29 settembre 2021

In morte dei fratelli Lorenzetti

 

Ambrogio Lorenzetti, San Michele Arcangelo nel Trittico di Badia a Rofeno (1337 circa)



Durante le mie perlustrazioni nei rapporti incrociati fra letteratura e arte, ho riscoperto le prose di Paolo Volponi sulla peste del 1348. Scrittore politicamente impegnato, acuto interprete dei divari tracciati dal neocapitalismo nella società italiana fra il dopoguerra e gli anni Settanta, la narrazione del contagio è per lui metafora di una sindrome degenerativa che svuota l’organismo dall’interno privandolo di valori, forza, sentimento.
Quando mi sono avvicinata a quest’opera ho immaginato che avrei letto una vicenda completamente inventata, un’epidemia dai contorni surreali scoppiata in un luogo imprecisato, una peste psicologica alla Camus, il grande affrescatore moderno dell’alienazione e delle volontà malate. Aspetti che ci sono pure qui, tant
è che Volponi cosparge di tale semenza il suo terreno ma lo fa attingendo a un primitivismo descrittivo inconsueto, dove in parte si colloca anche la prosa di Verga, cui non a caso dedicò le sue curiose letture giovanili, elaborandolo in un tratto assolutamente peculiare della propria identità letteraria. Il risultato è una sconcertante sovrapposizione di accenti antichi che si dispongono su una partitura di stampo espressionista. Tetri presagi, strani lampi di luce, sangue di uomini e animali, sembra il crescendo della fosca agonia virgiliana nelle Georgiche (chiusa del libro III), quando un’inspiegabile strage cominciata nel Norico, una Totentanz bestiale, travolse la regione alpina, speculare a un altro contagio, le infauste premonizioni della guerra civile («armorum sonitum toto Germania caelo/ audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpes», chiusa del libro I) che avrebbe cambiato per sempre i connotati dellimpero. E il volto ancor più enigmatico di questa scrittura è nel suo repentino precipitarsi in mezzo alle cose, una febbrile caduta nel gorgo della storia, per cui dopo poche frasi ecco aprirsi inaspettatamente davanti a noi la disperata oscurità della stanza in cui i fratelli Lorenzetti, Ambrogio e Pietro, stanno morendo di peste a Siena. Ormai spossati i loro corpi non hanno più la forza di niente, perfino le lenzuola nell’arsura che divora la carne sono gravose. Il lettore si sente come inghiottito, scagliato da un’immagine all’altra. Le poche frasi pronunciate dai due pittori prima della perdita dei sensi sono un canto abbandonato sul precipizio. Non doveva la peste mietere vittime solo fra i più poveri? Si diceva che i derelitti, i malnutriti sarebbero stati preda del contagio, che sarebbe durata poco e soltanto costoro ne avrebbero sofferto. Segue poi il rammarico per le opere non finite e le idee rimaste chiuse nella mente. Segue ancora il silenzio, lo schianto di un albero nell’orto, la morte. Ma non c’è alcuna tregua nella fine, perché subito giungono i monatti e un avido mercante che vorrebbe depredare la casa dei ricchi artisti. Sullo sfondo il fumo continua ad alzarsi dietro le mura cittadine, segno che il morbo non recede. In simili effetti coloristici e nella violenta isteresi dei comportamenti umani aleggia un’allegoria infernale, un girone dei dannati che dunque anche nella resa letteraria cerca i suoi modelli nel medioevo, con un sostanziale tributo ai toni danteschi.
Eppure, lungo le rive del fiume apocalittico che tutto trascina non c’è tempo per pensare. La morte dei pittori sfuma, è già lontana, sovrastata dall’istinto predatorio dei vivi e poi ancora degli animali, i veri padroni incontrastati della scena che subentrano all’uomo e fanno apparire logora, insensata la sua lotta per la sopravvivenza. Simbolo conturbante di disgregazione e catarsi un ariete, la cui forza bruta s’impone su ogni altra, figura sacrificale dai contorni ultraterreni ritualmente predestinata a scandire i momenti parossistici dell’epidemia e, quindi, la sua fine.
Nella prosa successiva e contigua si torna ancora sui temi della grande peste, sul suo potere indiscusso di palingenesi, signora che dà la morte e dà la vita. Al centro la figura di un monatto che non si mostra mai in volto e concentra in sé i più bassi istinti; l’avidità, la lussuria, e ancora una volta la violenza, cardine del racconto di Volponi, che intende così mostrare su quali ostacoli s’infranga l’utopia sociale.

Un versante che l’autore aveva percorso fin dalla gioventù con una precoce iniziazione fra le campagne dell’Appennino. L’incontro con Adriano Olivetti nel 1949, grazie alla intermediazione di Franco Fortini, allora presidente dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration)-CASAS (Comitato Amministrativo di Soccorso ai Senza tetto), aveva infatti generato da subito nella sua quotidianità molti cambiamenti, innescando esperienze in luoghi significativi per la sua maturazione letteraria. Olivetti lo assunse con il compito di svolgere inchieste nel Mezzogiorno, in Abruzzo, Basilicata – dove conobbe Carlo Levi e Rocco Scotellaro – Calabria e Sicilia. All’inizio degli anni Cinquanta venne inviato negli Appennini a coordinare, da Roccaraso a Cassino, le inchieste sulle condizioni sociali delle campagne e dei paesi devastati dalla guerra.
Successivi furono gli incarichi aziendali a Ivrea e a Torino, che gli diedero modo di sperimentare da un altro punto di vista, quello della vita di fabbrica con le relative tensioni politiche ed economiche, crisi e strappi nei quali si dilaniava la città e più latamente l’Italia, e che finirono per coinvolgere anche lui. Assunto dapprima con l’incarico di amministratore delegato in Fiat venne espulso per aver dichiarato il suo appoggio al partito comunista, che peraltro in quello stesso periodo (amministrative del 1975) ebbe una fortissima affermazione.
Che simili conflitti siano affiorati nelle sue stesure degli anni Settanta non stupisce. La peste è una compagna antica e insieme presente. Una volta passata l’epidemia, come lava vulcanica che incendia, dissecca e bonifica la terra, anche qui alla morte subentra la bellezza, dal dolore, dal sangue versato scaturisce una scintilla di vita. È la lezione, l’essenza di tutto il mito greco che lo scrittore estrae perché scorra nelle vene di una storia moderna in cui ha scelto uno spartiacque incredibile della modernità, la peste nera del ’48. Anno zero nella storia dell’arte perché molti talenti furono falcidiati e, secondo alcuni storici, vero inizio dell’umanesimo. Un riassetto fulminante, un dérapage di equilibri, uno spostamento di ricchezze che rimescolò la società. Da lì in poi nulla fu come prima. Un episodio che ci dice come il vero nuovo inizio passi per un brutale scuotimento perfino delle forze creative. Quale incredibile eco del nostro tempo e come si avverte vacua in queste pagine la retorica del vecchio potere che pretende per sé la vittoria e la possibilità di officiare la rinascita, senza accorgersi che è già stato superato dagli eventi.
Questo squarcio biografico rappresenta infine un punto di vista certo inusuale ma anche molto affascinante, per stimolarci a riscoprire l’opera dei Lorenzetti, che una volta incontrata ha un potere davvero ipnotico. Allora, grazie Paolo Volponi, che nel dramma di queste tue prose ci hai ricordato pure uno sfolgorante prodigio nell’arte, la sfortunata vicenda dei due fratelli geniali che pur così malamente sorpresi, quando vengono raggiunti dalla peste hanno già donato al mondo i loro capolavori.

(Di Claudia Ciardi)       




Edizione di riferimento:

Paolo Volponi, La pestilenza, a cura di Marco Rustioni, Via del Vento edizioni, collana Ocra gialla, 2002    


In copertina: xilografia di Lorenzo Viani

16 settembre 2021

Hugo von Hofmannsthal - Poesie

 

27 aprile 1891: «Oggi al caffè presentato a Hermann Bahr». Poche parole annotate sul suo diario, ma una concisione da cui traspare qualcosa d’importante. Si tratta del riconoscimento pubblico di Loris, la sua ammissione nel cenacolo degli artisti viennesi. Colui che fino ad allora si era firmato con questo pseudonimo – in quanto ai liceali era vietato pubblicare – veniva conosciuto per il suo vero nome e cognome e nella sua persona reale. Anche se nel sogno avventuroso e sfuggente della capitale asburgica dire reale comporta sempre qualche rischio. Fra l’altro l’apparizione di un giovanissimo preceduto dalla forza letteraria dei suoi articoli, per cui tutti si aspettavano semmai un attempato signore di gran carriera nell’amministrazione dell’impero, animato da velleità letterarie, sembrerebbe già l’inizio di una delle sue trame, l’antefatto di una delle sue opere teatrali.
L’intreccio fra autobiografia e premonizioni fiabesche, fra autoanalisi e scambi di identità è una costante di tutta l
opera di Loris-Hofmannsthal, un colore che fa da sfondo ai diversi generi da lui padroneggiati cosicché laddove si sono volute vedere cesure e crisi, quando la poesia ha fatto largo alle riletture del teatro antico e quindi alla prosa, notiamo invece un’unica architettura coerente sempre pronta a espandersi, ad approfondire gli elementi che l’hanno fondata, a mischiare quei caratteri che nel tempo sono cresciuti d’intensità, di volta in volta seminando una carica emotiva innovata. Lo si coglie bene nei tanti appunti lasciati dallo scrittore, sia quelli di tipo diaristico in cui ha registrato episodi e conseguenti riflessioni, sia gli altri riconducibili a innumerevoli frammenti e abbozzi di progetti. Un percorso che si riflette anche nello studio della parola, elemento che si fa carico di quella perenne incompiutezza, di un giudizio sospeso sulle cose del vivere che ne imbeve il pensiero e che solo nella sua estrema svelata labilità è in grado di comunicarsi.
Sul fronte della saggistica il mestiere con cui raccontava le mostre d’arte e i nuovi linguaggi della pittura – Hofmannsthal è stato tra i primi a comprendere van Gogh quando la maggior parte ne ignorava ancora il peso – non poteva non incontrare la curiosità di Bahr, fine critico nonché amico di tanti artisti, punto di riferimento per le avanguardie, esegeta dell’espressionismo. Ma lo si è detto, ognuno dei generi presieduti da Hofmannsthal sconfina in qualcos’altro e la poesia, che segna i suoi esordi, affiora sempre, in mille declinazioni e accordi, da ogni dettato. A riprova sta la ricezione in Italia dei suoi scritti con l’avvicinamento di poeti di primo livello che erano anche raffinati germanisti. Una giovanissima Cristina Campo sui tavoli del caffè delle Giubbe rosse a Firenze – in origine regno futurista, poi tempio degli ermetici – imparò ad apprezzare la mirabolante prosa hofmannsthaliana grazie al suo mentore e per dieci anni compagno di vita Leone Traverso, figura di spicco dell’ermetismo fiorentino e primo divulgatore di Hofmannsthal in Italia, scelto da Enrico Cederna, diciottenne editore milanese, quindi da Vallecchi che nel 1950 ne rilevò l’attività, come responsabile delle collane dedicate al grande maestro austriaco. Traverso seppe riunire attorno a sé i più talentuosi letterati e studiosi del tempo, accomunati dalla passione per la germanistica; tra gli altri, oltre alla Campo, si ricordano Gabriella Bemporad, curatrice di diversi volumi usciti per Adelphi, il terzo grande editore che ha poi raccolto l’eredità di Hofmannsthal nel nostro paese, e Tommaso Landolfi, scrittore e mediatore, sia sul fronte della letteratura slava che tedesca – immensa la sua versione di Leskov e, per l’autore di cui qui si tratta, delle Nozze di Sobeide e del Cavaliere della Rosa, pubblicate da Vallecchi. Quando ancora il tradurre non era un ʻlavoro a macchinaʼ ma un qualcosa a cui ci si dedicava per restituire totalmente un pezzo d’arte in un’altra lingua, magari poche perle ma destinate a durare nel tempo: il Dedalus di Pavese, le citate incursioni landolfiane, la devozione sacerdotale di un Angelo Maria Ripellino ancora sul fronte della slavistica. Letterati, grandi cultori italiani al servizio di altri grandi, e traduzioni intramontabili.
Il lavoro a macchinetta che in più di un caso alimenta certa editoria istantanea odierna fa sì che si producano magari molteplici versioni di una stessa opera (e per contrappasso uno strascico di lacune di quel che ancora non si è preso in considerazione
la ricerca essendo ancor più faticosa, difficile, lenta e pure più onerosa per chi la svolge!), senza tuttavia incidere veramente per quanto riguarda la storia del passaggio di un testo nella letteratura di un altro paese: penso alle Duinesi di Rilke. Forse non basterebbero anni per una resa minimamente all’altezza dell’originale, per tentare la via di un’altra opera d’arte in italiano. Anche in tal caso rispetto alle pubblicazioni aggiornate mi sento di restare fedele al volume di Leone Traverso per Vallecchi. Il presente discorso sulla traduzione vale, è chiaro, per molti titoli.
La Campo ha reso con estrema acutezza alcune delle prose giovanili firmate da Loris e leggendo questo suo lavoro si resta sorpresi dalla penetrazione della nostra poetessa nella sensibilità di un autore allora misconosciuto. Ho letto sia le sue versioni, inserite da Leone Traverso nel volume Viaggi e saggi, che raccoglie un vasto campionario degli articoli hofmannsthaliani, sia quelle della Bemporad che in L
ignoto che appare e La mela d’oro (catalogo Adelphi) ha poi ripreso il discorso sulle brevi prose letterarie dello scrittore aggiungendo anche un’interessante comparazione con gli appunti relativi ad alcuni testi presentati. Entrambe le curatrici sembrano aver coltivato in proprio un dialogo coerente e similare quanto agli esiti per far affiorare nella sua immanenza la radice poetica di Hofmannsthal, con tutte le sue incredibili sfaccettature e pluralità tonali.
L’editore Ripostes nel 2001 si è fatto promotore di una bella iniziativa rispolverando in un grazioso tascabile proprio queste traduzioni della Campo, col meritorio intento di riportare in luce un pezzo di una stagione culturale intensa, poliedrica, irripetibile fissata nello specchio magico di due lingue e due interpreti giganti a confronto. Le due prose di chiusura, Poeta e vita e Figurazioni, rivelano in pieno a quale grado la poetessa sentisse il leggere Hofmannsthal in lingua originale come una missione, qualcosa che l’avvicinava più di altri a sciogliere il nodo tra immaginazione ed espressione. Pensieri così: «L’artista intende tutte le cose come sorelle e figlie di un sangue unico, ma questo non lo induce a confondere. Egli tiene l’unicità dell’evento in altissima stima: e sopra ogni cosa pone il singolo essere, il singolo atto, poiché in ciascuno di essi ammira il conferire di mille fila che dalla profondità dell’infinito vengono ad incontrarsi a quel modo. Egli apprende così a render giustizia alla propria vita». (Poeta e vita, traduzione di Cristina Campo, Ripostes).
Panismo della poesia nel vivere e del vivere dentro la poesia.

Tutta la dizione di Hofmannsthal sembra prendere le mosse da qui, quel suo aggirarsi lieve ma al contempo fisicamente ben saldo, assolutamente a suo agio nello strano reame mutevole dove si è in profonda consonanza con tutto ciò che è tangibile e ancor più con ciò che ci si nasconde, dove è più vero proprio ciò che maggiormente è celato e la cui traccia è ormai smarrita ai più, quasi il poeta fosse un indovino seduto su un tappeto di sogni. Fiaba, iniziazione, metamorfosi sono le chiavi del suo mondo.

«
E tre cose sono una: un essere umano, un oggetto, un sogno [...] / Und drei sind eins: ein Mensch, ein Ding, ein Traum» (Terzine sulla caducità).

I suoi versi sono l’inizio di ogni cosa. Già qui ci sono le sue incalzanti fantasticherie, le ombre, gli incantesimi notturni, le impalpabili commozioni che guizzeranno sempre in ogni respiro della sua creazione successiva. Il suo oriente fatto di giardini, di vicoli in un’esotica città che pare lontanissima ma è tutta disegnata nel cuore della sua Vienna. L’amore che si lascia intravedere, l’indizio abbandonato in una piega del tempo, come un oggetto che casualmente si ritrovi in una stanza e che subito diviene memoria e presagio. In questo nostro tempo che fatica a sognare, a mettere l’immaginazione avanti al bieco calcolo, che s’illude di poter definire esattamente l’utile e l’inutile, salvo essere smentito da una valanga di effetti opposti alle situazioni attese, l’incontro con l’opera di Hofmannsthal è una posa, una benedizione che soccorre i sensi affaticati. E perciò vi dico leggete tutto, ma veramente tutto, di Hugo von Hofmannsthal.

 
(Di Claudia Ciardi)



Al Caffè Giubbe Rosse di Firenze nel dopoguerra, da sinistra, sono seduti in prima fila Vittorina e Giuseppe Raimondi, Alessandro Parronchi, Mario Luzi, Eugenio Montale, Ugo Capocchini, in seconda Giacomo Natta e Leonetto Leoni. *Nel 2018 siamo riusciti a far fallire questo luogo storico, un bene culturale a tutti gli effetti che lo Stato avrebbe dovuto rilevare e tutelare*



Mistero del mondo

[Weltgeheimnis]

La fonte profonda lo sa bene,
una volta erano tutti profondi e muti,
e tutti sapevano.

È come parola magica incertamente echeggiata
e non compresa fino in fondo,
ch’esso va ora di bocca in bocca.

La fonte profonda lo sa bene;
chino su di essa, lo ha afferrato un uomo,
l’ha afferrato e poi ripreso.

E andò vaneggiando e cantò una canzone –
scuro specchio su cui si china
un giorno una bambina ed esce di sé.

E cresce, e di sé non sa nulla
e diventa una donna, e c’è uno che l’ama
e – è meraviglioso quel che dà l’amore.

Che scienza profonda dà l’amore! –
Di cose, oscuramente presagite,
si ha, nei suoi baci, il monito profondo…

E le nostre parole lo contengono,
così del mendicante calpesta il piede il ciottolo,
che imprigiona una pietra preziosa.

La fonte profonda lo sa bene,
ma una volta lo sapevano tutti,
ora si aggira, balenante, un sogno.

(1896)


Der tiefe Brunnen weiß es wohl,
Einst waren alle tief und stumm,
Und alle wußten drum.

Wie Zauberworte, nachgelallt
Und nicht begriffen in den Grund,
So geht es jetzt von Mund zu Mund.

Der tiefe Brunnen weiß es wohl;
In den gebückt, begriffs ein Mann,
Begriff es und verlor es dann.

Und redet' irr und sang ein Lied –
Auf dessen dunklen Spiegel bückt
Sich einst ein Kind und wird entrückt.

Und wächst und weiß nichts von sich selbst
Und wird ein Weib, das einer liebt
Und – wunderbar wie Liebe gibt!

Wie Liebe tiefe Kunde gibt! –
Da wird an Dinge, dumpf geahnt,
In ihren Küssen tief gemahnt …

In unsern Worten liegt es drin,
So tritt des Bettlers Fuß den Kies,
Der eines Edelsteins Verlies.

Der tiefe Brunnen weiß es wohl,
Einst aber wußten alle drum,
Nun zuckt im Kreis ein Traum herum.


*****************

Sogno di grande magia

[Ein Traum von grosser Magie]

Più regale d’un serto di diamanti,
come un giovane mare temerario
nell’aroma dell’alba, era il mio sogno.

Per le vetrate aperte entrava l’aria,
io dormivo nel padiglione al suolo,
da quattro porte aperte entrava l’aria.

Cavalli già correvano bardati
e una muta di cani lungo il letto
e correvano avanti. Ma quel gesto

del primo, grande mago fu levato
improvviso fra me e la parete:
il fiero cenno, la chioma regale.

E non parete dietro a lui: ma vasto
sfarzo emerse di baratro e di mare
e verdi prati dietro la sua mano.

Egli si curva e attinge dal profondo,
egli si curva e nuotano le dita,
come nell’acqua, ne terrestre fondo.

Ma da quella sottile acqua sorgiva
grandi opali s’impigliano alle dita
e sonori ricadono in anelli.

Poi si getta con lieve impeto d’anca
come per solo orgoglio sulla rupe:
la forza in lui di gravità si stanca.

Regna nelle pupille l’alta calma
delle gemme in letargo ma viventi.
Egli siede e con tale voce chiama

i giorni che parevano ormai spenti,
ch’essi tornano, grandi e luttuosi:
egli gode di risa e di lamenti.

Come in sogno degli uomini le sorti
varie egli sente come le sue membra.
Nulla è presso o lontano, umile o enorme.

Come raffredda nel profondo il suolo,
il buio dal profondo in alto sale,
la notte caccia il caldo dalle cime,

egli così godeva  della vita
il grande corso, che in ebbrezza grande
balzò come un leone sugli scogli.

........................................

È lo spirito nostro alto signore,
che non dimora in noi ma nelle stelle
pone il suo seggio e orfani ci lascia.

Ma nell’intima fibra Egli ci è fuoco –
io presagivo, ritrovando il sogno –
parla coi fuochi della lontananza

e vive in me com’io nella mia mano.

(1896)


Viel königlicher als ein Perlenband
Und kühn wie junges Meer im Morgenduft,
So war ein großer Traum – wie ich ihn fand.

Durch offene Glastüren ging die Luft.
Ich schlief im Pavillon zu ebner Erde,
Und durch vier offne Türen ging die Luft –

Und früher liefen schon geschirrte Pferde
Hindurch und Hunde eine ganze Schar
An meinem Bett vorbei. Doch die Gebärde

Des Magiers – des Ersten, Großen – war
Auf einmal zwischen mir und einer Wand:
Sein stolzes Nicken, königliches Haar.

Und hinter ihm nicht Mauer: es entstand
Ein weiter Prunk von Abgrund, dunklem Meer
Und grünen Matten hinter seiner Hand.

Er bückte sich und zog das Tiefe her.
Er bückte sich, und seine Finger gingen
Im Boden so, als ob es Wasser wär.

Vom dünnen Quellenwasser aber fingen
Sich riesige Opale in den Händen
Und fielen tönend wieder ab in Ringen.

Dann warf er sich mit leichtem Schwung der Lenden –
Wie nur aus Stolz – der nächsten Klippe zu;
An ihm sah ich die Macht der Schwere enden.

In seinen Augen aber war die Ruh
Von schlafend- doch lebendgen Edelsteinen.
Er setzte sich und sprach ein solches Du

Zu Tagen, die uns ganz vergangen scheinen,
Daß sie herkamen trauervoll und groß:
Das freute ihn zu lachen und zu weinen.

Er fühlte traumhaft aller Menschen Los,
So wie er seine eignen Glieder fühlte.
Ihm war nichts nah und fern, nichts klein und groß.

Und wie tief unten sich die Erde kühlte,
Das Dunkel aus den Tiefen aufwärts drang,
Die Nacht das Laue aus den Wipfeln wühlte,

Genoß er allen Lebens großen Gang
So sehr – daß er in großer Trunkenheit
So wie ein Löwe über Klippen sprang.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Cherub und hoher Herr ist unser Geist –
Wohnt nicht in uns, und in die obern Sterne
Setzt er den Stuhl und läßt uns viel verwaist:

Doch Er ist Feuer uns im tiefsten Kerne
– So ahnte mir, da ich den Traum da fand –
Und redet mit den Feuern jener Ferne

Und lebt in mir wie ich in meiner Hand.


*****************

Versi per un bambino

[Verse auf ein kleines Kind]

A te crescono i piedi rosati
a cercare i paesi del sole:
sono aperti, i paesi del sole!
Là fra i vertici muti è rimasta
l’aria dei millenni sospesa
e gl’inesauribili mari
t’aspettano ancora là colmi.
Sull’orlo d’eterna foresta
spartirai il latte dal vaso
di corteccia con l’anfesibena?* [serpente favoloso]
Sarà lieta la cena, le stelle
quasi cadranno nell’orcio!
Sull’orlo del mare eterno
troverai presto un compagno
ai tuoi giochi: l’amico delfino
ti salta egli incontro nel nido
e, se talora non viene,
t’asciugano presto gli eterni
venti le lagrime amare.
Nei regni del sole per sempre
gli antichi tempi sublimi
durano ancora, per sempre!
Il sole con forza segreta
ti forma i piedi rosati
a calcare il suo eterno paese.

(1898)

Dir wachsen die rosigen Füße,
Die Sonnenländer zu suchen:
Die Sonnenländer sind offen!
An schweigenden Wipfeln blieb dort
Die Luft der Jahrtausende hangen,
Die unerschöpflichen Meere
Sind immer noch, immer noch da.
Am Rande des ewigen Waldes
Willst du aus der hölzernen Schale
Die Milch mit der Unke dann teilen?
Das wird eine fröhliche Mahlzeit,
Fast fallen die Sterne hinein!
Am Rande des ewigen Meeres
Schnell findest du einen Gespielen:
Den freundlichen guten Delphin.
Er springt dir ans Trockne entgegen,
Und bleibt er auch manchmal aus,
So stillen die ewigen Winde
Dir bald die aufquellenden Tränen.
Es sind in den Sonnenländern
Die alten, erhabenen Zeiten
Für immer noch, immer noch da!
Die Sonne mit heimlicher Kraft,
Sie formt dir die rosigen Füße,
Ihr ewiges Land zu betreten.


* Traduzioni di Elena Croce, Giaime Pintor, Ervino Pocar, Leone Traverso.
Dal volume Narrazioni e Poesie, a cura di Giorgio Zampa, Meridiani Mondadori, 1972.

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