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29 gennaio 2013

Giorni della memoria - Tage der Erinnerung


«Nell'Uomo di Kiev (1960) dell'ebreo americano Bernard Malamud, Yakov Bok, il misero tuttofare in cerca di fortuna che lascia lo shtetl, trova nel mondo, a Kiev, la trappola esistenziale e i patimenti più atroci. Appena partito, Yakov si trova inghiottito nel nulla, perduto in un'invalicabile lontananza kafkiana e sommerso da nevicate immaginarie. "Se fossi rimasto nello shtetl...": nel carcere, nella fame, nelle torture ritorna come un fantasma il dubbioso interrogativo. "Se fossi rimasto nello shtetl non sarebbe mai successo... Una volta che te ne vai, sei fuori all'aperto: piove e nevica. Nevica storia. Tutti siamo nella storia, questo è sicuro, ma alcuni ci sono dentro di più degli altri. Gli ebrei, più della maggioranza. Se nevica, non tutti sono fuori a bagnarsi ... [...] Con meno storia in giro si potrebbe passar via, o attraversarla: sembra pioggia, ma c'è il sole"».
Claudio Magris, Lontano da dove

IL DUPLICE TRAMONTO
Lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale

Il Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale e la Biblioteca Austriaca organizzano a Trento, mercoledì 30 gennaio, alle ore 17,30, nella Sala degli affreschi della Biblioteca comunale (Via Roma 55), l’incontro-dibattito Il duplice tramonto. Lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale. Interviene Fernando Orlandi. Introduce Massimo Libardi.


Con l’incontro-dibattito Il duplice tramonto. Lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale prosegue il ciclo di incontri “Narrare la storia. Il Novecento nella letteratura tedesca”, organizzato dal Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale con la collaborazione della Biblioteca Austriaca.


Gli ebrei dell’est, gli Ostjuden, incarnavano il carattere transnazionale, la disorganicità e l’irrequietezza che definiva la Mitteleuropa rispetto agli stati nazionali. Erano inoltre gli unici a riconoscere in una lingua, lo yiddish, e non in un territorio, l’elemento fondamentale della loro identità. Proprio questo rapporto tra comunità e lingua riveste una notevole importanza nel definire la complessa identità dello spazio mitteleuropeo. Tra Otto e Novecento il tedesco si afferma come una sorta di lingua franca delle molteplici comunità, ben oltre i confini dello stesso impero asburgico e di quelli del Reich tedesco. Non si sostituisce alle lingue nazionali, ma convive accanto a lingue e culture diverse: Elias Canetti e Gregor von Rezzori hanno dato un mirabile quadro di questo intreccio. Il tedesco inoltre costituiva la lingua colta praticata in molte comunità ebraiche dalla Polonia alla Boemia, dalla Bulgaria alla Romania e per un tragico paradosso l’Olocausto inferse un colpo mortale a questa vitalità transnazionale del tedesco.


Per molti intellettuali ebrei era infatti proprio la lingua tedesca a rappresentare il Mutterland, neologismo coniato da Rose Ausländer come fusione di Muttersprache e Vaterland. Di sé Elias Canetti scrisse “io sono solo un ospite della lingua tedesca”, e nel primo volume della sua autobiografia narra come nella natale Rustschuk, cittadina bulgara sul Danubio oggi Ruse, si potessero ascoltare nel corso della giornata “sette o otto lingue” e di come lui abbia scelto il tedesco come lingua in cui abitare. Anche dopo il 1945 Canetti scriverà: “La lingua del mio spirito continuerà a essere il tedesco, e precisamente perché sono ebreo”. Sono queste, parole che se esprimono il profondo legame degli ebrei con la lingua e la cultura tedesca dall’altra parte indicano una lacerazione che non sarà più ricomposta, quella per cui la propria lingua madre è diventata la lingua degli assassini.


Lo sterminio degli ebrei cancellò questo mondo. L’ebraismo orientale, e più in generale gli ebrei, sono stati spesso accusati di passività per non avere fatto resistenza all’internamento nei ghetti. Ma episodi di resistenza si sono avuti, e la rivolta del Ghetto di Varsavia è uno dei momenti più alti di questa resistenza. Uno dei libri più inquietanti su questa rivolta e lo sterminio degli ebrei è Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzhak Katzenelson, davanti al quale, ha scritto Primo Levi, “ogni lettore non può che arrestarsi turbato e reverente”. Protetto e nascosto da alcuni amici, Katzenelson, assieme al figlio maggiore, grazie al passaporto straniero di cui era entrato in possesso, nel maggio 1943 viene trasferito da Varsavia alla residenza coatta di Vittel, in Francia. La moglie e gli altri due figli invece erano già stati deportati a Treblinka. In Francia Katzenelson tiene un diario, ma soprattutto scrive Il canto, monumento funebre agli ebrei d’Europa. Per precauzione, come peraltro faceva chi cercava di preservare la memoria degli avvenimenti, nasconde i manoscritti in contenitori di latta, poi sepolti.


Sulle deportazioni operate dai nazisti molto conosciamo, al punto che lo stesso termine deportazione è stato associato pressoché esclusivamente all’invio nei campi di concentramento e in quelli di sterminio del Terzo Reich. Ma mentre la Seconda guerra mondiale stava terminando e soprattutto dopo la sua cessazione, ad essere vittime furono le popolazioni germanofone dell’Europa centro-orientale. Non si trattava di nazisti, ma indiscriminatamente vennero colpiti tutti i Volksdeutsche, popolazioni germanofone che si erano insediate in quei territori da secoli, a partire dalla Ostsiedlung, la colonizzazione della parte orientale dell’Europa, attuata dai popoli germanici nel medioevo: una grande migrazione, nel corso della quale i tedeschi fondarono insediamenti nelle regioni meno popolate dell’Europa centro-orientale e orientale. Nel 1945 saranno vittime di una grande pulizia etnica, deportazioni accompagnate da ogni sorta di brutalità (rapine, stupri, omicidi), un esodo forzato nel corso del quale perirono milioni di persone.


Da Vittel, dove forse sarebbe riuscito a espatriare, Katzenelson viene deportato ad Auschwitz, e qui troverà la morte. Terminata la guerra, Miriam Novitch, che lo aveva aiutato a nascondere i suoi scritti, li disseppellisce e così Il canto viene subito pubblicato: “Ahimé, non c’è più nessuno... c’era un popolo, era non c’è più... c’era un popolo... e ora è scomparso!”. La fine della Seconda guerra mondiale segna così un duplice tramonto: quello delle culture degli Ostjuden e dei Volksdeutsche: “O sciocco goy, hai sparato all’ebreo ma la pallottola ha colpito anche te”.

(di Fernando Orlandi e Massimo Libardi)


 

Walter Benjamin Memorial

27 gennaio 2013

Literarisches Berlin


La voce della Berlino letteraria nel raffinato progetto editoriale della Jena 1800
Literarische Stadtpläne
Literarische Führungen auf Hiddensee
in Jena/Weimar und Ahrenshoop


Wassily Kandinsky - Composizione in bianco

From the book:
«La Berlino letteraria è un campo di studi piuttosto sterminato, e diviene tanto più sterminato, quanto più ci se ne occupa. Dall’epoca dei ‘lumi’ Berlino è un centro di vita letteraria in Germania, una città legata all’editoria e al commercio librario, che attrae autori. Un Lessico di Berlino apparso nel 1806 registra 250 scrittori di ogni ambito, tra cui 36 “bellettristi” e 6 autrici, e anche 23 stampatori, 34 librerie e 4 antiquari. Centonovanta anni dopo un lessico a cura dell’Accademia delle Arti (Berlino. Un luogo per scrivere, 1996) menziona in totale 347 scrittrici e scrittori viventi. Il più vasto inventario compilato finora sulla storia letteraria berlinese e la sua topografia, Guida letteraria di Berlino (1998) del mio amico Fred Oberhauser, tiene conto di oltre 700 scrittori (la maggior parte defunti).
Si voleva dunque dare un’immagine ‘esaustiva’ della vita letteraria nel passato e nel presente, a questo punto ci sarebbero senz’altro da approfondire le biografie e le opere di circa mille autori.
Quanto alla rappresentazione cartografica, sarebbe da tener conto di una molteplicità di luoghi di lavoro, svago, abitazione: si pensi che uno scrittore come Fontane nell’arco di 55 anni ha abitato all’incirca una dozzina di case, delle quali soltanto una è ancora conservata, per non parlare delle innumerevoli ambientazioni letterarie dei suoi romanzi, che si potevano raffigurare sulla carta – un’ ‘ampia materia’.»
Das literarische Berlin ist ein ziemlich unüberschaubares Feld, und es wird um so unüberschaubarer, je lager man sich damit befaßt. Seit der Zeit der Aufklärung ist Berlin ein Zentrum des literarischen Lebens in Deutschland, eine Verlags- und Buchhandelstadt, die Autoren anlockt. Ein 1806 erschienenes Lexicon von Berlin verzeichnet bereits 250 Schriftsteller aller Sachgebiete, darunter 36 “Belletristen” und 6 Autorinnen, sowie 23 Buchdrucker, 34 Buchhandlungen und 4 Antiquare. 190 Jahre spatter nennt ein von der Akademie der Künste herausgegebenes Lexikon (Berlin – ein Ort zum Schreiben, 1996) insgesamt 347 lebende belletristische Autorinnen und Autoren. Die bisher umfangreichste Bestandaufnahme zur Berliner Literaturgeschichte und ihrer Topographie, der Literarische Führer Berlin (1998) meines Freundes Fred Oberhauser, berücksichtigt über 700 (meinst abgeschiedene) Schriftsteller. Wollte man also ein umfassendes Bild des literarischen Lebens in Vergangenheit und Gegenwart geben, täte man gut daran, sich gründlich mit den Biographien und den Werken von vielleicht 1000 Autoren vertraut zu machen. Bei der kartographischen Darstellung ware ein Vielfaches an Arbeits-, Vergnügungs-, und Wohnstätten zu berücksichtigen: So hat ein Autor wie Fontane in 55 Jahren rund ein Dutzend Häuser bewohnt, von denen nur noch eines erhalten ist, ganz zu schweigen von den zahllosen literarischen Schauplätzen seiner Romane, die sich im Stadtgrundriß darstellen ließen – ein weites Feld.  

Storia della ‘Pharus’

«Pharus-Pläne esiste dal 1902. Il nome richiama alla memoria una delle sette meraviglie del mondo, il faro di Alessandria, sull’isola di Pharos, che ai marinai indicava la rotta verso il porto sicuro. Il fondatore Cornelius Loewe fece progettare l’emblema dal grafico e designer Ludwig Sütterlin.
Come il faro mostrava la meta ai marinai, così le mappe ‘Pharus’ si prefiggono di scortare con sicurezza il visitatore o l’abitante di una città al suo luogo di destinazione. Abbiamo mantenuto queste idee, insieme a molto amore per il dettaglio, fino a oggi. Già all’Esposizione urbanistica tedesca di Dresda la giovane casa editrice ottenne la medaglia d’argento per le sue «carte eseguite tecnicamente in modo eccellente con appropriate innovazioni funzionali a una chiara consultazione e a un rapido sguardo d’insieme». Anche il Kaiser e la regina inglese lodarono le carte con parole fiorite.
La casa editrice si sviluppò velocemente e nel 1910 prese parte all’Esposizione mondiale di Bruxelles, dove ricevette la medaglia di bronzo. La Pharus in Germania aveva già una quota del 20 % nella produzione delle mappe cittadine. Vi erano filiali a Parigi e Londra. Molte metropoli europee vennero cartografate dalla Pharus. Il catalogo comprendeva più di mille città. C’erano mappe del Cairo, del canale di Panama ma sono apparse anche carte dei cibi e del cinema. Le edizioni vennero cantate nei Lieder e l’immagine della Pharus-Plan divenne sinonimo in generale delle mappe cittadine.
Negli anni Venti Pharus ascese al rango di più grande editrice europea delle piante urbane. Mantenne questa posizione fino al 1945. Ancora nel 1954 uscivano mappe di città, nel momento in cui era l’ultima editrice privata della DDR, finché non ottenne più alcuna distribuzione della carta e la produzione dovette cessare.
Nello stesso anno Pharus trasferì la propria sede da Prenzlauer Berg, Berlino-est, nel settore ovest, a Charlottenburg. L’attività della casa editrice restò sospesa fino al 1972. In primo luogo uscirono negli anni Ottanta nuove tirature di carte e nel 1991 le prime mappe aggiornate. Da allora furono pubblicate con continuità piante di città, guide per il tempo libero e per le gite sull’acqua. Il baricentro si trova qui, a Berlino e nel Brandeburgo».
(Rolf Bernstegel)
Zur Geschichte der Pharus-Pläne

Pharus-Pläne gibt es seit 1902. Der Name erinnert an eines der sieben Weltwunder, den Leuchtturm vor Alexandria, auf der Insel Pharos, der den Seefahren ihren Weg in den sicheren Hafen wies. Das Emblem ließ der Firmengründer Cornelius Loewe von dem Grafiker und Schriftschöpfer Ludwig Sütterlin entwerfen. Ähnlich wie der Leuchtturm den Seefahren das Ziel vor Augen führte, sollen Pharus-Pläne den Gast oder den Bewohner einer Stadt sicher an seinen Bestimmungsort geleiten. Diesen Gedanken haben wir mit viel Liebe zum Detail bis heute beibehalten.
Bereits 1903 zur Deutschen Städte-Ausstellung in Dresden erhielt der junge Verlag für seine “technisch vorzüglich ausgeführten Pläne mit zweckmäßigen, der klaren Anschaung und raschen Übersicht dienenden Neuerungen”, die Silbermedaille. Auch der deutsche Kaiser und der englische König lobten die Pläne in blumigen Worten.
Der Verlag entwickelte sich schnell und nahm 1910 an der Weltausstellung in Brüssel teil, woe r die Bronzemedaille erhielt. In Deutschland hatte Pharus bereits einen Anteil von 20% an der Stadtplanproduktion. Es gab Niederlassungen in Paris und London. Viele europäische Metropolen wurden von Pharus kartographiert. Das Sortiment umfasste mehr als 1000 Städte. Es gab Pläne von Kairo, vom Panama-Kanal, aber auch Gerichts- und Kino-pläne sind erschienen. Der Verlag wurde in Liedern besungen und der Begriff Pharus-Plan wurde zum Synonym für Stadtpläne überhaupt.
In den 20er Jahren war Pharus zum größten europäischen Stadtplanverlag aufgestiegen.
Diese Position hielt er bis 1945. Noch 1954 erschienen beim damals letzten privaten Verlag in der DDR weiterhin Stadtpläne, bis er keine Papierzuteilung mehr erhielt und die Produktion einstellen mußte. Im gleichen Jahr verlegte Pharus seinen Sitz vom Prenzlauer Berg im Ostsektor Berlins in den Westen, nach Charlottenburg. Die Verlagstätigkeit ruhte bis 1972. Erst in den 80er Jahern erschienen Neuauflagen von alten Karten und 1991 die ersten aktuellen Karten. Seither warden fortlaufend Stadtpläne, Freizeitpläne und Wasserwanderpläne hergestellt. Der Schwerpunkt liegt hier bei Berlin und Brandenburg.





Der Dichter und Denker Stadtplan

Literarisches Berlin
Autor: Michael Bienert
Idee und Konzept: Ute Fritsch
Jena 1800 Verlag - Literarische Spaziergänge

ISBN 978-3931911
12,80

Die offizielle Webseite

* Pharus-Plan

Otto-Suhr-Allee 114
10585 Berlin


Si veda anche:
Progetto Europa. La metropoli come volontà e rappresentazione.
(di/ von Claudia Ciardi)

From the book

Quasi impossibile non avvertire una differenza tonale tra la Berlino bucolica e un po’ sorniona vissuta da Theodor Fontane, e la ‘fabbrica vorticante’ con il sogno del moto perpetuo attaccato alle caviglie, che di lì a poco avrebbe aperto i battenti in città, accendendo l’immaginazione artistica di quanti fatalmente ne sarebbero stati attratti.
Eppure l’ombra della metropoli, questa bizzarra figura del mito, questo meccanismo primitivo ad alto voltaggio, già s’insinua nelle maglie lievissime della scrittura di Fontane e in certe sue ironie stralunate e soffuse, lui di antenati ugonotti, berlinese di adozione, che ha dedicato ritratti commossi alla capitale prussiana, timida e piccola allora, ma col cuore pieno di palpiti per un destino di grandezza disegnato sulla pelle.
L’abito che l’arte di Fontane le cuce addosso ha le tinte selvatiche e crepuscolari degli amati laghi della marca esaltati in limpide cartoline letterarie, un paesaggio che Walter Benjamin, rendendo un tributo radiofonico al grande narratore, annunciava «fresco come una tovaglia appena uscita di bucato». Su questa quinta si scorgono come in filigrana sentieri e movenze, che lentamente convergono verso l’identità della nuova Berlino di ‘pietra’ e ‘parole’. Proprio da qui infatti comincia a prendere forma un limes entro il quale attecchirà un grande fermento culturale che significherà profonda rottura contro le asfissianti chiusure del polveroso ordinamento guglielmino; da qui muoveranno i loro passi memorabili flâneurs come Franz Hessel e Arthur Eloesser, Ludwig Meidner e Jakob van Hoddis, che attorno all’arte di camminare per Berlino inaugureranno e metteranno a fuoco buona parte del loro percorso creativo. Così scriveva Hans Flesch-Brunningen, esponente dell’espressionismo austriaco: «Correva l’anno 1913. Bisognava sapere quello che Berlino significava per noi, allora, a Vienna. Semplicemente tutto. Berlino era per noi maledetta, corrotta, metropolitana, politica, pittorica (la città per i pittori); insomma, gorgo infernale e paradiso insieme. Passeggiavo con uno dei miei amici oltre la collina della Gloriette dietro Vienna. Era notte. Verso nord il cielo era incandescente. “Lì è Berlino -, dissi. – Si dovrebbe andare a Berlino”, dissi».


Pubblicato su Ua 3p
Università aperta - terza pagina
anno XXIII
gennaio 2013 n.1
ISSN 1720-3643

Aldo Frosini - I bianchi
In ricordo di Aldo

22 gennaio 2013

genius loci


genius loci


Estate?
di Franz Hessel
Traduzione di Enrico Venturelli

….Quindi fece cenno alla ragazza, che aspettava stupita sulla soglia con lo zaino in mano, di posarlo sul pavimento. «Non sono affatto fuori di me» dichiarò Eduard «e se il caldo ha provocato in me qualche mutamento, beh, allora mi ha reso chiaroveggente. Pensa, oggi ho fatto un sogno a occhi aperti. Ero a letto, stanco, nel dormiveglia pensavo ancora ai tuoi e ai miei progetti di viaggio, a quelli della gente e all’ossessione che tutti hanno di viaggiare; in quel momento, beh…sì…in quel momento ho sentito una voce!».
«Oddio!».
«Proprio così: una voce, la voce della buona, vecchia Berlino».
«E che cosa ha detto la dea? Che aspetto aveva?».
«Non aveva nessun aspetto, si sentiva solo la sua voce. Diceva: “Andate pure, raggiungete il vostro ozono, scuotete la mia polvere dalle vostre scarpe, immagazzinate aria di montagna, riposatevi e oziate al mare, lasciate che le vostre fidanzate si abbronzino, fate incetta di curiosità nel corso del vostro viaggio, andate e restate via per un po’ di tempo. Io, intanto, mi prenderò un po’ di riposo da voi. Avrò la mia estate tranquilla e pervasa di ronzii. Mi crogiolerò al sole. Le mie pietre, per il resto dell’anno avvolte dall’umidità e dal gelo, assorbiranno ed emaneranno calore, si dilateranno oltre i loro limiti e prenderanno vita. Verranno le mattine di domenica per le mie strade: allora avrò spedito nei dintorni, nel verde, anche la povera gente che era rimasta a casa. Allora il mio selciato avrà una tregua da tutti quei passi pesanti e da quei piedi che inciampano continuamente. Si distenderà in lunghe strisce non più calpestate da nessuno. Allora in me, la più piatta delle città, silenziosamente si formeranno dei rigonfiamenti, simili a un ginocchio o a un’anca, e respirerò sollevandomi e abbassandomi. Dietro le persiane calate delle abitazioni e le saracinesche degli stabilimenti chiusi, nelle grotte vuote delle ninfe nei vecchi quartieri di svago e in quelli nuovi, soprattutto di giorno, avrò finalmente il mio sonno da bella addormentata. Solo per me e per il pallidissimo bambino del portiere, che ora può grattare tranquillamente la sabbia fra le pietre, le case che danno sui miei cortili diventeranno sinistri castelli e ariosi palazzi. E i tre gradini dell’entrata laterale diventeranno l’ingresso al paradiso. I cantieri si trasformeranno in rovine assolate o in miniere che languiscono per uno sciopero pacifico. Lungo le mie ridicole facciate del periodo del cattivo gusto scivola la polvere delle pietre che si sbriciolano, con allusiva lentezza, come la sabbia in una clessidra. Le statuarie bambole sui miei ponti, agli angoli delle strade e nelle piazze, possono sgretolarsi indisturbate (come vecchi cavalli a dondolo) e divenire opere mutilate, finché voi non tornerete a ripararle. Se solo facesse veramente caldo! Allora le mie grinze luccicherebbero come una ragnatela al sole, le mie grinze di pietra, e io diventerei rispettabile come una vecchia signora. Da tutti i batteri che voi evitate e dalle malattie della pietra esala una sostanza che si estende come il verderame sui miei fianchi e io, Berlino, acquisisco carattere! Io, città grande, attendo con gioia il tempo in cui mi svuoterò degli uomini e mi riempirò di me stessa. Molte di queste estati faranno forse di me una grande città”».


Frans Masereel, tavola d'apertura de La Città

Frans Masereel, erste Zeichnung von Der Stadt

L’anima dei luoghi
di Attilio Brilli

Docente di letteratura
anglo-americana presso l’università di Siena,
esperto di letteratura di viaggio

«Etruria Oggi»
Anno XXX
dicembre 2012
numero 84

«Gli antichi lo chiamavano genius loci, intendendo con questo termine la divinità che protegge un luogo, una campagna o una città, che lo anima e ne determina l’inconfondibile identità. Esso deriva dal più generale genius, o spirito buono o cattivo, che, secondo la tradizione degli antichi, assiste ogni uomo dalla nascita alla morte ispirandone l’indole e le azioni. Nell’Eneide, poema di fondazione e grande compendio della cultura classica, assistiamo all’apparizione della divinità tutelare del luogo. Veleggiando verso l’Italia, Enea è costretto da una tempesta ad approdare in un porto della Sicilia dove è accolto dal troiano Aceste. Mentre s’appresta a celebrare sacrifici in onore del padre, morto nell’isola un anno prima, vede sbucare un serpente da dietro la pila di sassi in forma d’altare. Dinanzi a questa vista Enea riprende le onoranze al padre “con maggor devozione”, chiedendosi se il serpente sia un emissario del genitore o piuttosto il nume tutelare del luogo. Non meno significativa, anche da un punto di vista rituale, è l’altra occasione in cui Virgilio si riferisce allo spirito del luogo. Non appena giunge in terra laziale, alle foci del Tevere, fatidico approdo della storia di un popolo, Enea si corona le tempie d’un ramo frondoso e “prega lo spirito del luogo”. Era vitale infatti per gli antichi venire a patti con il genius della località nella quale si sarebbe svolta, seppure in via temporanea, la loro esistenza. In una cultura di tipo animistico, tale rapporto emana un’influenza decisiva, determina la scelta del sito e, nel sito, la disposizione degli edifici e il loro rilievo simbolico e rituale.»

[…]

«Una volta spogliati dei miti, i luoghi perdono l’anima per sempre, perché tornano a partecipare della mera natura delle cose che, prese in sé, come diceva Coleridge, sono “essenzialmente fisse e inanimate”. Tuttavia, inseguendo il destino delle antiche divinità nella civiltà occidentale, più che di scomparsa dovremmo parlare della loro dolorosa sopravvivenza, della trasformazione in creature informi, vagamente inquietanti e fuggitive. Ma come e perché è avvenuto tutto questo? E come è possibile cogliere simili, elusive presenze in un luogo concreto e reale, in un paesaggio o in una città di cui si percorrono con mezzi meccanici le strade?
A questi punto ci viene in soccorso uno scritto singolare, Gli dei in esilio (1854), in cui Heine narra come il trionfo del cristianesimo abbia bandito le divinità pagane e le abbia costrette a un’esistenza clandestina, sfuggente, tenebrosa e a riapparire nel mondo sotto mentite spoglie. La fede popolare ha attribuito a queste esiliate divinità, sostiene Heine, un’esistenza reale, ma maledetta. In questo essa concordava con la dottrina della Chiesa che non le considerava affatto fallaci chimere, come sostenevano i filosofi, bensì degli spiriti malvagi capaci di ostentare, nella loro deformità, i segni della condanna di Cristo. Questo vuol dire che le divinità pagane ritornano nei luoghi da cui furono bandite portandosi appresso l’eco del loro destino e assumendo una malinconica, umbratile elusività.
Quanto più si è perduta l’idea di una presenza spirituale nella natura, tanto più si è sviluppato il senso di una vitalità misteriosa delle cose. Con questa intuizione, Ruskin coglieva la parvenza estrema dello spirito del luogo e la consegnava a pittori, poeti e viaggiatori moderni. Alla fine del XIX secolo i paesaggi di Böcklin, di Costa, di Coleman si animano di satiri, di centauri e di ninfe, non solo come riferimento colto alla memoria classica, ma come allusione al vitalismo panico e misterioso della natura e alla sua forza rigenerante, insidiata però dal senso struggente della sua perdita irrevocabile. Gli elementi ricorrenti della pittura del paesaggio classico – isole, promontori, dimore in rovina, annosi cipressi, statue solitarie – vengono sottoposti a una trasfigurazione nostalgica che ne fa i luoghi dell’enigma e del mistero. La natura nel suo insieme appare vagamente abitata da presenze imponderabili, prigioniera come loro della malinconia, della perdita e dell’esilio.»
[…]
«La ricerca dello spirito del luogo diventa quindi un viaggio iniziatico nel quale colui che osserva un paesaggio o visita una città non è molto diverso dal rabdomante che “sente” una presenza nascosta, ammutolita da secoli, eppure disposta a parlare ove venga interrogata con discrezione e con tatto. Accade così che la comparsa del genius, nel quale sono comprese le qualità morfologiche di un luogo e i segni della sua particolare civiltà, possa assumere la caratteristica di un’inerme familiarità. Posando lo sguardo sui “piccoli giardini di Adone” del duomo di Arezzo – erano detti così gli assembramenti di piante in germoglio poste dinanzi all’altare nel corso della Settimana Santa – Vernon Lee vi colse un giorno, agli inizi del XX secolo, il messaggio trasmesso dal paganesimo al mondo cristiano, il ricordo della divinità che col suo sangue fa rifiorire la terra. L’idea di genius loci di Vernon Lee, di Walter Pater e di altri esteti nasce appunto dalla percezione di questa latenza sepolta, da questa irriducibile memoria pagana della quale sono permeati i luoghi o della quale, per meglio dire, è inconsapevolmente intrisa la nostra cultura.
Tuttavia a partire dall’allusiva vaghezza fin de siècle, il concetto di spirito del luogo è venuto acquisendo una propria funzionale dimensione. Con esso s’intende oggi il carattere dominante e inconfondibile attraverso il quale si presenta un luogo, ovverosia il genere di rapporto che ha saputo intessere con lo spazio e con il tempo. Quando una città antica o moderna – il pensiero corre a quelle straordinarie arche di storia che sono le cittadine collinari toscane – affascina per la compatta, impeccabile congruità vuol dire che i suoi edifici intrattengono un rapporto armonico con l’ambiente circostante e che sono l’espressione naturale di forme di vita condivise. Quanto al rapporto con il tempo, parlare del genius loci significa attingere al cuore della civiltà occidentale con le sue conquiste e le sue drammatiche lacerazioni. Si tratta di un viaggio che permette di ritrovare quanto è stato disperso dal diffondersi di una cultura omogeneizzante e globale, un viaggio che consente di percepire forze sopite, di partecipare ai pensieri di personaggi vissuti in tempi talmente lontani da non essere lambiti nemmeno dalle sonde della storia. E questo è possibile anche perché nella connaturata elusività dello spirito del luogo, nel suo manifestarsi improvviso e inatteso, è inscritta la cifra del nostro stesso destino, del nostro limite, della nostra fugace felicità.»

Il rito delle Aiora
Disegno tratto da un reperto rinvenuto a Chiusi nel 1846, attualmente custodito a Berlino
Links:

Aiora.it

Aiora.de

Georg Heym, Ci invitarono i cortili - Die Höfe luden uns ein
a cura di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, dicembre 2011

"A selection of poems by the Expressionist poet Georg Heym (Hirschberg, Silesia, 1887 - Berlin, 1912)
In collaboration with Angela Staude Terzani"

Postface/ postfazione: Il dio della città - Der Gott der Stadt

Georg Heym - album/Caffè d'Europa


13 gennaio 2013

Käthe Kollwitz


Käthe Kollwitz e Vladslo


«Lutyens era presente all’inaugurazione del suo monumento a Thiepval il 2 agosto 1932. Pochi giorni prima ne era stato edificato un altro al cimitero di guerra tedesco di Roggevelde, nei pressi di Vladslo, nel Belgio fiammingo. È opera di Käthe Kollwitz. Le figure scolpite ritraggono due genitori che piangono il figlio, ucciso nell’ottobre del 1914. Non esiste un monumento al dolore per questa perdita più toccante di questa semplice scultura in pietra di due persone, inginocchiate, davanti alla tomba del figlio.
Non c’è la firma dell’artista, nessuna indicazione di proprietà, nessuna collocazione nel tempo e nello spazio. Soltanto tristezza, la tristezza universale di due persone adulte circondate dai morti, come da «uno stuolo» di bimbi scomparsi. L’immagine è della stessa scultrice. La storia degli sforzi compiuti per commemorare la morte in guerra del figlio Peter è una testimonianza tanto della sua umanità quanto della sua capacità di dar vita a un monumento di valore eterno, un’opera d’arte di forza e sensibilità straordinarie, che portò questo tipo di arte a un livello superiore alla gran parte di quella contemporanea.
All’esplodere del conflitto la Kollwitz aveva quarantasette anni. Era una figura di rilievo del panorama artistico berlinese: le sue litografie Rivolta di tessitori (1898) e Guerra contadina (1908) l’avevano imposta come un maestro dell’incisione e come poetessa par excellence della sofferenza delle masse. Era nipote di un pastore di Königsberg, e dal nonno aveva ereditato nel suo lavoro il senso del dovere e della vocazione. Il marito era un medico, che a Berlino esercitava nello squallido quartiere di Prenzlauer Berg, e i cui pazienti significarono agli occhi della Kollwitz la dimostrazione dell’esistenza della miseria, del degrado, della malattia e della tragedia che poi seppe trasformare in arte. Suo proposito era rifuggire da formalismi e preziosismi, e usare l’incisione per semplificare e rendere direttamente accessibile l’umanità dei soggetti. I disegni sulla vita dei lavoratori, passata e presente, rivelano tutti la sua convinzione della necessità di «ridurre tutto a una forma sempre più contenuta… perché venga evidenziato tutto l’essenziale e ripudiato il superfluo».
Peter Kollwitz si arruolò volontario subito all’inizio della guerra, e fu ucciso il 30 ottobre 1914 all’età di diciotto anni, nelle Fiandre, non lontano da Langemarck, nome che sarebbe diventato sinonimo del sacrificio idealistico della gioventù tedesca. «Il tuo bello scialle non servirà più a scaldare il nostro ragazzo», questa fu la maniera toccante con cui rivelò la notizia a una persona molto vicina. Con un’altra ammetteva: «S’è aperta nelle nostre vite una ferita che non guarirà mai. E non dovrà mai guarire».
Nel dicembre del 1914 aveva concepito l’idea di un monumento alla memoria del figlio, il corpo disteso, «il padre accanto al capo, la madre ai suoi piedi» per commemorare «il sacrificio dei giovani volontari». Pensava all’inizio di collocarlo «in cima allo Schildhorn», nei pressi di Berlino. Col passare del tempo provò a elaborare altri progetti, con Peter posto al di sopra dei genitori, e padre e madre «inginocchiati che reggono il corpo del figlio», o col corpo di Peter avvolto in una coperta. Quindi si applicò all’ipotesi di «porre un bassorilievo dei genitori sulla sua tomba», o vicino all’entrata del sacrario di guerra dov’era sepolto. Il bassorilievo divenne poi una scultura a tutto tondo nel novembre del 1917, coi genitori inginocchiati davanti alla tomba del figlio, «appoggiati l’uno all’altra; la testa di lei reclinata sulla spalla di lui».
Insoddisfatta di tutti questi progetti, Käthe Kollwitz nel 1919 accantonò temporaneamente l’idea. Il suo impegno a venirne a capo, non appena avesse avuto quella giusta, era però indubbio. «Ci tornerò su, farò quest’opera per te, per te e per gli altri», appuntava sul diario nel giugno del 1919. Cinque anni dopo mantenne la parola. L’idea era ancora quella di scolpire le figure dei genitori, in ginocchio davanti alla tomba, magari all’entrata del cimitero, «figure squadrate, di dimensioni egizie, in mezzo alle quali dovevano passare i visitatori». Nell’ottobre del 1925 cominciò a lavorare a queste sculture. Nel giugno dell’anno successivo Käthe e Karl Kollwitz si recarono al cimitero di guerra tedesco di Roggevelde. Ecco ciò che l’artista notò:

Il cimitero è vicino alla strada maestra… L’entrata non è altro che un’apertura nella siepe che circonda il campo. Era ostruita da un reticolato… Che impressione: una croce su un’altra croce… sulla maggior parte c’erano basse croci gialle di legno. Una piccola placca metallica nel centro indica il nome e il numero. Così trovammo la nostra… Staccammo tre roselline da un rovo fiorito e le posammo sul terreno accanto alla croce. Tutto ciò che restava di lui è lì, in una tomba in riga…
Valutammo dove le mie due figure si potevano collocare… La migliore soluzione che ci venne in mente fu di metterle proprio ai due lati dell’entrata accanto alla siepe… Allora le due figure inginocchiate avrebbero avuto davanti a loro l’intero cimitero… Per fortuna in tutto il sacrario non era stata messa nessuna immagine ornamentale, nemmeno una. L’effetto complessivo è di piana semplicità, di solitudine… Tutto è calmo, ma il canto delle allodole è lieto.


Il progetto la impegnò per tre anni, e alla fine riuscì a completarlo nell’aprile del 1931. «In autunno, Peter, lo porterò da te», annotò nel diario. L’opera fu esposta alla Galleria Nazionale di Berlino e poi trasportata in Belgio, dove fu collocata non all’ingresso del cimitero, ma accanto alla tomba del figlio. E lì è rimasta sino ad oggi.
Il monumento era un’offerta a un figlio che aveva dato la vita per la patria. L’artista non riuscì a portarlo a termine prima di diciotto anni da quella morte, il che basta da solo a dirci qualcosa dell’evoluzione del lutto, descritto in forme così toccanti nel diario e nel’opera della Kollwitz. Il 31 dicembre 1914 annotava nel diario:

Mio caro Peter, voglio cercare d’esser leale… Cosa significa? Di amare il mio paese alla mia maniera, come hai fatto tu nella tua. E di far sì che quest’amore sia efficace. Di guardare i giovani ed esser leale con loro. Oltre a ciò farò il mio lavoro, lo stesso lavoro, bambino mio, che ti è stato negato. Voglio onorare anche Dio con le mie opere, il che significa che voglio essere onesta, vera e sincera… Quando cercherò di esser tale, caro Peter, allora ti chiederò di starmi d’attorno, di aiutarmi, di mostrarti a me. Lo so che ci sei, ma ti vedo solo in modo confuso, come fossi avvolto in una nebbia. Stai con me…

Se ne stava ore e ore seduta nella stanza del figlio. Nell’ottobre del 1916 annotava nel diario: «posso avvertire la presenza di Peter. Mi dà conforto, mi aiuta nel lavoro». Rifiutava l’idea del ritorno di uno spirito, ma l’attraeva la «possibilità di stabilire un contatto qui, in questa vita sensibile, tra una persona fisicamente viva e l’essenza di qualcuno fisicamente morto». Chiamatela «teosofia o spiritismo o misticismo» se volete, annotava, ma la verità era comunque quella. «Ti ho sentito, figlio mio – oh, tante, tante volte». Anche quando la pena della perdita cominciò a scomparire non smise di parlare del figlio morto, soprattutto mentre lavorava al suo monumento. Continuava ad essere ossessionata da sogni che lo riguardavano, e sentiva la sua presenza allo stesso modo di tanti altri genitori da un capo all’altro del pianeta.
Ciò che aggiunge al lutto della Kollwitz una dimensione particolare era il suo senso di colpa, il rimorso per la responsabilità avvertita dalla generazione precedente per il massacro dei giovani soldati. Un sentimento manifestatosi già nella sua prima reazione alla decisione di Peter di arruolarsi volontario. La Kollwitz aveva una visione internazionalista, ostile all’arroganza filistea della Germania ufficiale. Ma, come ebbe più volte occasione di dire, lei credeva in un dovere più alto del semplice egoismo personale, e prima ancora del 1914 s’era resa conto che «dietro la vita del singolo… stava la Patria». Sapeva che il figlio s’era arruolato «con le migliori intenzioni», animato dal patriottismo, dall’«amore per un’idea, un comandamento», eppure lei aveva pianto amaramente alla sua partenza.
Scoprire, come lei avrebbe fatto nel corso della guerra, che l’idealismo del figlio era mal riposto, che il suo sacrificio era stato vano, fu terribilmente doloroso per svariate ragioni. In primo luogo, perché creava un vuoto tra lei e lui. «Manco di lealtà nei tuoi confronti, Peter», scriveva nell’ottobre del 1916, «se adesso nella guerra vedo solo follia?». Lui era morto credendo: come poteva la madre mancare di rispetto a quella fede? Ma la sensazione che la guerra era un esercizio vano portava all’ammissione ancor più devastante che suo figlio e quell’intera generazione erano stati «traditi». Era un riconoscimento straziante, ma lei non si sottrasse al dovere di dargli un’espressione artistica. Ecco uno dei motivi per cui le ci volle tanto tempo a completare il monumento, e perché lei e il marito sono in ginocchio davanti alla tomba del figlio. Sono lì a chiedere perdono, a chiedergli di accettare la loro incapacità di trovare una soluzione migliore, l’incapacità di impedire che la follia della guerra gli troncasse la vita.
Käthe Kollwitz ha scritto nel diario anche del «bisogno di inginocchiarmi e lasciare che lui mi pervada, tutta. Sentirmi tutt’uno con lui». Questo tipo di preghiera fu per lei di estrema importanza, e dimostrava che nonostante l’intensità del dolore non aveva mai abbandonato le linee essenziali del suo umanesimo cristiano. Prima della guerra aveva eseguito due notevoli acqueforti intitolate Popolo, sanguini da molte ferite e Gli oppressi. Realizzate nel formato del trittico, mostrano entrambe un cadavere marcatamente somigliante al Cristo morto di Holbein. Nel 1903 aveva eseguito un’acquaforte intitolata Donna con bambino morto – Pietà, acquistando grande notorietà per le sue figure di madri con i piccoli. Una delle sue opere più intense è una figura femminile di gusto decisamente primitivo che regge un bambino morto, cui nel 1903 aveva fatto innocentemente da modello il piccolo Peter. Il motivo cristiano della lamentazione trovò forse la sua più celebre espressione nell’opera intitolata Commemorazione di Karl Liebknecht, in cui si indugia più sui lavoratori in lutto che sul loro leader assassinato. Qui è evidente l’influsso della scultura di ispirazione cristiana di Ernst Barlach, i cui contributi al monumento ai caduti della cattedrale di Güstrow furono successivamente oggetto dell’ammirazione della Kollwitz. La cui Maria ed Elisabetta (1928) fu ispirata dalla riflessione su un dipinto di argomento religioso attribuito a Konrad Witz ed esposto nel museo d’arte di Berlino-Dahlem. Come si vedrà nel sesto capitolo, il ritorno al Rinascimento tedesco non costituiva una rarità nel periodo postbellico.
Ciò che distingue il monumento della Kollwitz da tanti altri, di ispirazione sia laica che religiosa, è la sua nuda semplicità, e la capacità di sfuggire a qualsiasi classificazione di scuola o di stampo ideologico. Il monumento al figlio Peter ha caratteristiche atemporali che derivano dalla capacità dell’artista di ispirarsi a un contesto religioso antico, adattandolo a una catastrofe moderna.
Ho avuto occasione di vedere quest’opera della Kollwitz sotto una leggera pioviggine, condizione per niente anomala in questa zona. E il risultato è stato straordinario: una figura ricurva in granito, con gocce di pioggia che le stillavano dal volto.
A Roggevelde, piegati sulle ginocchia, Käthe e Karl Kollwitz fanno pensare a una famiglia che ci comprende tutti: ed è esattamente questo che l’autrice aveva in mente. Il momento più intimo, qui, è anche il più universale. La collocazione del monumento nel cimitero di guerra tedesco dove giace il corpo del figlio rappresentava una riunione di famiglia, un anticipo di ciò che la sua spiccata fede religiosa le suggeriva come probabile in qualche futuro. Un senso di compiuto, di salvifico, di trascendente è chiaramente presente nel toccante resoconto della sua ultima visita al cimitero. Era da sola col marito:

Ci spostammo dalle due figure alla tomba di Peter, e tutto era vivo e percepito nella sua totalità. Me ne stavo davanti alla donna, guardavo il suo viso – il mio – e piangevo e le accarezzavo le guance. Karl stava vicino, alle mie spalle – non me ne accorsi nemmeno. Lo udii sussurrare «Sì, sì». Come eravamo vicini, in quel momento.

Conclusione

Toccare i monumenti ai caduti e, in particolare, toccare i nomi di chi è morto, è un momento importante dei rituali del distacco che intorno ad essi si sono celebrati. Molti fotografi dell’epoca mostrano persone in lutto che compiono questo gesto, a testimonianza del fatto che, indipendentemente dal significato estetico e politico di cui erano portatori, i monumenti erano anche luoghi di lutto, e di gesti che vanno al di là dei limiti di spazio e tempo.
Jay Winter
Il lutto e la memoria: la Grande Guerra nella storia culturale europea
di Jay Winter
 
Il Mulino, 1998
pp. 150-155

Original title: Sites of Memory, Sites of Mourning: The Great War in European Cultural History (1995)



Mourning parents
Mourning parents by Käthe Kollwitz. These are reproductions of the 1931 original. The reproductions (made under guidance of Ewald Mataré) stand in a destroyed church at Cologne (Germany) - Old St. Alban, behind de Gürzenich - still destroyed being a monument of peace. They were made in 1954. The original statues are on the German war cemetery Vladslo in Flanders /

Treurend ouderpaar van Käthe Kollwitz. Dit zijn afgietsels (gemaakt onder toezicht van de beeldhouwer Ewald Mataré) en ze staan sinds 1954 in de ruïne van de Oude St. Albans kerk, achter de Gürzenich in Keulen. Deze kerk werd in de Tweede Wereldoorlog gebombarbeerd en fungeert nu als vredesmonument. De originele standbeelden, uit 1931, staan op het Duitse oorlogskerkhof Vladslo in Vlaanderen.

Käthe Kollwitz ist eine der wenigen Künstlerinnen, die während ihres Lebens Anerkennung und Ruhm fanden. Doch auch sie musste sich gegen Vorurteile, Benachteiligungen und Konflikte durchsetzen, die Frauen heute noch bekämpfen.

Unter dem Einfluss der freidenkenden Mutter und des sozial engagierten Vaters bekam Käthe eine für die damalige Zeit höchst ungewöhnliche Erziehung, religiös und sozial progressiv und auf eine künstlerische Laufbahn abzielend. Da Frauen an den meisten deutschen Kunstakademien noch nicht zugelassen waren, bekam sie Privatunterricht im Zeichnen und besuchte die Künstlerinnenschulen in Berlin und München.
Sie entschied sie sich für die graphischen Künste und nicht für die Malerei, da diese mehr ihrer kritischen und zeichnerischen Perspektive entsprachen.

Als sie 1891 den sozialdemokratischen Kassenarzt Karl Kollwitz heiratete, war ihr Vater zutiefst enttäuscht, da er dem zeittypischen Glauben anhing, eine Frau könne nicht Beruf und Familie vereinen. Aber trotz der zwei Söhne, die sie in den nächsten Jahren gebar, arbeitete Kollwitz weiter. Ihr graphischer Zyklus »Ein Weberaufstand« brachte ihr auf der Großen Berliner Kunstaustellung 1898 den ersten großen Erfolg. Trotzdem verweigerte Kaiser Wilhelm II. ihr die Goldmedaille, denn »Orden und Ehrenzeichen gehören auf die Brust verdienter Männer«.

1899 trat Kollwitz der Berliner Sezession bei, einer oppositionellen KünstlerInnengruppe und der einzigen, die Frauen als ordentliche Mitglieder aufnahm. Ihr zweiter Zyklus »Bauernkrieg« (1901-07) brachte Kollwitz internationalen Ruhm; sie stellte nun in London, Paris, Wien und Moskau aus. 1904 verbrachte sie einige Monate in Paris, um sich mit der Grundlagen der Plastik vertraut zu machen; sie besuchte auch Rodin. 1919 wurde sie zum ersten weiblichen Mitglied und zur Professorin der Preußischen Akademie der Künste ernannt.

Kollwitz’ Schaffen zeichnet sich durch ein starkes, gefühlsbetontes Interesse vor allem an Frauen aus der ArbeiterInnenklasse aus; sie stellt ihre ihre Leiden und Kämpfe, ihre Stärke und Schönheit in einfacher, auf das Wesentliche reduzierter Form dar - die Zeichnungen für die Münchner Zeitschrift Simplizissimus (1908-11) sind dafür ein gutes Beispiel.

Mit dem Tod ihres Sohnes Peter im ersten Weltkrieg wandelte sich Kollwitz von ihrer früheren revolutionären Einstellung zur Pazifistin; ihre späteren graphischen und plastischen Arbeiten zeigen oft Mütter, die ihre Kinder vor dem Krieg schützen wollen.

Heute noch sehr bekannt sind ihre Plakate gegen den Krieg aus den 20-er Jahren, sowie das gegen den Paragraphen 218 aus dem Jahr 1924. »Eltern«, ihr Denkmal für den gefallenen Sohn, wurde 1932 auf dem flandrischen Soldatenfriedhof Roggevelde-Essen aufgestellt.

Weil Kollwitz 1932 und sogar noch 1933 Aufrufe gegen den Faschismus unterschrieben hatte, musste sie zusammen mit dem Schriftsteller Heinrich Mann, der auch unterschrieben hatte, aus der Akademie austreten. 1936 erhielt sie von den Nazis indirektes Ausstellungsverbot. Von ihrer Enkelin gepflegt, verbrachte Kollwitz ihre letzten Tage in ungeduldiger doch erfüllter Erwartung des Todes, mit dem sie sich ihr Leben lang künstlerisch und geistig beschäftigt hatte.

Alle diese Blätter sind Extrakt meines Lebens. Nie habe ich eine Arbeit kalt gemacht, sondern immer gewissermaßen mit meinem Blut. Das müssen, die sie sehen, spüren.
(Käthe Kollwitz, Tagebüchblätter und Briefe, Hg. Hans Kollwitz, Berlin, 1948, S. 137)

Die Kunst der Kollwitz ist ganz und gar unsentimental. Sie wirkt nicht auf die Tränendrüsen, sondern tut genau das, was sie will: sie greift unmittelbar ans Herz.

Käthe Kollwitz
Self Portrait
1898
color lithograph
Staatliche Kunstsammlungen, Dresden
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Born July 8, 1867, Königsberg, East Prussia - died April 22, 1945, near Dresden, Ger.
German graphic artist and sculptor. She studied painting in Berlin and Munich but devoted herself primarily to etchings, drawings, lithographs, and woodcuts. She gained firsthand knowledge of the miserable conditions of the urban poor when her physician husband opened a clinic in Berlin. She became the last great practitioner of German Expressionism and an outstanding artist of social protest. Two early series of prints, Weavers' Revolt (189598) and Peasants' War (190208), portray the plight of the oppressed with the powerfully simplified, boldly accentuated forms that became her trademark. After her son died in World War I, she created a cycle of prints dedicated to the theme of a mother's love. She was the first woman elected to the Prussian Academy of Arts, where she was head of the Master Studio for Graphic Arts (192833). The Nazis banned her works from exhibition. The bombing of her home and studio in World War II destroyed much of her work.
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Links:


Sulla prima guerra mondiale si veda anche/ About the First World War:
Walter Benjamin, Liberami dal tempo/ Enthebe mich der Zeit
Sul suicidio del giovane poeta Christoph Friedrich Heinle alle soglie della prima guerra mondiale
Articolo di Franco Benesperi, rivista «La Vita», 2 dicembre 2012

Further news:


Album by Caffè d'Europa (facebook)/  Walter Benjamin - Immagini/ Bilder

Notiziario CDP 229, settembre-ottobre 2012 - Walter Benjamin, Ha la morte facoltà di scambiare il desiderio, p. 17




Robert Musil, Narra un soldato e altre prose (Ein Soldat erzählt) a cura di Claudia Ciardi, traduzione di Claudia Ciardi e Elisabeth Krammer, Via del Vento edizioni, novembre 2012, ISBN 978-88-6226-066-4, Euro 4,00



La guerra senza qualità di Musil - Recensione su Il Giornale/ 5 dicembre 2012

Segnalato su:
Internazionale n. 982, gennaio 2013

Intervista su Das deutsch-italienische Kulturmagazin im Saarland - a cura di Elisa Cutullè