Parlare della situazione in Ucraina non è semplice e neppure scontato. I media occidentali se ne occupano ormai a singhiozzo. Dopo gli accordi di Minsk è sceso un silenzio piuttosto surreale. Poi riflettori nuovamente accesi ai primi di maggio di quest’anno in seguito ai violenti scontri a Marynka (Ucraina orientale) che hanno fatto parlare gli analisti dell’inizio di un’ “offensiva d’estate” in Ucraina. E quando il clima sembra surriscaldarsi, la macchina della diplomazia europea e americana torna puntuale a spolverare lo strumento delle sanzioni. Putin ha recentemente risposto con una blacklist di ottantanove indesiderati, cioè persone cui per diverse ragioni potrebbe essere negato il visto di ingresso in Russia. A Elmau, sulle Alpi bavaresi in Germania, lo scorso 7/8 giugno (assente la Russia esclusa dal G8 dopo l’annessione della Crimea) Obama si è lasciato andare a dichiarazioni ripetitive e nella sostanza deludenti: le sanzioni avrebbero sortito l’effetto sperato sull’economia russa – entrata in difficoltà, secondo il presidente americano, in conseguenza della loro applicazione – e perciò sarebbe bene tenersi pronti, se necessario, a incrementarle.
Gelo da parte di non pochi osservatori e qualche imbarazzo pure nel governo tedesco, fino ad allora alfiere convinto delle posizioni statunitensi. Tra i commenti a caldo che mi è capitato di leggere, ve ne era uno molto significativo che più o meno diceva così: Obama senza freni al G7, dall’altra parte la Russia, in mezzo noi.
Giusto, ma direi che in mezzo, prima di tutto, ci sono gli ucraini di cui non si parla mai o quasi. Non si parla delle condizioni di questo popolo, ed è difficile imbattersi in una fotografia nitida, scattata senza faziosità, in grado di raccontarci cosa sia l’Ucraina ora. Più facile leggere articoli sulla futura terza guerra mondiale – Kiev contenderebbe a Sarajevo il primato di nuova polveriera d’Europa – o sui ritorni di fiamma tra i nostalgici della guerra fredda.
Majdan è stata sì il centro di una contestazione guidata da certa intellighenzia filooccidentale che vorrebbe portare l’Ucraina sotto l’egida di Bruxelles ma non si è detto abbastanza che conteneva anche un moto di protesta assai più turbolento, che sfidava la corruzione del governo in carica, denunciando le drammatiche condizioni economiche del paese. Questa era (è) la pancia della piazza. Di anno in anno l’economia ucraina peggiora. Il Fondo Monetario Internazionale ha chiesto di riformare il sistema paese ma le criticità, proprio in quanto sommate a uno scenario di guerra, rischiano di permanere a lungo e certe esortazioni, per quanto lecite, sono destinate a suonare assai ridicole.
Ne discutiamo qui col coordinatore di «Rassegna est», giornalista professionista, collaboratore di «Il Foglio» e autore per Castelvecchi, Matteo Tacconi, classe ’78, che risponde a una serie di domande il cui scopo è riassumere alcune vicende nodali che hanno scosso l’Ucraina nel biennio 2014-2015. Si tratta anche di ristabilire un ponte con i due contributi ospitati da questo blog nel maggio 2014, incentrati sul tema dell’inquieta frontiera orientale, peraltro riportando anche il punto di vista di un narratore galiziano d’eccezione, Joseph Roth.
Da tempo il sito «Rassegna est» dedica spazio a questi temi, mettendo al centro il quadro economico e politico ucraino e quindi europeo, che certo risente di quel che sta accadendo. Diversamente qualsiasi discussione su tale scenario non avrebbe senso. Trascurare le reali problematiche di questo territorio esteso quanto complesso lo riduce a uno strano oggetto del contendere tra poteri forti, dove fascismi e capitalismi di vecchia e nuova fabbrica intrecciano una relazione pericolosa, senza curarsi dell’impatto sulla vita della gente – e ciò per i suoi effetti negativi, lo ripetiamo, non riguarda solo gli ucraini, ma anche russi e europei. Ecco qui un estratto di uno degli ultimi pezzi pubblicati sul sito da Matteo Tacconi e Stefano Grazioli:
«Due milioni di posti di lavoro e cento miliardi in valore aggiunto nell’export di beni e servizi. Nel peggiore dei casi sarebbe questo il costo economico e sociale che l’Europa pagherebbe in ragione delle sanzioni comminate alla Russia, che a sua volta ha eretto un muro commerciale nei confronti dell’agroalimentare europeo. I dati sono quelli del Wifo, l’Istituto austriaco per la ricerca economica, con sede a Vienna. I suoi ricercatori si sono messi al lavoro per conto del Lena, consorzio di testate giornalistiche europee, di cui fa parte anche «Repubblica». Ma quando è lontano questo scenario apocalittico? Purtroppo non molto. Il Wifo sostiene che avanti di questo passo la più amara delle previsioni potrebbe diventare realtà. I paesi Ue che ne risulterebbero più penalizzati sono la Germania e l’Italia. Berlino potrebbe perdere un punto di Pil, l’Italia lo 0.9%».
L’invito è a leggere questo e gli altri contributi, che con chiarezza ci guidano in una vicenda all’interno della quale non è facile orientarsi e i cui numerosi punti insoluti rischiano di creare una massa critica con pesanti ricadute per tutti.
L’Ucraina, parola contenente la radice slava “kraj” (limite, bordo), ha inscritto nel suo nome un destino che la colloca “al margine”, “sul confine”. Ciò non sarebbe di per sé un fatto negativo. Intanto perché la natura di confinanti è un tratto diffuso nelle comunità umane – ognuno è confinante di qualcuno. Poi perché lo stare sul confine non dovrebbe necessariamente comportare un’equazione con la marginalità. Escludere, allontanare se non bandire da un contesto, da un orizzonte culturale ha assai poco a che fare con la reale posizione occupata da un soggetto, da una comunità, da uno spazio geografico. Si tratta piuttosto di un’operazione “ex post”, dovuta a fattori che mutano col mutare degli eventi storici e dunque delle differenti attitudini umane che ad essi si accompagnano. La natura di ponte, per così dire, tra Europa e Asia che l’Ucraina reca in sé, dovrebbe essere una risorsa sia per gli occidentali sia per i russi. Oggi invece tutto questo ci spaventa, lo guardiamo come un focolaio destinato a destabilizzarci, c’è chi addirittura parla di nuova Jugoslavia. Come riportare la situazione di questa affascinante e turbolenta frontiera su binari che permettano una seria discussione politica con cui affrontare, e possibilmente risolvere, i tanti problemi che affliggono il paese, mettendo al centro finalmente il popolo ucraino di cui poco o nulla si parla?
Ormai lo spazio negoziale è sempre più stretto. A livello ucraino il governo di Kiev non vuole decentralizzare più di tanto la gestione amministrativa, perché lo considera un cedimento ai filorussi. Che da parte loro pretendono un vero e proprio autogoverno, quasi uno Stato a sé. Un punto d’incontro non è facile da trovare. Le strozzature sono evidenti anche sul piano internazionale, che non è certo slegato da quello ucraino. L’Occidente ha confermato le sanzioni alla Russia per i prossimi sei mesi. Proviamo a metterci nei panni di Obama, Merkel e altri. Foste in loro fareste cadere le sanzioni? Per fare cosa? Per ridare linfa all’export ma confermare lo scippo russo dell'Ucraina? Ora proviamo a entrare nella testa di Putin. Ha ottenuto quanto voleva ottenere: la Crimea a Mosca, il Donbass ingovernabile, l’Ucraina dilaniata e sull’orlo del default economico. Il Cremlino è parte del problema e della soluzione. Situazione perfetta. Per quali motivi dovrebbe rinunciare a questo privilegio? Sacrificare due o tre punti di Pil val bene il gioco che Putin sta conducendo. Ecco, davanti a tutto questo lo spazio negoziale si stringe.
Parliamo di un paese molto esteso, secondo per superficie nel continente europeo con i suoi 600.000 km², abitato da circa 50 milioni di persone. Al suo interno ha una vasta varietà di gruppi etnici il maggiore dei quali è quello ucraino cui fa seguito la cospicua minoranza russa, che non coincide però con la più ampia popolazione russofona. Vi sono poi etnie cosiddette minoritarie, che però nell’insieme costituiscono un panorama molto ampio e vivace: bielorussi, rumeni e moldavi, tatari di Crimea, tedeschi, ungheresi, polacchi, ebrei, armeni, greci, rom, caucasici, turchi, azeri, georgiani.
Insomma, un quadro assai composito che, se da una parte moltiplica a dismisura il fascino culturale dell’Ucraina, dall’altra complica non poco le cose sul piano politico, data la moltitudine di interlocutori rappresentativa di altrettante anime del territorio. Dire, ad esempio, che ad ovest del Dnepr c’è un’Ucraina più europea rischia di essere una semplificazione, perché sempre si faranno i conti con la straordinaria eterogeneità antropologica e storica di quest’area: Galizia, Transcarpazia, Crimea, Bucovina sono realtà non assimilabili e con tratti distintivi accentuati.
Un mediatore, un cooperante, un diplomatico hanno davanti a sé una doppia sfida. Evitare il radicalizzarsi della posizione russa versus quella del continente europeo, che spazzerebbe via tutto il resto e farebbe violenza ai tanti volti del paese, ma badare anche a non costituire un incentivo, per quanto involontario, alla disgregazione. È un’analisi condivisibile? E nel caso, dove e come trovare le risorse per questo collante politico?
L’Ucraina paga la mancata costruzione di una statualità condivisa e di un idem sentire del paese. Non è certo una missione facile, tenuto conto della complessa stratificazione culturale. Ma il punto è proprio questo. Questa crisi ha dimostrato che una statualità pallida può creare, anche in assenza di precedenti tentazioni separatiste o radicaliste (queste sono invenzioni, manipolazioni e conseguenze del conflitto in corso), voragini enormi. La soluzione, visto che l'origine del caos è anche uno Stato fragile, sta proprio nella costruzione di uno Stato nuovo, diverso, serio. Ci sarà molto da lavorare.
Mi collego alla domanda precedente, citando una riflessione di Lucio Caracciolo apparsa su «La Repubblica» del 21 febbraio 2014: «Lo sfaldamento della Repubblica ucraina difficilmente avverrebbe lungo una nitida linea est-ovest, produrrebbe semmai una pletora di Ucraine maggiori e minori, divise da confini porosi». Dico subito che non condivido gli esiti di questo pezzo di Caracciolo che si augurava allora l’intervento deciso e decisivo di Obama – dopo aver sentito le dichiarazioni del presidente americano all’ultimo G7 rabbrividisco, anche se col senno di poi è facile parlare. Parto dal presupposto che l’Europa bisogna che impari a togliersi da sola le castagne dal fuoco, specialmente se a bruciare è il camino di casa. E però la prospettiva evocata da Caracciolo mi pare credibile. Difficile immaginare una linea di frattura netta est-ovest ma piuttosto una frantumazione con esiti imprevedibili. Qual è il vostro punto di vista sia riguardo l’intervento americano sia sull’ipotesi di uno sfaldamento dell’Ucraina?
Si leggono ultimamente analisi da risiko. Un pezzo d’Ucraina alla Russia, un altro alla Polonia, una strisciolina sottile sottile di terra anche all’Ungheria. Lasciano il tempo che trovano. Quanto alla linea di frattura est/ovest, su questo in effetti non ci sono grossi dubbi. Parliamo di linea sfumata, non chiara, che scorre gradualmente. Ci sono “terre di mezzo” che rendono impossibile la spaccatura netta del paese.
E veniamo alla questione principale attorno a cui ruota la galassia Ucraina. L’economia del paese va letteralmente a rotoli. Il Fondo Monetario esige riforme in cambio di aiuti, un ritornello ormai noto – lo sentiamo ogni giorno nelle trattative sul debito greco. Tuttavia in un paese che in parte è coinvolto in un conflitto, suona come un’esortazione ridicola - del resto lo è pure per la Grecia, figuriamoci in un contesto belligerante.
Leggendovi, avete dedicato molti articoli all’economia ucraina, richiamando l’attenzione su dati affatto secondari e che invece, nelle analisi che circolano, tendono a passare inosservati, se non a essere taciuti.
Nell’ipotesi che si trovi una soluzione per riassorbire del tutto i sintomi della guerra, cosa che non può in ogni caso prescindere dall’andamento del mercato interno e dai dati allarmanti sulla disoccupazione, quali rischi corre l’Ucraina dal punto di vista
economico?
Crediamo che l’economia sia una cartina di tornasole formidabile di questo paese e di questo conflitto. Le logiche oligarchiche, il rapporto tra denaro e consenso, l'energia russa, l’impegno irrituale del Fondo Monetario Internazionale (ha prestato soldi a una nazione in guerra, mai visto): di cose da raccontare ce ne sono, eccome, sul fronte dell'economia. Chiusa questa premessa, rispondo alla domanda. L’Ucraina corre rischi enormi, primo tra tutti l’insostenibilità del debito (i creditori pretendono di essere pagati, Kiev non ha soldi) e il conseguente pericolo che il Fondo Monetario, se non si trovasse un accordo sul debito tra governo e creditori, potrebbe chiudere i rubinetti. Questa è l’emergenza di queste settimane.
Poco più di un anno fa, alla fine del febbraio 2014, a Kiev si consumò un bagno di sangue. Per strangolare la protesta di piazza Majdan, uno Yanukovich sempre più isolato, lasciò mano libera ai cecchini. Fu il punto di non ritorno. Scaricato dai suoi e dai russi - clamorose le dimissioni del sindaco di Kiev e la fuga del principale finanziatore del potere presidenziale, l’oligarca russofono Akhmetov, noto al mondo come patron dello Shaktar calcio di Donetsk, che riparò prontamente a Londra in quei giorni di orrore e vergogna – dopo aver precipitato il paese nel caos, il suo futuro di statista era ormai compromesso.
Allora si parlò di guerra civile, oggi si prospetta uno scontro fra Nato e Federazione Russa, senza che peraltro l’Ucraina abbia risolto le sue clamorose lacerazioni interne. Come si è giunti a questo sviluppo e cosa rischia l’Europa?
Questo scontro tra Nato e Russia lo vedo molto improbabile. Non è nell'interesse della prima, né della seconda. Realisticamente parlando la Nato non pensa affatto di allargarsi all’Ucraina (perché offrire un posto a un paese senza esercito, senza economia e senza dei pezzi di terra?). Quanto alla Russia: pensiamo davvero che possa permettersi uno scontro con la forza militare più potente al mondo? Non scherziamo. Una cosa è tuttavia chiara. La crisi ucraina ha smontanto pezzo dopo pezzo il dialogo tra Russia e Occidente, dimostrando quanto questo stesso dialogo, questo presunto matrimonio su cui tanta enfasi s’è fatta in questi anni, fosse nelle basi molto debole. Si può fare un matrimonio solo sulla base di scambi commerciali, a “loro” la nostra tecnologia e a “noi” la loro energia, senza creare uno spazio comune che tenga conto di diritti, giustizia, governance?
(Intervista di Claudia Ciardi)