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24 aprile 2021

Declinazioni di solitudine (Euripide)


Eroe simbolo della grecità, Eracle è tuttavia un personaggio di difficile caratterizzazione tragica, tanto che la sua figura resta principalmente associata ai drammi satireschi. Euripide, lo scrittore che più ha dato voce alle tensioni psicologiche e alle lacerazioni del thumòs (θυμός, spirito), ha avuto il coraggio di celebrarlo nel suo umano annientamento. La tragedia che ne scaturì, rappresentata nel 423 a. C.
– anche se la data non è certa fece molto scalpore per la crudezza con cui veniva messo sotto gli occhi degli spettatori lo sprofondare di un’esistenza dalla fulgida gloria tratta dalle proprie imprese alla solitudine disperata che vede nel darsi la morte l’unico esito possibile. L’autore greco innovò anche la struttura mitica, rovesciandola. La follia che colse Eracle, così da spingerlo a uccidere la moglie e i propri figli – un’empietà così grande che perfino Lyssa, istigata da Era, avrebbe voluto opporsi al comando divino – si colloca alla fine delle fatiche e non come atto cui segue l’espiazione attraverso le avventurose gesta. Cè forse in questa tessitura un riflesso anche politico. Atene, gloriosa capitale ellenica, nel massimo della sua potenza economica, si è gettata da quasi un decennio in una guerra destinata a dissolvere il suo primato. Nel 430 a. C., appena iniziato il conflitto, una pestilenza aveva aggiunto debolezza e lutti a una situazione che non prometteva nulla di buono. Gli aristocratici, per lo più contrari allapertura verso lesterno promossa dai commerci marittimi, pretendevano un imprecisato ritorno ai valori tradizionali; si fecero perciò promotori di una lotta interna senza quartiere, cercando di favorire con ogni mezzo la vittoria del nemico. Questo efferato dilaniarsi entro la pòlis la forza che si trasforma in debolezza – con ogni probabilità contribuisce a suggerire a Euripide la sventura eraclea. Il forte cade perché questi sono i piani di una volontà superiore, e la sua sconfitta è così soffocante, così insopportabile che lunico esito sarebbe morire.         
Dunque, il celebre drammaturgo ha letteralmente riplasmato il patrimonio tradizionale, investendo se stesso del ruolo di iniziatore del ritratto tragico di Eracle nonché di una profonda riflessione su come chi appaia nel massimo del proprio fulgore, quasi della propria invincibilità, possa essere all’improvviso travolto. Nella vicenda di Eracle infatti la violenza muta repentinamente di segno direzionandosi contro colui che fino a quel momento l’ha praticata con successo, mai pensando di soccombere.
Stando a quel che ci è stato tramandato, sui connotati di tale vicenda mitica così riscritti non interverranno altri fino a Seneca che lo farà in un periodo della storia imperiale romana in cui la circolazione delle teorie epicuree e stoiche aveva riacceso l’interesse sul tema del suicidio e dell’amicizia quale rimedio alla sofferenza. Il rovesciamento che distrugge la vita di Eracle trova nell’umana comprensione il suo riscatto, la cura capace di lenire il pianto, la via di una salvezza che l’eroe, pur in preda alla più fosca disperazione, sceglie di percorrere.
A conclusione di questo excursus sulla tragedia greca, ideato dalla classicista Alessia Rovina che ha contribuito a farci osservare gli eventi di questi mesi complessi invitando a sostenerci all’immensa architettura del teatro antico, l’autrice offre un’articolata lettura dell’intreccio euripideo, proponendo delle preziose chiavi d’interpretazione per una riscoperta del testo.     

(Di Claudia Ciardi)

 


 Chiaroscuro - Fotografia di Alessia Rovina ©

  
Declinazioni di solitudine III - Eracle ed Anfitrione

Per la rubrica «L’Argonauta»

Di Alessia Rovina

 
Tebe è una città destinata alla dannazione. Il principio estremamente diffuso nella cultura greca – e non solo, basti pensare a certi luoghi della letteratura ebraica preesilica – dell’ereditarietà della colpa non lascia scampo agli sventurati regnanti: per una maledizione scagliata dal dio Ares contro Cadmo una dinastia di sciagurati è condannata al disfacimento e all’annientamento, spesso dopo illusori successi
si consideri l’estasi tirannica di Penteo, o la soluzione dell’enigma della sfinge da parte di Edipo in un protrarsi dell’oscura ed antica macchia.
Il mito di Eracle vanta una fama abbacinante. La misura dell’eroe, ieri come oggi, si fonda prevalentemente su di lui, archetipo culturale condiviso con la civiltà etrusca e fenicia, oltre che sumerica ed ebraica. Forza taurina datagli dalla sua natura semidivina
il padre è Zeus, che giacque con la bellissima Alcmena con un inganno formidabile bellezza sfavillante, coraggio prodigioso. Eppure, anche un astro come lui, che parrebbe predestinato alla gloria senza troppi sforzi, una volta calato nella dimensione dell’immanenza, è marchiato da una grande costante: la prova. “Le Fatiche di Ercole” sono un modo di dire mutuato dalla realtà mitica che lo vede protagonista di dodici prove sovrumane impostegli da Euristeo per volere divino. Il novero di queste lo porta lontanissimo da Tebe, città maledetta che medita nuovo sangue, patria della moglie Megara, luogo dell’azione di  un  dramma geniale ed annichilente composto da Euripide, con il quale concluderemo la rassegna di ascolto della solitudine.
Euripide rielabora la materia erculea discostandosi dalla vulgata a noi cognita. Anzitutto, viene sovvertita l’usuale collocazione cronologica delle Fatiche; secondariamente, viene modificato radicalmente il ruolo e lo spessore del padre mortale, Anfitrione. Infine, Eracle non è ritratto in alcuna impresa di valore. Qui, ragionare dell’eroe per antonomasia è un esercizio volto all’uomo: ben prima del suo arrivo in scena inizia la degradazione della figura di Eracle, nel momento in cui il tiranno Lico insinua dubbi sulla effettiva realizzazione delle fatiche (v. 151 ss.): nessuno l’ha visto all’opera, nessuno era presente, nessuno può raccontarle dall’esterno, dotato della prova dell’ὄψις, già compresa come requisito necessario per l’attendibilità delle parole umane. È dunque probabile che la menzogna ammanti Eracle, e che un grande disonore si profili sul genitore Anfitrione, sulla moglie, ma soprattutto sulla sua stirpe, i tre figlioletti che attendono un padre partito verso le fatiche quando erano ancora infanti.
Un altro bersaglio è però mira della disgustosa vanità di Lico: Anfitrione. Un vecchio tra vecchi – il coro è formato dagli anziani di Tebe – il cui attaccamento alla vita ed alla speranza è guardato come ammattimento persino dalla giovane e bellissima nuora Megara, ma che si dimostrerà un personaggio straordinariamente importante e senza tempo, in questo roteare di destini inquieti e sempre in bilico tra l’esistenza e la morte. Anfitrione, padre adottivo di Eracle, esalta con la sua mitezza il dono di aver condiviso la moglie Alcmena con il sovrano olimpico, Zeus, protettore di tutta la sua stirpe. È davvero incredibile constatare come poi sia lui stesso ad imboccare la via dell’aperta blasfemia, demistificando ed annientando la presunta onnipotenza dell’Olimpio, addirittura riducendolo ad un mentecatto, molto al di sotto delle possibilità dell’uomo stesso. Un dio che non è apprezzabile quanto Anfitrione, in materia paterna: quasi un monito alla differenza rappresentata dalla biologia e dalla cura costante.
Anfitrione è a tutti gli effetti un padre: amorevole, arreso ad ogni evidenza desolante quanto all’evidenza affettiva. «Figliolo! Figlio mio infatti tu sei, pur in tutto il male!» (v. 1113), davvero sconcertante che un uomo sia così capace di dilatare il proprio cuore, l’unico da cui venga un sentimento di compassione autentica e tangibile, giacché le figure divine dominanti sono una messaggera malvagia tanto quanto la sua perfida mittente, Era, motore di una inspiegabile vendetta, che trascende ogni eventuale contesa umana, e una figura tremenda e alla fine anch’essa assetata di sangue, Lyssa
a questo proposito vorrei davvero segnalare la resa teatrale di Emma Dante al Teatro Greco di Siracusa del 2018, al centro di aspre polemiche quanto di euforici elogi: nell’audacia sottesa alla sua scelta artistica vi sono momenti veramente eccezionali, tra cui sicuramente figura la resa estetica di Iris e Lyssa, inquietanti donne guerriere dalle braccia smodatamente lunghe e dai movimenti a dir poco angoscianti, perfette burattinaie che tolgono il respiro con il loro agire inconsulto e disumano.
Disumano, però, è l’aggettivo che meglio caratterizza anche Eracle nel nucleo drammatico. Un validissimo contributo di Antonietta Provenza del 2010 indaga la «bestializzazione» subita da Eracle nel dramma euripideo, tramutandosi nella vittima che Era dal principio aveva destinato, in una geniale quanto problematica καταστροφή del sacrificio rituale. Eracle è carnefice, nel suo uccidere moglie e figli, ma in realtà è vittima. Finalmente Era riesce a compiere il suo disegno malato, sottraendo all’immolato ogni briciolo di dignità, ormai reso simile a toro scatenato, autore della sua stessa rovina. Questa tragedia fa scaturire nel lettore contemporaneo un disagio enorme, come è proprio della realtà tragica greca.
Eracle arriva trionfante, acclamato per le Fatiche, Eracle viene spietatamente reso solo. Il paradigma della follia, dell’infanticidio, dell’uxoricidio, rendono Eracle un reietto. Lui, fulgido semidio, è solo. Solo, infine, assuefatto al dolore a cui si dice «radicato» (v. 1395), tenacemente aggrappato all’orrore che lo ha posseduto durante il raptus folle. Anche Eracle, proprio come l’Aiace sofocleo, miseramente legato ad una colonna, immobilizzato e col capo coperto
paradigma tipicamente greco di impurità da celare medita il suicidio. L’onta abbattutasi su di lui è davvero imponente. Eppure, a dissuaderlo con forza, ad irrompere nel quadro in cui disperazione paterna e filiale stanno subendo l’ondata di dolore, è una conoscenza cara ed inaspettata: Teseo, mitico fondatore d’Atene, che Eracle aveva poc’anzi condotto fuori dall’Ade. Teseo è il rappresentante non solo del nume ateniese dinnanzi alla barbarie, ma è anche simbolo virile della vita precedente di Eracle: con questa forza quasi omerica scopre il volto per soffrire con l’amico a cui più è legato, ma è con la nuova forza della parola che trascina l’annichilito Eracle verso il ritorno alla vita, lontano dalla scelta di morire: molto più valoroso è vivere sopportando l’agonia. Molto interessante dal punto di vista socio-culturale è la modalità in cui viene convalidato il ritorno nel consorzio umano – e non più bestiale – di Eracle: il diventare πολίτης, cittadino, tra l’altro non di una polis qualunque, bensì della munifica Atene.
Accanto però allo sforzo di ritorno alla vita a cui Teseo costringe Eracle
in questa tragedia più che mai lontano dal pragmatismo eroico, abitatore di un luogo che nessuno condivide si profila un’altra solitudine, molto più particolare, non protagonista eppure impossibile da ignorare. Anfitrione, unico a poter piangere da incontaminato i cadaveri dei nipoti e della nuora, che con il suo enigmatico e straziante «πότ’ ἐλθών;» (v. 1420) prospetta davanti a sé un’ulteriore e più complessa mancanza: quella del figlio, che per un attimo di follia divina ha visto sgretolarsi tutto, soprattutto la sua identità. Per questo, l’atmosfera che avvolge il finale dell’Eracle è sospesa, ambigua. Non vivida, non oscura. Non di redenzione, non di condanna. Ha il sapore delle ferite che hanno un percorso di cicatrizzazione complesso, nascosto, mai lineare, ed i colori lievemente foschi dei mattini primaverili, in cui la nascita dei germogli combacia con le crepe e le spaccature del terreno, come scriveva il geniale T. S. Eliot. Quella dell’Eracle è una terra desolata in cui le solitudini vengono momentaneamente adombrate da re risorti e da vecchi tebani, ma in cui sostanzialmente i vuoti permangono, e sono i veri protagonisti di queste penombre a dover fronteggiare la difficoltà, talvolta, di essere umani.

 
Quis hic locus, quae regio, quae mundi plaga?

Seneca, Hercules furens, v. 1138


(Di Alessia Rovina, classicista, studiosa di teatro)



Si veda anche:

Declinazioni di solitudine (Eschilo)

Declinazioni di solitudine (Sofocle)


15 aprile 2021

Nabis


 

Aprile, ancora orfani d’arte. Chiuse gallerie e mostre, le Muse continuano a tacere. Non poche le deroghe previste per diverse categorie, ma difficoltà a catena per il settore della cultura e gli addetti ai lavori. Tuttavia proprio in questo momento, auspicabilmente superando l’idea di chiusura totale – da quando i musei sono spazi in cui ci si assembra? –  se decidiamo infine di essere propositivi e lavorare con vera convinzione al ritorno in sicurezza del pubblico, possono nascere sinergie interessanti. La scorsa estate, in una fase di ripresa delle attività con l’inaugurazione di allestimenti di rilievo – penso ai grandi eventi celebrativi del Barocco in Piemonte – si è nuovamente acceso l’interesse e il dibattito sui canali di fruizione dei beni culturali. Una boccata d’ossigeno, che ha pure messo in luce la buona risposta del pubblico, segno che quando c’è un’offerta, quando si torna a far circolare la bellezza, le persone non si sottraggono. Sempre d’estate in un sito tedesco che riproponeva la lettura di una rivista sulla necessità di curare l’arte contro l’oblio, mi ha fatto piacere vedere citate diverse istituzioni e iniziative per la divulgazione culturale, biblioteche, progetti editoriali e blog, tra cui il mio. L’intento è stato mostrare come differenti contenitori e saperi possano dare manforte alla circolazione di idee, dunque conquistare terreno a discapito del silenzio, della dimenticanza, vere insidie per l’educazione delle nostre sensibilità.
L’ultima puntata della fiction su Leonardo, al di là della sua impostazione romanzata, da fantasy rinascimentale, ma comunque gradevole, ha fatto oltre un milione di ascolti in più sulla partita di Champions trasmessa in contemporanea. Fra i titoli di commento si legge “Tutti in piedi per Leonardo”, con sullo sfondo la polemica relativa alla riapertura degli stadi che proprio in quella giornata ha tenuto banco; la miglior risposta l’hanno data gli spettatori. Investire sulle produzioni cinematografiche e teatrali così da poter contare su un ulteriore raffinato mezzo per esportare la bellezza italiana nel mondo; storie di artisti e dei luoghi in cui si sono svolte. Quale migliore e più immediata risorsa per catturare l’attenzione. Quando uscì il docufilm su Caravaggio della Nexo Digital sull’onda della grande mostra milanese – voce tormentata e straniante di Manuel Agnelli – con un minimo battage in rete tra blogger e appassionati, in uno spettacolo pomeridiano di un giorno feriale, abbiamo portato al cinema più di duecento persone. Fu il documentario d’arte più visto di sempre in Italia.
Di certo, l’emergenza sta obbligando a ripensare modelli, luoghi e tempi d’incontro con la cultura. Nel caso dell’arte gli strumenti multimediali offrono una sponda, purché vengano in ausilio, non per soppiantare ma per affinare ed espandere le potenzialità del patrimonio culturale. E un altro soccorso affatto secondario può forse venire dall’editoria. Il libro come catalizzatore di un interesse, come veicolo di racconti che tengano accesa l’immaginazione attorno a ciò che, se non si può vedere fisicamente, almeno resista nel nostro sentire, e venga qui coltivato fino all’incontro con lo sguardo. Premessa un po’ lunga per dire che le vie dell’arte portano sempre a un innalzamento che riguarda aspetti immateriali del vivere, altrettanto e talora più cruciali di quelli considerati ordinari, e per introdurre la storia di un gruppo di pittori che alla fine dell’Ottocento in nome di questa sostanza spirituale diede forma a un sogno, fuori dai canoni impressionisti, spinto dal vento del simbolismo letterario, affascinato dalle intonazioni del trascendente che volle sintetizzare nell’uso del colore. Un movimento di rottura tuttavia diverso dalle avanguardie storiche, composto da anime per così dire più fluide, sfuggenti, anche lontane tra loro per scelte esistenziali e dei soggetti rappresentati, poco se non affatto riducibili a schemi, manifesti, linguaggi comuni.
La storia dei Nabis mi appassiona da tempo in quanto cerchia eterogenea che nel travaso onirico fra segno, colore e parola ha scolpito la pietra sacra della propria avventura. Non solo, ma fin dal nome che si attribuirono – “profeti”, in ebraico –  intesero mettere al centro l’idea di un oltre sentimentale, di un sentire al di là, autentico fulcro d’ispirazione che produsse filoni creativi ancora non debitamente esplorati nelle loro ricadute, cosmi d’incredibile forza immaginifica da Pierre Bonnard a Marcel Denis, Paul Sérusier, Félix Vallotton, Jan Verkade, Edouard Vuillard.
Sono i frutti di una lunga stagione che connette i Preraffaelliti, i Rosa Croce, i Nazareni, fino ad approdare ai ritiri campestri nella comunità di Worpswede – fabbrica del primo espressionismo. E da qui a certe correnti pre-dadaiste, già nell’ottica di un superamento del simbolismo, animate da una concezione naturalista e anarchica, orientate a istanze di spiritualità, come nell’ambito della colonia di artisti attivi a Monte Verità, presso Ascona (1914-1915). Si ridiscutevano le consuetudini realistiche della tradizione rinascimentale, pure attingendo alla sua espressione più matura – non la lezione di Beato Angelico e Ghirlandaio, ma quella di Raffaello e Leonardo da Vinci, che guardano alla natura con  occhio più distaccato, introspettivo – si voltavano le spalle alle conquiste figurative dell’impressionismo per infondere alle cose una qualità simbolica, per proiettare sul paesaggio le ombre del non visto, per dare colore agli invisibili legami che permeano la realtà. Tali istanze determinarono nei singoli artisti risvolti biografici assai diversi. Per Sérusier, l’allievo prediletto di Gauguin sotto i cui ammaestramenti, nei memorabili giorni del ritiro di Pont-Aven, dipinse il celebre Talismano (1888), fu la volontà di immergersi negli scenari selvaggi della Bretagna, lontano dai clamori della capitale ma più vicino a quel primitivismo cui lo aveva iniziato il suo maestro. Nel caso dell’olandese Jan Verkade la scelta di farsi monaco. Di Gauguin, l’ispiratore di tutti, è noto lo strappo che dall’estate del 1891 lo portò a Tahiti – da allora Sérusier venne considerato il suo successore, nonché in un certo senso l’esecutore testamentario di quei singolari seguaci profeti rimasti orfani del padre. L’inquieto Vallotton, che si era fatto conoscere per la sua guerra dichiarata alle convenzioni, nel 1899 in seguito al matrimonio con una delle figlie del grande mercante d’arte Alexandre Bernheim, si adeguò a una pittura più conformista popolata di vedute e nature morte. Bonnard invece restò fedele a se stesso, ancorato al suo tratto finemente psicologico, accentuandone le aperture coloristiche. Picasso definì la sua una “non pittura”, perché a suo dire Bonnard non andava mai al di là della propria sensibilità, non sapeva scegliere. Ecco cosa scrive Sileno Salvagnini, curatore della monografia sui Nabis pubblicata dalla Giunti: «Dell’inflazione cubista che si sviluppò dopo la prima guerra mondiale, avrà a dire un pittore polacco avvicinatosi ai Nabis: «Accanto a Cézanne, Bonnard era stato per noi il punto di partenza di una opposizione contro gli epigoni del cubismo, che, da quell’epoca, riempivano le esposizioni di mandolini schematici, di forme geometriche sempre le stesse, e di qualche colore della loro povera tavolozza. “Dei pidocchi sulla mia testa” diceva Picasso parlando di loro. Il mondo di Bonnard invece apriva davanti a noi delle strade che ci parevano meno limitate, perché restava fedele alla tradizione di Cézanne e di Gauguin».»
Menti di una generazione geniale che si erano ritrovate sui banchi del Lycée Condorcet di Parigi, quindi all’Académie Julian. Letterati, basti su tutti Marcel Proust, figure di primo piano della stagione politica a venire, come ad esempio Robert Dreyfus, mecenati, banchieri, quali i fratelli Natanson, di origine polacca, che rilevarono «La Revue Blanche», organo di stampa degli esordi Nabis, e finanziarono numerose mostre. Tutti, per un singolare gioco del destino, condivisero la loro adolescenza nelle classi del leggendario liceo parigino, di cui lo scrittore Daniel Halévy ci ha consegnato un vivido ritratto. Ma è anche una storia di figure femminili, muse discrete, che accompagnarono l’attività dei pittori, come modelle e mogli. È il caso della fascinosa Misia, quasi apparizione ultraterrena, dipinta con struggente devozione da Vuillard, della femminilità protettrice di Marta, moglie di Denis, dell’erotismo ipnotico di Marie Boursin, prima modella, poi sposa di Bonnard. Una parabola che è durata appena dodici anni, indicativamente dal 1888 al 1900, la cui linfa ha però continuato ad alimentare immaginari d’arte paralleli e di molto successivi alla conclusione ufficiale del sodalizio. Questi percorsi sono tuttora oggetto di studio e approfondimento, come ad esempio nel caso della mostra sulle ricadute dell’opera di Maurice Denis nella pittura d’avanguardia di matrice austriaca (Simbolismi ai confini dell’impero asburgico/ Symbolismus an den Grenzen des Habsburger Reichs, Skira, 2007). Un’avventura creativa che non ha smesso ancora di parlarci né di liberare la sua carica profetizzante.     


(Di Claudia Ciardi)


* In copertina: Paul Sérusier, Il talismano, 1888 (quando lo dipinse, Sérusier aveva ventiquattro anni) 

 

Edizione di riferimento:


Sileno Salvagnini, I Nabis, «ArteDossier», n. 304,  Giunti, 2013

 

 

 

 

 

 

  * Paul Ranson, Lustrale, 1891 




Paul Gauguin, La visione dopo il sermone, 1888




Maurice Denis, Le Muse, 1893

 


 Paul Sérusier, L'incantesimo, 1891-1892




Edouard Vuillard, Interno o Misia a Villeneuve-sur-Yonne, 1897


Si rimanda inoltre alla lettura di:

Simbolismi ai confini dell'impero asburgico

Il piegar de’ panni s’immerge nella luce