Si
vuole qui commentare brevemente la chiusa del The Waste Land, oscillante tra allucinazione colta, miraggio
onirico e profetismo nietzschiano, del quale si coglie un riflesso nel titolo, Ciò che disse il tuono, ma che nei fatti
risulta subito disinnescato da un’attitudine alla miniatura ironica e
scomposta, in linea col resto del poema. Riconosciuto all’unanimità come pietra
angolare della poesia novecentesca, che con questo lavoro di Eliot si allarga a
nuovi orizzonti sul piano tecnico e dei suoi principi ispiratori, in riferimento
alla mia esperienza personale posso dire di averlo letto una dozzina di volte
in italiano e altrettante in inglese. E di non esserne ancora sazia, direi anzi
per nulla. Il fotomontaggio per frammenti che Eliot ha concepito sfugge e allo
stesso tempo attrae in virtù della sua assoluta compiutezza. Le intersezioni letterarie,
il loro peso immaginifico, ma ancor più la disinvoltura con cui vengono fatte
cadere nel grembo dell’opera, le assicurano il costante ritorno di chi legge.
Lode
del frammento, della rovina, dell’abbandono, di ciò che non si riesce
compiutamente a raccontare di sé, come l’autore non manca di ribadire in una
delle strofe finali che introducono non a caso l’immagine dantesca della
prigione di Ugolino. È chiara, soprattutto, l’amarezza per il poeta che non sa trasmettere
agli altri il momento della resa (a
moment’s surrender), quando spiritualmente diviene unisono col mondo
raggiungendo quelle altezze interiori che l’ordinarietà delle cose disperde: «La
terribile audacia d’un momento d’abbandono/ che una vita di prudenza non potrà
mai revocare». Disfatta e attesa di rigenerazione in un aprile “non crudele”, questi
i due centri radiali che tengono a battesimo l’intero ragionamento poetico.
Tali tematiche si prestano all’entrata in scena di quelle ombre rituali ed
escatologiche che si addensano attorno a buona parte della lirica anglosassone del
primo Novecento. Lo smembramento di Osiride-Dioniso, metafora
dell’atomizzazione della storia dopo la prima guerra mondiale, la morte di
Cristo, associato a Tammuz e alle altre figure divine della fertilità, che
raccoglie su di sé l’idea di una palingenesi, cui spesso si accompagna
l’alternarsi delle stagioni imperniate sulla primavera, come metafora di
rinascita. Anche qui infatti l’origine è aprile, sebbene di un tempo sovvertito
si tratti, doloroso snodo di memoria e desiderio dove tutto si rimescola. A
ciò vanno aggiunte l’allegoria dell’ascesa al monte e la sacralità che
circonfonde il paesaggio di montagna, così come il viaggiatore che gli si
avvicina. Nel caso del passo di Eliot, tutto risulta amplificato dall’accumulo di
altri indizi pertinenti con l’immaginario sacro orientale: il Gange, il fiume
della vita e della morte, asse dell’induismo, il riferimento esplicito
all’Himavant, una delle cime dell’Himalaya che presiede alla manifestazione del
tuono, e le citazioni dalle Upanishad,
che Eliot era in grado di padroneggiare avendo studiato sanscrito ad Harvard
nel 1911-’13. Una propensione all’orientalismo che attraversa la cultura
europea dalla fine del Settecento, continuando a ramificarsi nelle più recenti
espressioni della creatività letteraria. Pensiamo ad esempio al soggiorno di W.
B. Yeats a Palma di Majorca in compagnia di uno Swami indiano, Shri Purohit, al fine di
tradurre insieme le maggiori Upanishad.
Si
consideri la frequenza con la quale simili riferimenti affiorano tra le pagine
dei Pisan Cantos di Ezra Pound, la
cui elaborazione risale al termine della seconda guerra mondiale ma che evidentemente
sviluppano motivi già incardinati nel ciclo dei Cantos inaugurato nel 1919. Uno su tutti, la sovrapposizione tra
il Taishan, il complesso montuoso venerato in Cina, e i Monti Pisani che fanno
da sfondo alla prigionia del poeta. Allegoria, quella della salita al monte,
che nell’immaginario poundiano si salda sull’essenza femminile in quanto mistica
portatrice di un principio di creazione: «To be gentildonna in a lost town in
the mountains» (Canto 78).
Sui
nomi di Eliot, Pound, Yeats confluiscono dunque interessi che attengono al
medesimo sostrato culturale, dagli spunti mitologici all’esoterismo, dal modo
di dialogare con l’antico e in generale con le lingue all’insegna del pastiche fino al gioco onomatopeico. Letterati
che strinsero tra loro rapporti di amicizia e che forse, proprio per questo, si
ritrovarono anche nella trasposizione di una memoria autobiografica, oggetto di
scavo simbolico e depositaria di una sintassi parallela a quella del mito.
Le opere dove più sono vivi i contatti cui si accennava originano peraltro nel medesimo arco di anni. Il The Waste Land vide la luce nel ’22, ultimo in ordine di tempo. Dell’inizio dei Cantos si è già detto; li precedette di poco la raccolta I cigni selvatici a Coole di Yeats (’17). Costruiti attorno alla sagoma della vecchia torre normanna di Ballylee, sua amata residenza raggiungibile a piedi da Coole House, dimora dell’amica e protettrice Lady Gregory, i versi di Yeats nella loro soffusa rappresentazione di un cosmo primitivo dal quale dipende l’alchimia spirituale che sorregge l’intera architettura poetica, esprimono probabilmente una delle più profonde consonanze con il poema di Eliot. Quell’accenno à la tour abolie, la torre infranta, su cui si chiude La terra desolata appare quasi un tributo iniziatico alle simbologie del grande poeta irlandese.
Nei tarocchi la carta della torre, emblema della ragione, ci mostra un fulmine che si abbatte sulla sommità dell’edificio. Monito a non salire troppo in alto, guidati dalla superbia – richiamo al meden agan greco – ma di nuovo pure aspirazione al cambiamento, alla conquista della libertà. La folgore distrugge le strutture del pensiero e in tal senso l’autore guarda con una specie di accondiscendenza al capitolare del proprio stesso lavoro. Il suo sforzo di traduzione imperfetta e incompleta dell’umano sentire, del travaglio di intelligenza e cultura che è alla base della civiltà, trova rifugio e autentica comprensione in una pace che travalica l’esercizio raziocinante.
Le opere dove più sono vivi i contatti cui si accennava originano peraltro nel medesimo arco di anni. Il The Waste Land vide la luce nel ’22, ultimo in ordine di tempo. Dell’inizio dei Cantos si è già detto; li precedette di poco la raccolta I cigni selvatici a Coole di Yeats (’17). Costruiti attorno alla sagoma della vecchia torre normanna di Ballylee, sua amata residenza raggiungibile a piedi da Coole House, dimora dell’amica e protettrice Lady Gregory, i versi di Yeats nella loro soffusa rappresentazione di un cosmo primitivo dal quale dipende l’alchimia spirituale che sorregge l’intera architettura poetica, esprimono probabilmente una delle più profonde consonanze con il poema di Eliot. Quell’accenno à la tour abolie, la torre infranta, su cui si chiude La terra desolata appare quasi un tributo iniziatico alle simbologie del grande poeta irlandese.
Nei tarocchi la carta della torre, emblema della ragione, ci mostra un fulmine che si abbatte sulla sommità dell’edificio. Monito a non salire troppo in alto, guidati dalla superbia – richiamo al meden agan greco – ma di nuovo pure aspirazione al cambiamento, alla conquista della libertà. La folgore distrugge le strutture del pensiero e in tal senso l’autore guarda con una specie di accondiscendenza al capitolare del proprio stesso lavoro. Il suo sforzo di traduzione imperfetta e incompleta dell’umano sentire, del travaglio di intelligenza e cultura che è alla base della civiltà, trova rifugio e autentica comprensione in una pace che travalica l’esercizio raziocinante.
(Di
Claudia Ciardi)
Ciò che disse il tuono
(Parte V – The Waste Land)
Dopo
la luce rossa delle torce su volti sudati
dopo
il silenzio gelido nei giardini
dopo
l’angoscia in luoghi petrosi
le
grida e i pianti
la
prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
del
tuono a primavera su monti lontani
colui
che era vivo ora è morto
noi
che eravamo vivi ora stiamo morendo
con
un po’ di pazienza
Qui
non c’è acqua ma soltanto roccia
roccia
e non acqua e la strada di sabbia
la
strada che serpeggia lassù fra le montagne
che
sono montagne di roccia senz’acqua
se
qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
fra
la roccia non si può né fermarsi né pensare
il
sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
vi
fosse almeno acqua fra la roccia
bocca
morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
non
si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
non
c’è neppure silenzio fra i monti
ma
secco sterile tuono senza pioggia
non
c’è neppure solitudine fra i monti
ma
volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
da
porte di case di fango screpolato
Se
vi fosse acqua
e niente roccia
se
vi fosse roccia
e anche acqua
e acqua
una
sorgente
una
pozza fra la roccia
se
soltanto vi fosse suono d’acqua
non
la cicala
e l’erba secca che canta
ma
suono d’acqua sopra una roccia
dove
il tordo eremita canta in mezzo ai pini
drip
drop drip drop drop drop drop
ma
non c’è acqua
Chi
è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se
conto, siamo soltanto tu ed io insieme
ma
quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
c’è
sempre un altro che ti cammina accanto
che
scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
io
non so se sia un uomo o una donna
- ma chi è che ti sta sull'altro fianco?
Cos’è
quel suono alto nell’aria
quel
mormorio di lamento materno
chi
sono quelle orde incappucciate che sciamano
su
pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
accerchiata
soltanto dal piatto orizzonte
qual
è quella città sulle montagne
che
si spacca e si riforma e scoppia nell’aria violetta
torri
che crollano
Gerusalemme
Atene Alessandria
Vienna
Londra
irreali
Una
donna distese i suoi capelli lunghi e neri
e sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
e pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
squittivano,
e battevano le ali
e strisciavano a capo all'ingiù lungo un muro annerito
e capovolte nell’aria c’erano torri
squillanti
di campane che rammentano, e segnavano le ore
e voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.
In
questa desolata spelonca fra i monti
nella
fievole luce della luna, l’erba fruscia
sulle
tombe sommosse, attorno alla cappella
c’è
la cappella vuota, dimora solo del vento.
non
ha finestre, la porta oscilla,
aride
ossa non fanno male ad alcuno.
Soltanto
un gallo si ergeva sulla trave del tetto
chicchirichì
chicchirichì
nel
guizzare di un lampo. Quindi un’umida raffica
portatrice
di pioggia
Quasi
secco era il Gange, e le foglie afflosciate
attendevano
pioggia, mentre le nuvole nere
si
raccoglievano molto lontano, sopra l’Himavant.
La
giungla era accucciata, ingobbita in silenzio.
allora
il tuono parlò
DA
Datta:
che abbiamo dato noi?
Amico
mio sangue che scuote il mio cuore
l’ardimento
terribile di un attimo di resa
che
un’èra di prudenza non potrà mai ritrattare
secondo
questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
che
non si troverà nei nostri necrologi
o sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
o sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
nelle
nostre stanze vuote
DA
Dayadhvam:
ho udito la chiave
girare
nella porta una volta e girare una volta soltanto
noi
pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
pensando
alla chiave, ognuno conferma una prigione
solo
al momento in cui la notte cade, rumori eterei
ravvivano
un attimo un Coriolano affranto
DA
Damyata:
la barca rispondeva
lietamente
alla mano esperta con la vela e con il remo
il
mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
lietamente,
invitato, battendo obbediente
alle
mani che controllano
Sedetti
sulla riva
a pescare, con la pianura arida dietro di me
riuscirò
alla fine a porre ordine nelle mie terre?
Il
London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo
poi
s’ascose nel foco che gli affina
quando
fiam uti chelidon - O rondine rondine
le
Prince d’Aquitaine à la tour abolie
con
questi frammenti ho puntellato le mie rovine
bene
allora v’accomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo.
Datta.
Dayadhvam. Damyata.
Shantih
sbantih sbantib