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14 gennaio 2021

Johann J. Bachofen – Il popolo licio

 


Erano in molti, anche tra gli amici più stretti, ad additarlo come l’orso di Basilea per il carattere scontroso e fiero che manifestava non a caso nella natura indipendente della sua ricerca. Critico con i più celebrati maestri dello storicismo da Niebhur a Mommsen e inviso ai filologi formati alla scuola di Wilamowitz, la sua posizione accademica fu sempre in bilico per non dire apertamente osteggiata. Johann Jakob Bachofen (1815-1887), magnifico esponente di un colto patriziato svizzero, uomo che usò la propria fortuna economica per una vita di studio e scrittura fuori dagli schemi, nonostante il carattere non facile e l’indipendenza perseguita e sempre rivendicata nel proprio metodo ha avvicinato la migliore intellighenzia tedesca che durante l’Ottocento lasciò un’impronta fondativa e indelebile nell’ambito della conoscenza del mondo antico. Può considerarsi uno dei primi ingegni chiamati ad accrescere l’albero della cosiddetta storia delle mentalità, sui diversi fronti dell’approfondimento storico, antropologico e letterario, che nel Novecento troverà coltivatori eccellenti, da Marc Bloch a Carlo Ginzburg, da Jules Isaac a Ernesto De Martino e Carlo Levi. Il tema all’apparenza astruso, inafferrabile, lontano della monografia sul popolo licio ne fa in realtà unopera estremamente toccante sul tentativo di restituire un volto, una sostanza spirituale a cose che ci sembrano inghiottite dal continuo avvicendarsi degli eventi, livellate per sempre dalla storia. Perché dunque leggere adesso un saggio che ci pare così specialistico, settoriale, incentrato su un luogo che fatichiamo a collocare nello spazio e nel tempo? Cos’ha da dirci oggi un simile libro, a noi che distrattamente posiamo lo sguardo sull’antico come su una città abbandonata, le cui vestigia che pure un tempo hanno vissuto ci appaiono solo come cose morte, immobili, avvolte nel silenzio dei millenni? E questo immobilismo, questo silenzio ci mette ancor più in disagio nella misura in cui la nostra esistenza si aggira frenetica, irrisolta, distaccata dalle autentiche fonti di un sentire che desolatamente ignoriamo. Bachofen, animo ottocentesco immerso nella temperie del romanticismo, sa che quei centri della liturgia e infine, della poesia umana, non possono essere trascurati e li investe del ruolo di oracolo ultimo e necessario alle sue ricognizioni. Nel caso dei Licii, come in altre ricerche, si tratta dunque «d’individuare un popolo nel movimento e nella verità della vita». Certo, man mano che si attinge ai substrati più distanti e perciò labili della nostra storia, diventa anche più arduo cogliere il soffio di questo spirito vitale. Eppure l’erudito di Basilea segna un cammino che per quanto non solo ai suoi tempi, ma forse ancor più adesso, abbia fatto storcere il naso a chi prova insofferenza per le forme comparative evidenziando limiti indubbi circa l’enfasi riservata a una polarità strutturale nella lettura dei fenomeni umani, si pone con un respiro proprio. In tale messa a fuoco vengono in sottotraccia apporti e attriti trasmessi dalla cerchia di studiosi con i quali fu in contatto. Dal giovane Nietzsche, incrociato per l’appunto nella nativa Basilea, a Savigny, il caro maestro propugnatore del Volksgeist (lo spirito del popolo), a Burckhardt, il geniale storico e mitologo, l’amico di una vita.
In questa monografia la Licia assurge a una sorta di patria perduta che psicologicamente in ciò che per convenzione definiamo progredire umano, ovvero il suo ingresso nella modernità, incarna il trauma della scomparsa delle madri. La madre è in senso lato la componente femminile, la carica ctonia, conservatrice, protettiva della vita, nume tutelare della società, del suo ordinamento, e quindi della durata dei suoi caratteri attraverso le epoche. Nel vaglio delle testimonianze – sepolture, monumenti, iscrizioni votive, miti – la Licia, secondo i nessi stabiliti da Bachofen, ha espresso una compagine resiliente e longeva nel quadro della culture antiche, in particolare rispetto alle limitrofe realtà dell’Asia Minore, nella misura in cui ha traghettato senza cesure l’essenza matriarcale, ginaicocratica entro gli stadi successivi della propria organizzazione. E dove poteva trarre questi elementi se non volgendosi alle pratiche religiose, alle ombre delle necropoli che lo studioso qui ci descrive con toccante partecipazione, nel tipico spirito dell’intellettuale romantico che si aggira ritualmente tra le rovine del passato, restando in ascolto?


Aperta una breve parentesi sulla fortuna geografica della Licia, terra di mare e di montagna, che per la maestà degli impervi paesaggi dell’interno e la radice schietta dei montanari sentiva affine alla sua Svizzera, Bachofen si concentra sulle testimonianze dell’arte funebre e quindi sui riflessi cultuali che questo popolo d’oriente indecifrabile solo a un’occhiata frettolosa avrebbe proiettato nei miti e nelle proprie scelte politiche e d’azione. Un modus operandi destinato a gettare un influsso duraturo, se Fernand Braudel inaugurerà il suo saggio monumentale sulle civiltà del Mediterraneo in un tono che tanto ci ricorda questo incipit: «Tutto concorre, attraverso lo spazio e il tempo, a far sorgere una storia al rallentatore, rivelatrice di valori permanenti. La geografia, in questo gioco, non è più un fine a sé e diventa un mezzo. Essa aiuta a ritrovare le realtà strutturali più lente, a organizzare una messa in prospettiva secondo la linea di fuga della più lunga durata» [Da Civiltà e imperi del Mediterraneo – Parte prima – L’ambiente; capitolo I, Le penisole: montagne, altipiani, pianure]. Dalla scelta di inquadrare un popolo in questo campo lungo, ossia a partire dalle condizioni ambientali, il nostro mirabile antichista procede quindi lungo il corso dei residui costumi, delle tradizioni ancora leggibili, degli spartiti rituali che nei secoli hanno scandito lesistenza dei Licii. Il deposito delle già dette mentalità, valga ancor più per gli antichi che il tempo ha trascinato così lungi da noi, non può pertanto che trovarsi in maggior nei superstiti lacerti della sfera devozionale. Il sacro con le sue stratificazioni e metamorfosi è quantomai rivelatore. Nel metodo di Bachofen ciò assurge a perno centrale delle sue trattazioni, si pensi per esempio ad opere ugualmente fondanti quali il Saggio sulla simbologia delle tombe antiche (1859), La dottrina dell’immortalità nella teologia orfica (1867) e larticolo sulle Lampade sepolcrali romane.
Così, con la presente opera, ci addentriamo negli strati più arcaici dell’orfismo d’origine tracia e nella sua penetrazione asiatica, particolarmente in terra licia, assistiamo allo sviluppo di una visione consolatrice e affatto lugubre dell’aldilà. I passi omerici del VI e XVI libro, peraltro fra i più alti dell’Iliade, riservati agli eroi della Licia, rispettivamente Glauco e Sarpedonte, incarnerebbero alla perfezione ideali, religiosità, spirito di questo popolo. In Glauco la melanconia espressa nella commovente similitudine del cadere delle foglie come le stirpi mortali, un rassegnato atto di fede privo di angoscia sulla finitezza umana e la caducità del vivere. In Sarpedonte un’immagine di morte violenta – il corpo scempiato nella battaglia – che tuttavia viene mitigata dalla visione salvifica di Apollo il quale, se non può opporsi alla legge del destino, risana le ferite mortali in preparazione di un’altra vita non terrena. È questa luce nella fatalità della fine, questa malinconica attesa che non si dispera a costituire il nucleo del carattere licio, la sua resilienza al passaggio del tempo. E secondo Bachofen ciò sarebbe da attribuire a un perdurare della componente femminile mai estromessa da quella maschile ma mediata, inclusa, lasciata germogliare come sostrato irrinunciabile del vivere, l’antica forma su cui gli usi si sarebbero originariamente plasmati per poi mutarsi nel segno di una coerente continguità. Per questo nella società licia la componente celeste uranica apollinea più tarda coesisterebbe senza traumi con i resti della matrice demetriaca. Ciò sarebbe secondo lo studioso svizzero alla base delle virtù di questo popolo, della conservazione nel tempo dei propri caratteri, insomma di una indiscussa devozione alla propria identità.
Infine, un breve appunto a chiusura. Questo saggio che vide la luce nel 1862, fu per la prima volta dato alle stampe in Italia nel 1944. Per questo articolo ho sfogliato l’edizione originale e leggere in quarta di copertina “Finito di stampare nelle Officine Grafiche Fratelli Stianti, Sancasciano Val di Pesa (Firenze), marzo 1944” mi ha sollecitato una riflessione ulteriore. Mentre ancora la guerra imperversava, qualcuno continuava a tradurre, a tenere accesa la lucerna della cultura. E non solo. Si scelse proprio in quell’anno di offrire in traduzione italiana uno scritto di Bachofen, autore sino a quel momento non leggibile nella nostra lingua. Ma non si scelse il monumentale Mutterrecht, bensì questo agile volumetto che poteva stare in una tasca e recare a chi avesse avuto la fortuna di procurarselo un messaggio di resistenza, pace, riscatto. L’austera e serena fierezza dei Licii attraverso le parole di un uomo che un secolo prima, poco meno, vi aveva visto un barlume di quello stesso spirito romantico che intorno a lui andava irrimediabilmente sgretolandosi, alcuni decenni dopo veniva in soccorso a chi si angosciava tra le macerie della guerra. La storia che c’è nella circolazione dei libri talvolta non è secondaria al loro contenuto. In alcune situazioni accende di luce nuova le ragioni che furono alla base della loro scrittura. Ebbene sì, è questa un’opera che rassicura e che cura. 


(Di Claudia Ciardi)

 

Edizione consultata:

Johann Jakob Bachofen, Il popolo licio, traduzione di Eugenio Giovannetti, collana “La Meridiana”, Sansoni, 1944




Si veda anche:

Germania e orientalismo

L'antropologia letteraria di Carlo Levi

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