirato pure il lavoro documentaristico di Cecilia Fasciani, Io prometto, opera che ha inteso dar voce a chi non si rassegna e, nelle forme di una caparbia resilienza, che è un atto d’amore profondo per le proprie origini e il territorio, prova a restare. Son solo tre di tante iniziative – mostre fotografiche, dibattiti, incontri con i comitati del cosiddetto cratere sismico – che di recente hanno acceso l’attenzione su un argomento di assoluto rilievo, non solo perché coinvolge un’area molto estesa dell’Italia, ma in quanto incide in profondità nel confronto su nuove forme di sviluppo sostenibile, sulle strategie da attuare per la ripresa delle economie locali, e in generale sul configurarsi di una ricostruzione che ha bisogno di essere negoziata in ogni sua fase, di essere condivisa e di conservare il legame con ciò che significava vivere certi spazi prima degli eventi che hanno costretto la popolazione ad allontanarsi.
Conflitti, catastrofi di ieri e di oggi per medesime o simili umane aspettative. Dal sisma di Messina alla Grande Guerra, due circostanze ravvicinate che segnano l’inizio del secolo e mettono in campo le prime strategie di recupero dei luoghi colpiti. Tecniche e indirizzi che saranno messi alla prova su scala più ampia e capillare dopo la seconda guerra mondiale. Impressionanti i pannelli montati nelle sale del Palazzo dell’Arte con l’elenco dei danni al patrimonio culturale italiano, le riproduzioni dei monumenti colpiti, le cifre della distruzione, stime rese note a ridosso dello scempio già nel censimento alleato del Works of Art in Italy. Di notevole impatto anche il resoconto delle rovine tedesche quantificate in metri cubi; sono i numeri da capogiro determinati dalla strategia dell’area bombing, i bombardamenti a tappeto dell’aviazione inglese e statunitense, su cui lo scrittore W. G. Sebald ha scritto un saggio lucido e molto coinvolgente. 
Nell’annientamento di vite e cose, il dopoguerra ha anche rappresentato un nuovo inizio, alimentando una discussione molto articolata sul come ricostruire, confluita in un’ampia gamma di riviste che hanno trovato numerosi canali di diffusione fin dai mesi immediatamente successivi alla liberazione. Non solo la cura per gli aspetti materiali ma anche la valorizzazione degli elementi culturali e identitari. Le alluvioni del Polesine, del Vajont, le devastazioni del Belice, del Friuli, dell’Irpinia, dell’Abruzzo sono stati altrettanti banchi di prova per la messa a punto di modelli di recupero più o meno funzionali. Dalla toccante foto del “cimitero” della cattedrale di Venzone, ricostruita pietra su pietra, alle criticità delle new town abruzzesi. Se ad oggi il centro dell’Aquila è riconosciuto come il più grande intervento di restauro al mondo, il progetto dei villaggi provvisori attorno alla città – così come dopo in Emilia la ricostruzione di edifici rurali in assenza di linee guida o di una contestuale e acquisita maniera d’intervento – ha creato forme di periferizzazione stabili del territorio che ne condizioneranno inevitabilmente gli sviluppi futuri.
Un’intera sezione è stata dedicata ai materiali a stampa – opuscoli, fogli tradotti in inglese, cataloghi, rassegne fotografiche – di cui stupisce la quantità e l’originalità prodotti negli anni dalle e per le zone terremotate, con l’intento di registrare altri movimenti tellurici in quei luoghi. I moti delle aggregazioni umane, delle difficoltà ma pure del riscatto, di un prima e di un dopo che vengono necessariamente a fronteggiarsi in ogni esistenza. Di estrema intensità il lavoro fotografico coordinato da Spazio Lavìl, associazione culturale di Bologna, a firma di Fabio Mantovani e Giovanni Zaffagnini che hanno documentato l’abbandono di una casa del maceratese, abitata per oltre un secolo e rimasta vuota di colpo. Poesia del silenzio, racconto di una perdita “dal di dentro”, immagini in penombra evocatrici della vita che è stata. Anche così si riesce a dire qualcosa, anche così, posando  lo sguardo sulle tracce di un’intimità dissolta, è possibile ragionare sul perché, il dove e come ricostruire.      

(Di Claudia Ciardi)


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Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra.










Venzone - La cattedrale









Le Marche - Mantovani/Zaffagnini



Le Marche - Mantovani/Zaffagnini


14 marzo 2019

Romanticismo alle Gallerie d'Italia


Si avvia alla chiusura la grande mostra sul romanticismo allestita nelle sale delle Gallerie d’Italia a cura di Fernando Mazzocca. Duecento opere, delle quali decine esposte qui per la prima volta, ci raccontano attraverso la pittura di paesaggio e la ritrattistica una stagione culturale dai connotati inquieti e oggetto finora di un interesse piuttosto superficiale sul versante italiano. 
Milano ripercorre i passaggi storici e civili che dal 1815 all’unità d’Italia stimolarono il suo spirito creativo, rendendola a tutti gli effetti una capitale moderna in grado di fare scuola nei diversi campi del sapere. Una sorta di zona franca e di comune dell’arte dove le contrapposizioni politiche tra tedeschi e italiani restavano fuori dalle mura delle accademie. Tratto che si ravvisa anche nella seconda metà dell’Ottocento quando gli italiani non si facevano problemi a frequentare le scuole austriache o tedesche di pittura né gli artisti di quei paesi disdegnavano di soggiornare in Italia. Emblematico di questo ininterrotto travaso spirituale, dopo la tempesta romantica, può dirsi il simbolismo che sovrappose i variegati spunti di matrice francese dai Nabis a Gauguin alle personali interpretazioni di ascendenza italiana e germanica, una contaminazione indirizzata alla ricerca di linguaggi che traghettassero l’arte al di là dell’impressionismo.
In un tale stratificarsi di culture e ispirazioni Milano si è posta indiscutibilmente come polo attrattivo, rinnovando nei decenni la propria offerta e la capacità di riunire attorno a sé gli ingegni più promettenti che hanno lasciato una traccia durevole della propria attività. Del romanticismo italiano poco si è parlato in ambito specialistico e in generale nell’analisi delle nostre tendenze artistiche d’inizio Ottocento, ed è mancata ad oggi una sua rappresentazione pubblica, lacuna che questa mostra ha voluto colmare. Connotato come un fenomeno del nord Europa, si è teso a minimizzare il contributo del nostro paese che invece scopriamo vitale e trasversale, in senso geografico, perché ha coinvolto artisti di provenienze regionali diverse, tutti accomunati da un’idea profondamente emotiva attraverso cui leggere la natura, i caratteri umani e perfino la quotidianità urbana. Le finestre degli studi d’artista aperte su strade e piazze si trasformano in occhi che non solo ci restituiscono un’istantanea di vita appartenente a un luogo, ma perforano la realtà, scomponendola in geometrie sentimentali, vedute e ritratti scaturiti dal caleidoscopio dell’anima.
La rassegna prende non a caso le mosse da Giacomo Leopardi, che ha saputo rendere in poesia il più bel panorama dell’infinito, sonetto con cui s’inaugura una sensibilità nuova affidata ai versi e di cui ricorrono quest’anno i duecento anni. Il più romantico dei nostri poeti, seppure siano da includere nella temperie le pennellate foscoliane di Alla sera e l’intimismo gotico, sulla scia dei Canti di Ossian del Cesarotti, germogliato nei Sepolcri, non poteva che inaugurare il percorso milanese accanto a una grande tela di Caspar David Friedrich, Luna nascente sul mare (1821), in prestito dall’Ermitage di San Pietroburgo, e due suoi disegni di stupefacente modernità a grafite e seppia. Il romanticismo italiano trova inoltre i suoi iniziatori nell’opera dei grandi maestri dei paesaggi piemontesi, De Gubernatis, Bagetti, entrambi topografi per l’esercito sabaudo, e poi ancora Reviglio, D’Azeglio migrati dalla Gam di Torino nelle sale milanesi. Il loro sguardo affascinato sulle Alpi, gli acquerelli dedicati a ignote contrade silvane, talvolta d’invenzione, architetture che sembrano il frutto di un incantesimo come la Sacra di San Michele sospesa tra cielo e terra in un vortice immaginifico. E l’inevitabile accostamento con Turner, che alle comodità di un lungo soggiorno a Parigi preferì i contrafforti alpini, catturando l’eterno della luce sulle vette. La sua resa dell’esercito di Annibale perso nella nebulosa di neve e vento richiama l’invasione napoleonica ma più che descrivere le contingenze della storia aspira a immortalare il senso di inadeguatezza se non di disagio dell’essere umano a confronto con gli elementi naturali.
Una cospicua sezione è quindi dedicata alle campagne lombarde, laziali e a tutta la scuola del vedutismo meridionale. Anche qui non senza incursioni e saggi dei medesimi temi per mano dei maestri europei; su tutti La cascata delle Marmore di Corot con le sue vivide campiture di colore che trasmettono frontalmente all’osservatore il moto vorticoso dell’acqua e la vertigine del salto.
Spettacolare proprio lo studio delle rifrazioni della luce sul mare o i lungofiumi o negli specchi lagunari soprattutto in condizioni atmosferiche difficili  – Venezia è un centro elettivo per cimentarsi, la pietra scolpita dall’acqua e la laguna come spazio aperto e selvaggio in contrasto ma anche spettacolare armonia con le architetture della città. Qui è nato il capolavoro di Ippolito Caffi, mai esposto prima di questa occasione, che ha letteralmente ipnotizzato i visitatori, Eclisse di sole alle Fondamenta Nuove, 1842.
C’è qualcosa nella devozione di tali artisti verso i soggetti da loro prescelti che sa di fatale trascendenza. Se ci si sofferma sulla vicenda biografica dello stesso Caffi, morto nella battaglia di Lissa per documentare il mare sconvolto dalla guerra, o di Giovanni Carnovali, detto il Piccio, morto annegato nel Po mentre cercava misteriosi scorci da dipingere, si resta attoniti. Di rimando ci sovviene il destino che ghermì Shelley sorpreso da un fortunale sulla sua piccola imbarcazione a largo della Versilia. Artisti morti per la volontà d’immergersi completamente nella bellezza di una natura sconvolta, per quella tensione simpatetica che li ha gettati tra le braccia del sublime fino al più tragico epilogo. Di tutte le riscoperte innescate dal romanticismo, dall’omaggio alle rovine gotiche su cui s’innesta quel mirabolante gioco di mimesi e ripresa che è il neogotico, dal ritratto di persone e cose non più celebrativo ma introspettivo, al canto del paesaggio nei suoi accenti contesi fra umana operosità e assalti di natura, è forse lo studio dei cieli, l’osservazione di quei repentini cambiamenti di luce, colore e forma delle nubi, ad influenzare in maggior misura l’immaginario d’inizio Ottocento.
Questo evento milanese ci riavvicina a una sensibilità troppo spesso liquidata come accessoria, se non avulsa dal tessuto culturale nostrano, mentre qui se ne riscopre l’originalità autoctona, la forza commovente e l’indiscussa eredità che è andata riverberandosi in tante espressioni novecentesche.

(Di Claudia Ciardi)


* Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra. 



 Caspar David Friedrich, Finestra dello studio a Dresda, grafite e seppia, 1805-1806



Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con nubi.



Il gotico ad Altacomba - Sepolcri dei Savoia



Altacomba - dettaglio



Angelo Inganni, Veduta sulla Piazza del Duomo, 1838



Ippolito Caffi, Eclisse di sole alle Fondamenta Nuove, 1842







4 marzo 2019

La danza delle montagne


Quando mi capita di leggere su una carta o in uno scritto i nomi di località e borgate dei monti di casa, scandendo quelle sillabe mentalmente e recitandole in silenzio quasi fossero una strofa imparata a memoria, non posso fare a meno di pensare ai loro rimandi letterari. Nomi come Vicopisano, Le Mandrie, Piticco, Romitorio, Novaia, Campo dei Lupi, Noce, strada dei cipressi e podere Purgatorio, Lugnano, zone Cocomero e Batillo, Caprona, Castelmaggiore, Tre Colli comportano indiscutibilmente un’evocazione poetica. Scendendo nella golena dell’Arno, all’altezza di San Sisto e poi ancora verso Badia vecchia, cattedrale primitiva scagliata come nudo sasso tra l’argine e i campi, s’incontra un paesaggio dimenticato, simile a certi sogni che vorrebbero indicarci qualcosa ma svaniscono prima di essersi rivelati del tutto. E la sera, quei rintocchi lontani che si alzano lungo i sentieri, frugando nella chioma dei cipressi che da cento o più anni fanno la guardia alle sepolture, quei suoni che visitano le poche case di abitati dai nomi strani, perfino più strani dei paesi sul monte (Piastroni, Montione, Pettori, Zambra), la voce lenta che viene da quelle pietre così capaci di un’armonia antica e dolce e piena di premura recano intatta a chi lo conosce l’immagine del luogo e a chi non lo conosce una visione tanto intensa da fargli pensare di esservi già stato.

I miei scatti, le mie camminate si lasciano orientare dalle Alpi Apuane che abbracciano la piana pisana nelle aree golenali. A destra i Monti Pisani, arrotondati e coperti di un verde cupo, quasi blu, che contende la scena all’azzurro violaceo delle Alpi. Quel verde che in primavera diviene luminoso, a tratti perfino squillante, quando i castagni mettono le foglie nuove. Qui l’intera corona dei monti sembra toccarsi, un nastro di cime e sontuose scale cromatiche che si snoda per tutte le campagne fino in Versilia. Qui il mio sguardo posa e riposa e tutto dentro me entra in risonanza.

(Di Claudia Ciardi)


*In queste fragili testimonianze affidate ai miei appunti, ai segni di qualche matita il pensiero va alla montagna ferita nel disastroso incendio di settembre e, purtroppo, in un altrettanto sciagurato rogo invernale appiccato accidentalmente da un vecchio contadino che si è messo a bruciare sterpaglie in un pomeriggio di vento molto forte. Fa male a guardarla la montagna, così, orfana del suo bosco, spogliata oltre ogni limite, se limite c'è al dolo e all'incuria.



La danza delle montagne (I) - Lapis e tutta mina - febbraio 2019



La danza delle montagne (II) - febbraio 2019

  

La Pania innevata dalla golena dell'Arno - Uno schizzo - febbraio 2019



La Pania innevata dalla golena dell'Arno - Lapis e sanguigne - febbraio 2019



La Pania innevata dalla golena dell'Arno - febbraio 2019



Le Alpi Apuane da Carrara - 19 febbraio 2019



La golena - Apuane e Monti Pisani - luglio 2018



Le Alpi Apuane dalla golena - luglio 2018



Le Alpi Apuane da Carrara - 19 febbraio 2019


*Foto di Claudia Ciardi ©

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