26 ottobre 2018

Cecilia Fasciani - Io prometto



Una produzione indipendente che racconta uno spaccato di vita quotidiana interrotta nelle zone del terremoto, dall’Aquila al cosiddetto cratere sismico di Lazio e Marche. 
Quattro donne si fanno voci narranti e interpreti del dramma che ha mutato il corso delle loro esistenze. Perché sopravvivere al terremoto significa prendere atto di quel mutamento, capire che ciò che si farà dopo verrà inevitabilmente condizionato dal bivio che le circostanze ci hanno messo davanti. È un messaggio che accomuna Antonietta Centofanti, la zia di Davide, uno dei ragazzi portati via dal crollo della casa dello studente all’Aquila, su cui è ancora in corso il processo civile, e Valentina Valleriani, altra donna battagliera del capoluogo abruzzese, che da anni lotta insieme all’associazione donne “terre-mutate”. E poi ancora, Patrizia Vita, l’“ortigiana” di Ussita, e Assunta Perilli, tessitrice a Campotosto. Donne le cui attività erano, per scelta, profondamente radicate nel territorio e nella storia delle loro comunità. Patrizia, che dava ospitalità a decine di visitatori, appassionati di sentieristica in montagna, ispirati da un viaggiare lento e a misura d’uomo, e un orto davanti alle finestre della sua casa coltivato con la tenace devozione di chi sa che solo nella terra si rivelano le nostre radici. Assunta invece aveva riscoperto all’inizio del duemila il telaio di sua nonna, già morta, e da allora, cercando le anziane del paese, aveva provato a riavvicinarsi a quell’arte, dimenticata dalle nuove generazioni ma ancora presente, non fosse altro che per la sopravvivenza degli antichi strumenti. Ne era nato un laboratorio a Campotosto da cui il sisma l’ha costretta ad allontanarsi. Di recente ha ripreso a lavorare in una bottega provvisoria, una casetta in legno dove ha potuto risistemarsi, perché, spiega, la sua è un’attività artigianale che ha senso solo in quel contesto.
Donne da cui passa la resistenza in luoghi che rischiano l’isolamento e un oblio feroce. Che si tratti di borgate, frazioni o città, non fa differenza. Il pericolo non è proporzionale alle dimensioni di uno spazio ma alla resa di una collettività; L’Aquila, in questo senso, ha vissuto e vive una situazione delicata. Antonietta Centofanti dice che l’unica cosa che impedisce di soccombere è proprio il lottare. Almeno non si è accerchiati dal dolore, ci si arrabbia ma si resta vivi. E lei sulle barricate c’è da tanto, è sempre lì a spronare e sferzare la sua comunità, quando vede che si sfalda, che gira le spalle  anche in un’estrema forma di autodifesa  davanti a lutti e vicende che dovrebbero essere condivise. Per ricostruire, infatti, bisogna aver preso coscienza di tutto ciò che è stato, di quello che ha abbattuto e ucciso, oltre e al di là del terremoto. La regista Cecilia Fasciani, squarcia quindi il racconto, riandando all’indietro, ai concitati momenti in cui gli aquilani reclamarono le proprie case, il ritorno simbolico a quel centro storico da troppi mesi isolato, sottratto, abbandonato. Una cittadinanza determinata a fondare ritualmente la città che sarebbe venuta e che perciò cercava un contatto, perfino una consonanza con le macerie lasciate nelle strade. Con quelle macerie bisognava ritrovare un dialogo e da lì recuperare, almeno iniziare un processo di recupero, della propria identità, altrettanto costretta a frantumarsi.  
Così Antonietta ci accompagna per le vie della città-cantiere, anche le sue sono soste quasi rituali, ad ogni angolo, piazza o slargo sorveglia lo spazio, mette un’idea del prima e dell’ora in quegli scorci squassati e non manca di sottolineare quanta bellezza venga da lì, quanta nonostante tutto. Sembra volerci dire: ma non immaginate cos’è stato qui, la forza e la grazia che c’erano ovunque, se la città irradia ancora così tanta intensità? È quel che ho pensato anch’io, sfiorando coi miei passi queste architetture, violate, prostrate ma a loro modo resilienti. È quello, lo capisco ora, che negli anni mi ha fatto pensare parecchie volte ad Antonietta, alle sue battaglie. Anche quando la sua voce si è sentita di meno, ma c’era, c’è sempre stata. Allora, guai voltarsi adesso. Il ritorno alla normalità suona come una formula vuota, che non fa presa su chi si trova spodestato, sradicato dentro e fuori. Ci sarà un’altra normalità, auspicabile, che per un po’ correrà parallela a quella interrotta e poi farà la sua strada. Ma in tutto questo la memoria avrà bisogno di essere salvata e custodita, rifondata, a sua volta, sugli accertamenti delle responsabilità, sulla serenità derivante dal fatto che molte cose hanno infine ritrovato una sistemazione, un senso, una strada per poter essere definite e comprese. “Io prometto” è un’espressione difficile. Ce lo dice Valentina Valleriani, sul filo dei ricordi, dell’essere stata negli anni ostinata, per sé, per la comunità. Siamo persone, immerse nei nostri condizionamenti, nei nostri limiti, eppure qualcosa si può fare, anche solo dall’acquisire questi limiti, provare a guardarli e capirli. Già questa è una promessa a se stessi, in grado di motivare ognuno nella propria quotidianità. Una lezione, quella dell’impegno civile, cui le aree terremotate richiamano con durezza, sia quando è stata disattesa sia quando ha dato la miglior prova di sé, attraverso le reti solidali spontanee e nazionali. Se i morti non hanno un senso, e fermo restando che una vita non si risarcisce, almeno provare a far sbocciare il meglio da queste macerie, almeno avere questa determinazione, è cosa dovuta a chi non c’è più.


(Di Claudia Ciardi)




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      «Leggendaria» 

numero 87, Donne che 
hanno fatto l’Italia, maggio 2011, nel ricordo di Bia Sarasini, recentemente scomparsa. Bia si era dedicata fin da subito a divulgare e sostenere il movimento delle "Terre-Mutate", un’associazione spontanea di donne colpite dal sisma in cerca di nuove forme di aggregazione sociale, per superare insieme l’emergenza. L’ho incontrata nel 2013, durante le giornate romane che la Sil dedicò alla poesia della Bachmann. La ringrazio per le parole che mi riservò: “se stai con noi, io sono contenta”. Non si riferiva solo alla Sil, ma a qualcosa di più grande, a un impegno ancora più vasto e capillare nella mia vita, che seppe racchiudere in quelle poche parole. Ora ne capisco pienamente il senso.




«Leggendaria» numero 95, Donne in città, settembre 2012. Le Terre-Mutate dell’Aquila incontrano le donne di Mirandola dopo il sisma in Emilia.





















Su «Montagne 360», marzo 2018, la mostra Sequenza sismica, per ripercorrere nelle immagini il dolore e la memoria dei luoghi colpiti dal sisma del centro Italia nel 2012 e nel 2016.



18 ottobre 2018

Marc Augé - Saper toccare


Un discorso sulla definizione sensoriale, antropologica e filosofica del tatto nella cultura umana. Questo breve saggio di Marc Augé, impegnato negli ultimi trent’anni a esplorare dinamiche e derive della globalizzazione in rapporto alle relazioni fra individui, riflette su alcuni dei temi che più hanno orientato la sua attività di studioso. La fisicità respingente dei nonluoghi, dove nulla o quasi viene trattenuto o trasmesso delle vite di coloro che quotidianamente li attraversano, il paradosso della frequentazione di massa di spazi condivisi senza acquisirne alcuna esperienza collettiva, l’uso di tecnologie che se da una parte facilitano la comunicazione, rendendola praticamente istantanea, dall’altra rischiano di inibire il confronto con la realtà. Su tali argomenti Augé si è esercitato a lungo, firmando contributi che hanno innovato in modo sostanziale il dibattito all’interno delle discipline sociali. Se l’essere umano ricava la misura della propria esistenza dal relazionarsi con l’altro, dandosi contemporaneamente come un insieme di “singolare-plurale”, nel momento in cui il contesto dov’è inserito lo obbliga a un’esperienza frettolosa e straniante dei suoi simili, un’esperienza che nega ogni passaggio dialettico al comporsi di una pluralità come fondamento necessario al senso sociale, è chiaro che ad entrare in crisi sia pure il suo autodeterminarsi come singolo attore e partecipe di quella stessa società. L’uomo, in quanto entità duale, avvertendo in sé questa scissione si ritrova in bilico su una frattura alienante e, senza vie d’uscita apparenti, è consegnato alla solitudine.
Il ragionamento sul toccare l’altro, dunque, s’inserisce nella constatazione che i rapporti tra le persone si stanno indirizzando all’estraneità piuttosto che alla ricerca di indispensabili punti di contatto. Un atto, il toccare, che attiene a due sfere. Quella intellettuale, ossia l’aspirazione che ha ogni artista di muovere attraverso l’opera chi vi posa lo sguardo o legge o ascolta. E quella strettamente fisica, quando attraverso un gesto s’intende comunicare col corpo di qualcuno. Gesto che nel tempo è stato investito di qualità sacrali e perfino magiche; pensiamo all’imposizione delle mani dei re taumaturghi oggetto del celebre studio di Marc Bloch. È questo infatti un ambito che dal corpo rimanda all’emotività e viceversa. Toccare qualcuno implica varcare una frontiera che sta tra noi e la personalità di chi abbiamo davanti. Augé parla anche di una sorta di possessione mistica inversa, rifacendosi alle vite dei santi. Se tali racconti sono tutti incentrati sulla sublimazione fisica – che cos’è l’estasi se non un’altissima manifestazione d’amore, un sentire, anche nelle sue pose erotiche, dove il contatto è solo, seppur vividamente, evocato? Se quindi l’ascesi spirituale si percepisce in un’elevazione continua del corpo che tende al divino, pure la carnalità non è affatto occultata. Quando San Tommaso affonda il dito nella piaga del Cristo – Augé si riferisce qui alla famosa tela di Caravaggio – lo fa perché ha bisogno di trovare conferma all’esperienza della fede e del trapasso nell’unico modo possibile: toccarne le ferite. E a tale proposito pensiamo ancora alle crude immagini del martirio dei santi, alla centralità che la tortura dei corpi riveste nelle narrazioni agiografiche, dove la superiorità spirituale prende forza dal resistere al dolore.
La funzione tattile è anche depositaria di una peculiare capacità di memoria, forse tra le più sviluppate nei sensi umani. Ad esempio curare un corpo, da una semplice fasciatura a un’operazione chirurgica, alleviarne le sofferenze, implica una memorizzazione durevole di quei gesti, tanto che saremmo in grado di ripeterli anche a distanza di anni. Ma non solo. Ci fa ricordare dettagliatamente dei modi e delle situazioni in cui siamo entrati in contatto con l’altro, che in una cosa essenziale com’è il prestargli delle cure si colloca fra le più elevate esperienze di empatia e scambio. Il tatto educa all’altro, fa uscire quella parte di umanità generica che è in noi, mettendola a disposizione del collettivo. Rompe l’isolamento, crea conoscenza. E sì, è vero, come dice Augé l’educazione salverà il mondo e, aggiungo io, anche la condivisione.

(Di Claudia Ciardi)   


Edizione consultata:

Marc Augé, Saper toccare, a cura di Francesca Nodaro, 
Mimesis, Collana Chicchidoro, 2017


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10 ottobre 2018

Simbolismi ai confini dell'impero asburgico



La storia del simbolismo nell’arte all’interno dei paesi di cultura tedesca – Germania e impero asburgico – è un tema vasto che implica l’analisi dei contatti tra Francia e Mitteleuropa durante almeno gli ultimi tre decenni del XIX secolo. Da una parte la pittura francese aveva avviato un ripensamento dell’impressionismo attraverso un lungo processo di mediazione e superamento che dalla scuola di Barbizon, passando per Pont-Aven e la personalità di Paul Gauguin arriva ai Nabis, dove a imporsi sono soprattutto le lezioni del decano Sérusier e del poco più giovane Maurice Denis, dall’altra nei territori tedeschi si assiste a una conquista in parallelo delle nuove istanze simboliste, filtrate dal sintetismo Jugendstil e dalle Secessioni di Monaco (1892), Vienna (1897) e Berlino (1898). Intreccio di caratteri e influssi che se ci si sposta nelle periferie dell’impero appare ancora più complesso, a tratti addirittura indecifrabile. Se infatti il centro per eccellenza deputato al soggiorno artistico era indiscutibilmente Parigi, e ciò fino agli anni ’70-’80 dell’Ottocento, sotto il crescente martellare delle avanguardie sono molti i giovani che dalle province imperiali scelgono di stabilirsi per un periodo più o meno esteso nel tempo a Vienna, Monaco, Berlino o anche Milano. In tal senso si possono dire accantonati pure gli attriti politici e le diverse appartenenze culturali di trentini e non solo; a riprova dell’arte quale bacino di condivisione e immaginifica “comune” volta al superamento delle diversità. Del resto, affinché la frontiera assolva il compito di cinghia di trasmissione di culture e saperi, dev’esser chiara a chi l’attraversa la sua essenza, la sua spazialità incisa nei luoghi e ancor più nell’idea che quei confini possano divenire passaggio, ma solo in virtù della loro certa definizione come tracciati fra aree dai differenti connotati.
Al bivio del simbolismo internazionale di matrice tedesca, o più ampiamente nordica, che va da Böcklin a Klinger, da Munch a Hodler e Kubin, incrociando la corrente paesaggista di Corinth e Leistikow, che arriva a lambire la colonia di Worpswede, con una netta predilezione per le scene autunnali e i tramonti intrisi di una Stimmung malinconica e assorta, si colloca buona parte della pittura frontaliera trentina e altoatesina di fine secolo. In quello stato di “torbida latenza”, per citare i curatori di una recente rassegna pittorica su questi temi, che di lì a poco avrebbe svelato tutti gli inganni della realtà. Con l’aggiunta di un nume solitario e ingovernabile, Giovanni Segantini. Fabbro di un linguaggio che non si lascia assimilare ad alcuna corrente, interprete di un simbolismo panteista sui generis, ha affascinato molti tra i pittori italiani e stranieri coevi. Restando alla porzione geografica qui esplorata, possiamo senzaltro dire che il tirolese Alfons Siber (1860-1919) sia uno dei più assidui nel cogliere e rafforzare la sua ricerca.
Punto nodale d’interlocuzione fra tutti gli artisti operanti in questa parte d’Europa nel medesimo scorcio storico, è il bisogno di esprimere la ritrovata armonia fra uomo e natura. I laghi, gli stagni, i boschi, i pascoli alpini sono i luoghi dell’idillio, ambienti risparmiati dal tempo dove tanti pittori scelgono peraltro di trasferirsi per sfuggire ai condizionamenti sociali e civili delle metropoli. Ecco cosa annotava Artur Nikodem quando si metteva al lavoro: «ora in piena estate le betulle… se si incide un quadrato nella corteccia con un coltello appuntito, si ha la pelle bianca, sotto la quale fa mostra di sé uno splendido verde, da cui goccia il dolce succo». Da qui passa anche una sensibilità nuova per la quale il colore diventa esso stesso soggetto, marca simbolica di cui viene eclissata la funzione descrittiva a favore delle sue qualità evocatrici. La propensione allusiva dell’arte del secondo Ottocento, rivelatrice di nervature magiche e mistiche con cui disegnare l’invisibile che è nel mondo, la contiguità sempre più necessaria con l’universo simbolico, si diffondono dalla Francia verso est come risposta al naturalismo d’origine impressionista, convogliando queste istanze in una corrente creativa che va ben oltre le discipline figurative. Si tratta di un cosmo variegato e per alcuni aspetti sfuggente, nella misura in cui sperimenta, mischia, gioca, e in apparenza rinnega, salvo poi recuperare entro di sé alcuni di quegli stessi motivi formalmente discussi. Seguirne esiti e mutazioni significa approdare alle soglie dell’espressionismo e fino all’astrattismo e alla metafisica degli anni Venti del Novecento. Un arcipelago in buona parte ancora sommerso, dove sono custoditi i sogni di quasi tutte le successive avanguardie.

(Di Claudia Ciardi) 


Catalogo consultato:

Sulle tracce di Maurice Denis. Simbolismi ai confini dellimpero asburgico.
Auf den Spuren von Maurice Denis. Symbolismus an den Grenzen des Habsburger Reichs.
Skira, 2007




Alexander Koester, Canneto al tramonto vicino Bressanone, 1895



Alexander Koester, I salici dorati, 1900



Alfons Siber, Risveglio di primavera, 1900



Max von Esterle, Giornata invernale di sole in Tirolo, 1911



Alfons Walde, Impressione di primavera, 1911



Alfons Walde, Impressione serale, 1911



Artur Nikodem, Sentiero nello Stubaita, 1919-1920



Max Klinger, L'ora blu, 1890


 
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