28 luglio 2016

Thomas Stearns Eliot «Non c'è neppure solitudine fra i monti»




Si vuole qui commentare brevemente la chiusa del The Waste Land, oscillante tra allucinazione colta, miraggio onirico e profetismo nietzschiano, del quale si coglie un riflesso nel titolo, Ciò che disse il tuono, ma che nei fatti risulta subito disinnescato da un’attitudine alla miniatura ironica e scomposta, in linea col resto del poema. Riconosciuto all’unanimità come pietra angolare della poesia novecentesca, che con questo lavoro di Eliot si allarga a nuovi orizzonti sul piano tecnico e dei suoi principi ispiratori, in riferimento alla mia esperienza personale posso dire di averlo letto una dozzina di volte in italiano e altrettante in inglese. E di non esserne ancora sazia, direi anzi per nulla. Il fotomontaggio per frammenti che Eliot ha concepito sfugge e allo stesso tempo attrae in virtù della sua assoluta compiutezza. Le intersezioni letterarie, il loro peso immaginifico, ma ancor più la disinvoltura con cui vengono fatte cadere nel grembo dell’opera, le assicurano il costante ritorno di chi legge.
Lode del frammento, della rovina, dell’abbandono, di ciò che non si riesce compiutamente a raccontare di sé, come lautore non manca di ribadire in una delle strofe finali che introducono non a caso l’immagine dantesca della prigione di Ugolino. È chiara, soprattutto, l’amarezza per il poeta che non sa trasmettere agli altri il momento della resa (a moment’s surrender), quando spiritualmente diviene unisono col mondo raggiungendo quelle altezze interiori che l’ordinarietà delle cose disperde: «La terribile audacia d’un momento d’abbandono/ che una vita di prudenza non potrà mai revocare». Disfatta e attesa di rigenerazione in un aprile “non crudele”, questi i due centri radiali che tengono a battesimo l’intero ragionamento poetico. 
Tali tematiche si prestano all’entrata in scena di quelle ombre rituali ed escatologiche che si addensano attorno a buona parte della lirica anglosassone del primo Novecento. Lo smembramento di Osiride-Dioniso, metafora dell’atomizzazione della storia dopo la prima guerra mondiale, la morte di Cristo, associato a Tammuz e alle altre figure divine della fertilità, che raccoglie su di sé l’idea di una palingenesi, cui spesso si accompagna l’alternarsi delle stagioni imperniate sulla primavera, come metafora di rinascita. Anche qui infatti l’origine è aprile, sebbene di un tempo sovvertito si tratti, doloroso snodo di memoria e desiderio dove tutto si rimescola. A ciò vanno aggiunte l’allegoria dell’ascesa al monte e la sacralità che circonfonde il paesaggio di montagna, così come il viaggiatore che gli si avvicina. Nel caso del passo di Eliot, tutto risulta amplificato dall’accumulo di altri indizi pertinenti con l’immaginario sacro orientale: il Gange, il fiume della vita e della morte, asse dell’induismo, il riferimento esplicito all’Himavant, una delle cime dell’Himalaya che presiede alla manifestazione del tuono, e le citazioni dalle Upanishad, che Eliot era in grado di padroneggiare avendo studiato sanscrito ad Harvard nel 1911-’13. Una propensione all’orientalismo che attraversa la cultura europea dalla fine del Settecento, continuando a ramificarsi nelle più recenti espressioni della creatività letteraria. Pensiamo ad esempio al soggiorno di W. B. Yeats a Palma di Majorca in compagnia di uno Swami indiano, Shri Purohit, al fine di tradurre insieme le maggiori Upanishad.
Si consideri la frequenza con la quale simili riferimenti affiorano tra le pagine dei Pisan Cantos di Ezra Pound, la cui elaborazione risale al termine della seconda guerra mondiale ma che evidentemente sviluppano motivi già incardinati nel ciclo dei Cantos inaugurato nel 1919. Uno su tutti, la sovrapposizione tra il Taishan, il complesso montuoso venerato in Cina, e i Monti Pisani che fanno da sfondo alla prigionia del poeta. Allegoria, quella della salita al monte, che nell’immaginario poundiano si salda sull’essenza femminile in quanto mistica portatrice di un principio di creazione: «To be gentildonna in a lost town in the mountains» (Canto 78).
Sui nomi di Eliot, Pound, Yeats confluiscono dunque interessi che attengono al medesimo sostrato culturale, dagli spunti mitologici all’esoterismo, dal modo di dialogare con l’antico e in generale con le lingue all’insegna del pastiche fino al gioco onomatopeico. Letterati che strinsero tra loro rapporti di amicizia e che forse, proprio per questo, si ritrovarono anche nella trasposizione di una memoria autobiografica, oggetto di scavo simbolico e depositaria di una sintassi parallela a quella del mito.
Le opere dove più sono vivi i contatti cui si accennava originano peraltro nel medesimo arco di anni. Il The Waste Land vide la luce nel ’22, ultimo in ordine di tempo. Dell’inizio dei Cantos si è già detto; li precedette di poco la raccolta I cigni selvatici a Coole di Yeats (’17). Costruiti attorno alla sagoma della vecchia torre normanna di Ballylee, sua amata residenza raggiungibile a piedi da Coole House, dimora dell’amica e protettrice Lady Gregory, i versi di Yeats nella loro soffusa rappresentazione di un cosmo primitivo dal quale dipende l’alchimia spirituale che sorregge l’intera architettura poetica, esprimono probabilmente una delle più profonde consonanze con il poema di Eliot. Quell’accenno à la tour abolie, la torre infranta, su cui si chiude La terra desolata appare quasi un tributo iniziatico alle simbologie del grande poeta irlandese. 

Nei tarocchi la carta della torre, emblema della ragione, ci mostra un fulmine che si abbatte sulla sommità dell’edificio. Monito a non salire troppo in alto, guidati dalla superbia – richiamo al meden agan greco – ma di nuovo pure aspirazione al cambiamento, alla conquista della libertà. La folgore distrugge le strutture del pensiero e in tal senso l’autore guarda con una specie di accondiscendenza al capitolare del proprio stesso lavoro. Il suo sforzo di traduzione imperfetta e incompleta dell’umano sentire, del travaglio di intelligenza e cultura che è alla base della civiltà, trova rifugio e autentica comprensione in una pace che travalica l’esercizio raziocinante.

(Di Claudia Ciardi)  


Ciò che disse il tuono
(Parte V – The Waste Land)

Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
dopo il silenzio gelido nei giardini
dopo langoscia in luoghi petrosi
le grida e i pianti
la prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
del tuono a primavera su monti lontani
colui che era vivo ora è morto
noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
con un po di pazienza

Qui non cè acqua ma soltanto roccia
roccia e non acqua e la strada di sabbia
la strada che serpeggia lassù fra le montagne
che sono montagne di roccia senzacqua
se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
vi fosse almeno acqua fra la roccia
bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
non cè neppure silenzio fra i monti
ma secco sterile tuono senza pioggia
non cè neppure solitudine fra i monti
ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
da porte di case di fango screpolato

Se vi fosse acqua
e niente roccia
se vi fosse roccia
e anche acqua
e acqua
una sorgente
una pozza fra la roccia
se soltanto vi fosse suono dacqua
non la cicala
e lerba secca che canta
ma suono dacqua sopra una roccia
dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini
drip drop drip drop drop drop drop
ma non cè acqua

Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
cè sempre un altro che ti cammina accanto
che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
io non so se sia un uomo o una donna
- ma chi è che ti sta sull'altro fianco?

Cosè quel suono alto nellaria
quel mormorio di lamento materno
chi sono quelle orde incappucciate che sciamano
su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
accerchiata soltanto dal piatto orizzonte
qual è quella città sulle montagne
che si spacca e si riforma e scoppia nellaria violetta
torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
irreali

Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri
e sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
e pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
squittivano, e battevano le ali
e strisciavano a capo all'ingiù lungo un muro annerito
e capovolte nellaria cerano torri
squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore
e voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.

In questa desolata spelonca fra i monti
nella fievole luce della luna, lerba fruscia
sulle tombe sommosse, attorno alla cappella
cè la cappella vuota, dimora solo del vento.
non ha finestre, la porta oscilla,
aride ossa non fanno male ad alcuno.
Soltanto un gallo si ergeva sulla trave del tetto
chicchirichì chicchirichì
nel guizzare di un lampo. Quindi unumida raffica
portatrice di pioggia

Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate
attendevano pioggia, mentre le nuvole nere
si raccoglievano molto lontano, sopra lHimavant.
La giungla era accucciata, ingobbita in silenzio.
allora il tuono parlò
DA
Datta: che abbiamo dato noi?
Amico mio sangue che scuote il mio cuore
lardimento terribile di un attimo di resa
che unèra di prudenza non potrà mai ritrattare
secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
che non si troverà nei nostri necrologi
o sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
o sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
nelle nostre stanze vuote
DA
Dayadhvam: ho udito la chiave
girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei
ravvivano un attimo un Coriolano affranto
DA
Damyata: la barca rispondeva
lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
lietamente, invitato, battendo obbediente
alle mani che controllano

Sedetti sulla riva
a pescare, con la pianura arida dietro di me
riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?
Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo
poi sascose nel foco che gli affina
quando fiam uti chelidon - O rondine rondine
le Prince dAquitaine à la tour abolie
con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
bene allora vaccomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih sbantih sbantib


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