1994, tredici anni. Da una cassettina dei libri vedo spuntare un quadrato
tascabile di un colore a cui non potevo resistere. Questa acquamarina psichedelica
che faceva sembrare il libro uno strano incrocio fra un manga e un pezzetto di
porcellana, altro non era che l’edizione dei lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo, apparsi
nei “miti poesia” della Mondadori. Un tassello delle piccole collane economiche che hanno fatto la
storia editoriale negli anni Novanta, insieme ai cento pagine-mille
lire della Newton Compton (le tre cantiche di Dante montate in
un formato geniale che le rendeva comodamente leggibili e a portata di mano).
Visto
che per me il colore è un elemento decisionale importante, feci subito mia questa bizzarra creaturina. Il colore era già una promessa di ogni bene. E infatti il volumetto quadrato di Quasimodo con copertina celeste e dorata mi sorprese come
un fulmine a ciel sereno. In senso positivo. Un fulmine iniziatico. Verso dopo
verso approdavo alla mia prima Grecia tutta adolescenziale, una cosa da Sturm
und Drang ma più esplosiva e forse un po’ più “svenevole”, come dice la nostra
Alessia Rovina nel suo contributo, mettendoci in guardia da letture esagerate e
sovrabbondanti.
E
però, a quell’età va anche bene così. Il classicista in erba si costruisce la
sua patria con molta fantasia e in quelle architetture che sono l’emanazione
del mito, anzi sono il mito stesso, si sente proprio a suo agio, non vorrebbe
scambiarle per nulla di più oggettivo. Se poi il primo incontro è coi poeti,
allora la mitologia della parola entrerà nella mente del giovane e gli resterà
sempre, qualsiasi lingua legga, qualsiasi studio affronti in futuro. Ovunque e
comunque gli resterà quel soffio, quasi un primitivo incantesimo che sarà per
lui misura di tutto il resto.
Nel suo puntuale e raffinato articolo Alessia Rovina ci spiega
l’attrazione fatale che da sempre la lirica greca esercita rispetto ad altri
elementi dell’antico. Una sorta di irresistibile rabdomanzia capace di accendere
trasversalmente gli immaginari. Sarà anche perché la frammentarietà con cui il
suo corpo ci si offre, riconduce a una dimensione ermetica novecentesca, per
così dire familiare. La grecità è bella anche per questo, per le ombre che non
si afferrano, per quelle presenze perdute che pure si intuiscono e che,
talvolta, sentiamo vicinissime, anche nella loro assenza. È ancora il lavorio
dell’immaginazione che desidera colmare la lacuna ma che al contempo impara ad
amarla così. Ce lo spiega molto bene la nostra autrice quando parla di «serena
accettazione che va a curare le inevitabili mancanze», che comporta «la
necessità non ridondante di tornare, sempre e comunque, a studiare, di nuovo.
Talvolta, da capo». Ecco il senso dello studio dell’antico e del percorrere le
orme elleniche in particolare. Perché la costante matematica phi, armonia e archè (ἀρχή) delle cose, non è solo in tutta l’arte greca ma anche in ogni sillaba
della sua lingua, in ogni respiro della sua inarrivabile poesia. Ed
è proprio ciò in cui consiste la nostra proporzione aurea, quella che ci guida
a cogliere la correlazione tra i fenomeni. La mia di sicuro mi è venuta dalle
mani di queste immortali cadenze, oltre che dai monumenti della città in cui ho avuto la
sfacciata fortuna di nascere – dove non considero un caso l’aver incontrato
alcuni dei maggiori maestri della cultura greca – due poli attrattivi potentissimi,
accumulatori cosmici di energia e bellezza.
(Di
Claudia Ciardi)
Di pianto, beffa e celebrazione - Il multiforme volto della lirica arcaica
Di
Alessia Rovina
Per
la rubrica «L’Argonauta»
Il
panorama letterario della Grecità di ieri è, come sappiamo e come mai ci
stancheremo di ripetere, immenso. Ed immensa parte è quella che resta a noi
sconosciuta, arto mutilo e chissà quanto valido. Di sicuro, preziosissimo,
proprio come ogni sussurro che qualsiasi civiltà antica ci fa dono di
restituire. Potrebbe sembrare un cliché per i non addetti ai lavori, e rischia
di diventare una banalità per chi in questo patrimonio vive immerso, talvolta
sopraffatto dalla mole della ricerca e della fatica, ma è davvero bene non
scordarsi che il mondo greco ci ha lasciato in eredità un patrimonio
caratterizzato da una varietas tale da andare ad intercettare una
quantità straordinaria di informazioni e conoscenze, che necessitano di
precisione chirurgica per una ricostruzione che sia il più possibile coerente,
contestualizzata e responsabile. Ma anche, mi permetto di aggiungere sulla
scorta dei Maestri che ho la fortuna di ascoltare quotidianamente in
Università, di una buona dose di serena accettazione, che va a curare le
inevitabili mancanze, le frammentarietà e quell’irresistibile, piccolo scarto
ermeneutico che resta, sempre e comunque, tra noi ed ogni opera di ciascun
passato prodotta da qualsiasi cultura, indipendentemente dalla bibliografia
prodotta, e che costituisce quel seducente fascino che ci richiede
continuamente di tornare e ritornare a scrutare le orme del nostro ieri. Questo
è dunque l’invito ed il significato di fondo: la necessità non ridondante di
tornare, sempre e comunque, a studiare, di nuovo. Talvolta, da capo.
Non
sfugge da questa mia considerazione iniziale il panorama che la tradizione ci
riporta sotto il nome di lirica, definita poi nella prassi scolastica come
lirica greca arcaica. Una denominazione davvero vaga e ampia, la quale va ad
abbracciare non solo un numero considerevole di autori, ma anche una copia di
caratteristiche metriche, stilistiche e compositive che giustifica i successivi
tentativi di raggruppamento contemporaneo secondo le categorie di genere ed
esecuzione. Ecco così che i moderni manuali di storia della letteratura greca
ci consegnano una suddivisione tra poeti giambici ed elegiaci e melici monodici
e corali.
La
prassi filologica alessandrina, d’altro canto, concepiva all’interno del vario
magma di autori definiti come λυρικοί, [NOTA 1] una suddivisone monografica per
singolo poeta a sua volta distribuita in differenti libri [NOTA 2] che
raccoglievano i componimenti giunti.
La
lirica arcaica vede la sua nascita in un momento particolare e di transizione
umana, sociale, politica e culturale. La stagione dei grandi cicli epici
arcaici, troneggiati dall’insuperabile eccellenza costituita da Omero [NOTA 3],
prodotto della cultura e dell’organizzazione sociopolitica propria del momento
conosciuto come Dark Ages, viene affiancata dalla lirica, che, pur avendo
conosciuto manifestazioni preletterarie, si sviluppa come espressione di una
grecità che conosce l’organizzazione in πόλεις all’interno delle quali, tra
l’VIII ed il VI secolo, si consumano aspre lotte per il potere, profonde
rivoluzioni politiche e grandi spostamenti di masse umane. I nuovi cantori sono
gli esponenti delle classi sociali più in vista, impegnati nella lotta per
l’espansione o per il dominio, conoscitori della lancia e dei doni delle Muse [NOTA
4]. Di nuovo, cantori saranno aristocratici in lotta per la propria supremazia
in un’accesissima guerriglia tra consorterie, o altolocate istruttrici di
giovani fanciulle. Infine, i poeti saranno artisti di corti, al servizio di
tiranni che diverranno i nuovi finanziatori e committenti dei versi poetici. Le
tematiche trattate sono le più varie e sono indubbiamente influenzate dal
genere scelto. Se l’elegia conoscerà una inclinazione sapienziale, esortativa o
mitico-narrativa non esente dal gusto per la γνώμη, il giambo avrà come oggetto
principale l’invettiva, l’irrisione di determinati individui e classi sociali,
la burla dotta. E così la lirica corale, irrimediabilmente collegata
all’occasione compositiva, come ad esempio gli agoni sportivi, i giochi
olimpici, oppure i momenti topici della vita di una giovane, come le nozze.
La
collocazione temporale in cui questi versi vennero alla luce e soprattutto la
nuova facies assunta decretò, oltre ad un’immensa fortuna della lirica greca e
la garanzia di una eco che giunge sino a noi, anche qualche sventura, dovuta
soprattutto a difficoltà ermeneutiche, filologiche e critiche.
Anzitutto,
lo stato dei testi e dei testimoni (diretti ed indiretti) che trasmettono a noi
questi componimenti sono spesso mutili e parziali, cosicché la frammentarietà è
spesso un ineludibile caveat con il quale il filologo deve fare i conti.
Tuttavia, nel mentre che si mantiene come faro il rispetto del testo che si ha
dinnanzi, non sono impossibili stravolgimenti o soccorsi che intervengono da
nuove fortunose scoperte, specialmente papiracee: destarono scalpore, tra gli
altri, rinvenimenti come il P. Oxy. 4708, portatore di un ampio brano elegiaco
di Archiloco – conosciuto come L’elegia di Telefo – in grado di
ridimensionare la nostra concezione dello stile poetico del πρῶτος εὑρετής del
giambo, oppure la pubblicazione del P. Mil. Vogl. VIII 309, frammento di
un’antologia contenente un consistente numero di epigrammi di Posidippo di
Pella, del quale pure si aveva una conoscenza limitata. Che dire poi di
pubblicazioni fondamentali come quelle di alcuni commentari alcaici in grado di
restituirci nuove soluzioni – e inevitabilmente nuovi crucci! – come nel caso
di P. Oxy. 3711, o ancora, per tornare al Pario, il rinvenimento dei frammenti
papiracei di P. Oxy. VI 854 in grado di integrare il fr. 4 W.2 Guai infine a
passare sotto silenzio i papiri che la critica conosce come “la nuova Saffo” – P.
Köln 21351 – e “la nuovissima Saffo” – P. Saffo Obbink: di nuovo, integrazioni
ed inevitabili nuove sfide. Pur non escludendo alcuna possibilità di rivalsa
della tradizione, lo stato dei testi e dei testimoni pone sempre cautele che
non vanno assolutamente ignorate, e sempre più in questa ottica sta lavorando
la filologia contemporanea. [NOTA 5]
In
secondo luogo, una innovazione che costituisce una grande complicazione è la
presenza della menzione di un io poetico o io lirico. Sovente, questo parlare
in prima persona, rivolgendo inviti, dispensando sentenze o ricordando
determinate esperienze, ha creato numerosi fraintendimenti già tra gli antichi.
Un procedimento assolutamente in uso presso questi nostri predecessori era la
redazione di biografie e/o commenti di determinate figure politiche e
letterarie, e per questi ultimi spesso le notizie erano attinte direttamente
dalle opere poetiche secondo un procedimento autoschediastico, di modo che ciò
che ne scaturivano erano tradizioni fiabesche, ingiuriose e in alcuni punti
assolutamente non fededegne. Coloro che ne pagavano le spese erano i cantori e
le cantrici che si vedevano o innalzati a livelli sovrumani o, più spesso,
abbassati a livelli popolareschi e volgari. Due casi, anche solo sommariamente,
mi sentirei in dovere di citare, dato l’inevitabile stupore in grado di
generare e la eco avuta, in grado di risuonare sino a pochi decenni fa.
Il
primo è il fr. 5 W.2 di Archiloco. Si tratta di un turning point all’interno
della produzione arcaica. L’elegia si apre con la menzione quanto mai generica
di un Saio che si gloria di uno scudo ellenico ritrovato presso un cespuglio,
un’arma che apprendiamo essere di bellezza e precisione mitica, ma che ha
conosciuto un altro possessore: il poeta stesso. Egli si ritrovò costretto ad
abbandonare l’ingombrante oggetto contro il suo volere per avere in cambio un
altro bene: salvare la propria vita. Di fronte a questa impegnativa scelta/bilancio/paragone,
che cosa può importare di quello scudo? Alla malora! Il poeta se ne potrà
benissimo procurare un altro, parimenti valido e bello, magari in un’altra
occasione bellica.
Ora,
quanto ad un nostro contemporaneo parrebbe una scelta più che mai ragionevole e
assennata, non mancò di scandalizzare gli antichi, destinando Archiloco ad una
dura condanna della quale si vedono i primi segni di assoluzione dall’accusa di
vigliaccheria nell’Ottocento, ad opera dello Schneidewin.
Entrando
nel dettaglio di questa elegia notiamo che la tradizione testuale è
interessata, in fase imperiale e tardo-antica, da notevole discordia. La
difformità delle lezioni presentate nella citazione del frammento da parte dei
testimoni antichi va da risolvibili varianti grammaticali ad aggiunte
sicuramente comprensibili e che restituiscono un senso compiuto, ma che sono
irrisolvibili glosse, spiegazioni aggiuntive e scivolamenti lemmatici in cui
gli autori hanno spesso profuso le proprie opinioni, nella maggior parte dei casi
mai troppo lusinghiere nei confronti del Pario che si rende colpevole di un
disonore: l’abbandono delle armi, presumibilmente lasciate per agevolare la
fuga dal campo di battaglia. Il giudizio nato in antico dalla lettura di questo
frammento fu di pressoché unanime sdegno e causa della nomea di Archiloco di
vile e codardo, forse motivo all’origine di una tradizione sicuramente
particolare e davanti alla quale giova sospendere il giudizio, riferitaci da
Plutarco, la quale riporterebbe di una condanna del poeta da parte di Sparta a
causa del comportamento disonorevole da questi mantenuto in battaglia, quando è
ben nota la rigorosa etica marziale professata dalla polis laconica [NOTA 6].
La situazione non è agevolata nemmeno dalla citazione da parte di Aristofane all’interno
di una serrata sticomitia di gusto squisitamente letterario, nella quale di
nuovo l’abbandono dello scudo viene ascritto alla vergogna provocata ai
genitori [NOTA 7]. Non tutte le letture però vengono per nuocere. Originale, in
particolare, fu l’interpretazione che la tradizione neoplatonica dette del
frammento in questione. Olimpiodoro, Proclo, Elia e lo Pseudo-Elia difatti
lodarono Archiloco interpretando il getto dello scudo come l’atto di
liberazione dal fardello del corpo che imprigiona l’anima.
Il
nostro Archiloco non è stato il solo sventurato, in questa lotta della
tradizione testuale di ieri e di oggi. Un altro collega, giambografo, fu
oggetto di malintesi sino al secolo scorso, e solo un’attentissima rilettura
critica e scientifica, portata avanti peraltro con vigore anche dall’illustre
filologo italiano Enzo Degani, riuscì gradualmente a riportare la lente
d’ingrandimento sulle sue qualità poetiche nonché sulla sua indiscutibile
abilità letteraria e la raffinatezza lessicale. Parliamo di Ipponatte, non il
disperato straccione e pitocco che parte della critica ha tratteggiato.
La
lirica greca ha da sempre un ruolo estremamente rilevante all’interno del
dibattito scientifico, e senza dubbio è uno degli aspetti delle lettere
classiche che più si presta all’apprezzamento unanime e, proprio per questo,
presta il fianco ad atteggiamenti acritici e talvolta pure svenevoli. Tuttavia,
crediamo fermamente che la continua ricerca e il costante lavoro per la
migliore ricostruzione dei contesti compositivi e la lettura critica di questi
cantori antichi nulla tolgano al loro indiscutibile fascino, ma anzi continuino
ad accompagnarci in quella che comunque sarà sempre una relazione in grado di
suscitare pianto, scherno e magnificenza, oltre che inevitabili riflessioni sui
significati che questi versi trasmettono a ciascuno di noi.
(Di Alessia Rovina, classicista, ricercatrice, studiosa di teatro)
Note
e suggerimenti bibliografici a cura di Alessia Rovina:
Nota 1: Si tratta del noto “canone dei nove lirici”, compilato in accordo con la costituzione del restante Canone alessandrino ad opera dei filologi e dei grammatici della Biblioteca di Alessandria all’altezza del III sec. a.C. Esso comprendeva Alceo, Saffo, Anacreonte, Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, Bacchilide, Pindaro. Non mancavano naturalmente i canoni anche per gli altri generi poetici.
Nota 2: Con il termine “libri” qui si designa naturalmente la prassi editoriale che divideva le opere, non il supporto cartaceo rilegato che ora conosciamo sotto questo nome. La trascrizione delle edizioni in età alessandrina avveniva su rotoli papiracei.
Nota 3: La produzione letteraria da sempre straordinaria e giunta sotto il nome di Omero costituisce l’immancabile modello stilistico ed espressivo di ogni stagione della grecità, dall’età antica alla contemporaneità, passando per i secoli dell’Impero Bizantino che non hanno certo cessato l’attività ermeneutica e filologica sui due grandi poemi mitici. Iliade ed Odissea non sfuggivano all’erudita penna dei patriarchi e dei monaci.
Nota 4: Arch., fr. 1 W.²
Nota 5: La filologia è disciplina assolutamente delicata. Nonostante ciò, essa è sotto la guida di coloro che la praticano, e con gli anni mutano inevitabilmente gli indirizzi di lavoro. Se nell’Ottocento non mancava una spesso eccessiva smania di intervento sul testo, ora si predilige una linea più rispettosa e cauta.
Nota 6: Plut., Inst. Lac. 34, 239b.
Nota
7: Ar., Pax, 1298-1301. Si noti come mai l’operazione aristofanea del
riuso letterario sia scevra da raffinatezza stilistica e conoscenza dotta.
*
Esistono assai numerose monografie ed antologie sui lirici greci, sia in
versione tascabile ed economica sia in edizione critica. Per l’una e per
l’altra categoria ottime sono le edizioni della BUR e i volumi editi dalla
Fondazione Lorenzo Valla.
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