28 luglio 2017

Il Museo della Montagna





È di sicuro uno dei luoghi più poetici di Torino, non solo per gli appassionati di montagna. Salire al Monte dei Cappuccini significa godere di una delle viste più belle della città e, se vogliamo, anche di una prospettiva un po’ insolita. Il punto panoramico sulla terrazza del museo permette di abbracciare l’intero abitato, con uno degli scorci migliori sopra il Po – i Murazzi nei pressi del ponte Vittorio Emanuele – davanti alla corona delle Alpi. Tuttavia le montagne non si concedono facilmente. Se si va lassù in estate, come ho fatto anch’io, è abbastanza probabile non vederle per nulla; foschia e inquinamento hanno di certo la meglio. E mi raccontava il responsabile di questo spazio che anche d’inverno le condizioni ottimali per un avvistamento nitido, senza velature né opacità, sono assai rare. La foto ufficiale che campeggia all’entrata del polo espositivo, realizzata nel 2011, ha richiesto sei mesi di appostamenti. Mentre mi beavo di questa singolare impresa, che grazie alle qualità del mio narratore si ammorbidiva nei toni della cullante garbatezza piemontese, immaginavo la vita del fotografo per così tante settimane in cerca dello scatto giusto. Ad ogni modo la resa finale è valsa sicuramente questo enorme, quasi monastico, esercizio di pazienza. 
So bene come vanno certe cose. Anche le Apuane da Boccadarno sono piuttosto volubili e capricciose. Talvolta si scoprono in maniera del tutto inaspettata, cogliendo di sorpresa i loro devoti ritrattisti che non riescono a organizzarsi in tempo per puntare gli obiettivi. Questione di poco, cambio di luce, un po’ di foschia dal mare e addio panorama. Tanto che quando cerco di descrivere ai forestieri l’esistenza di questo piccolo Tibet affacciato tra la foce dell’Arno e l’incantevole Marina, mi prendono per un’invasata che, causa un attaccamento puramente personale, tende a ingigantirne il fascino paesaggistico. Ma chi lo ha visto, sa. Può capitare pure che nel giro di una serata si scoprano i crinali del versante viareggino e allora, stando in piedi al centro della piazza del paese, si veda l’alpe accesa dal tramonto navigare letteralmente attraverso la foce e incombere sulle case. Eppure, lo ripeto, sono perle rare. Le montagne, ne sono sempre più convinta, ti sentono e si lasciano avvicinare solo se sai rispettarle e amarle. Questa considerazione l’ho letta in tanti libri di alpinisti – quelli veri – e per prima l’ho incontrata nei bei racconti di Mario Curnis, quando rivolgendosi all’Everest pronunciava questa sorta di preghiera «Ascoltami: stavolta siamo appena in due; due pellegrini e uno sherpa. Saremo tranquilli. Non ti disturberemo. Non sporcheremo le tue nevi. Però tu lasciaci venire su» [Annuario 2002 del Cai di Bergamo]. Quasi un incantesimo, appunto, che mi ha tanto commossa perché molto dice della sensibilità di chi lo ha pronunciato e del suo modo di avvicinare la natura. È lo stesso quando cerchi di rubare l’immagine perfetta a una cima; le montagne le vedi solo se lo meriti.    
Il museo torinese è un luogo accogliente, capace di trasmettere al visitatore il senso dell’avventura, della conquista, della sfida ai propri limiti, pur condotta con intelligenza e modestia, della non comune forza di volontà che richiede lo spingersi in alto – io amo chiamarla la religione del camminare – ma soprattutto mette al centro l’etica della montagna. L’allestimento consiste in un bel connubio tra storia delle spedizioni, pittura e fotografia di montagna dall’Ottocento a oggi, oltre al cospicuo lascito orientale della collezione di Mario Piacenza, costituito da vesti, statue del Buddha, oggetti rituali e d’uso domestico provenienti dal Ladakh, regione himalayana inesplorata fino al suo viaggio del 1913.   
Per quanto riguarda l’excursus fotografico hanno principalmente catturato la mia attenzione le gigantografie in seppia che narrano la lenta inesorabile salita alle cime agli albori dell’alpinismo, con una preferenza per quelle incentrate sulle donne, nei loro ingombranti gonnelloni d’epoca, affacciate ai punti d’osservazione dei rifugi sul Monte Bianco o il Cervino. Gli uomini le affiancano con assoluta naturalezza. Tutti sono rivolti alla montagna. Sono dei pionieri è evidente; anche se non si tratta di scalatori ma di semplici escursionisti, loro sono comunque i primi e sanno di esserlo. Un simile sentire trapela benissimo dalle immagini, e ancor più lo si nota nella postura delle donne, un atteggiamento che sa di orgoglio e di forte affermazione ma che forse tradisce anche un moto di libertà, un istinto naturale cui finalmente si è potuto dare corda.  
Nato nel 1874 come osservatorio dotato di cannocchiale annesso a uno spartano padiglione di legno, poi trasferito nei locali limitrofi dell’ex convento dei Cappuccini, le sale del museo hanno acquisito negli anni una fisionomia multidisciplinare e polifunzionale, spaziando dall’ambito scientifico a quello artistico e didattico, grazie alle mostre che vi si inaugurano nel corso di tutto l’anno e alla presenza della biblioteca nazionale del Club Alpino Italiano – in tutto trentaquattromila monografie e più di mille e seicento periodici a tema montagna.
A partire dal rilevante contributo del Duca degli Abruzzi, Luigi di Savoia, cui è intitolato, e poi con l’Esposizione Internazionale organizzata a Torino nel 1911, il complesso è venuto arricchendosi di materiali e prestigio. Nonostante qualche battuta d’arresto, questo luogo ha saputo traghettare ai giorni nostri ciò che è stato il sogno di tante generazioni passate che per prime lo hanno coltivato avvicinando l’ambiente e la cultura di montagna, e ha il merito di contribuire all’odierno dibattito sulla salvaguardia del patrimonio naturale e sui modi di raccontarlo attraverso la parola e l’immagine.


(Di Claudia Ciardi)   


*Presso la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano (Salita al Cai, Museo della Montagna - Torino) si trovano le copie del mio volumetto di ambito tirolese, Lou Andreas Salomé, Lungo il cammino, Via del Vento edizioni, 2016.



Il Monte dei Cappuccini dal Po
 

* Fotografie di Claudia Ciardi
©


14 luglio 2017

Tra montagne e omeni de paia




Si segnalano due mostre dedicate al paesaggio e alle tradizioni culturali dei territori dell’Alta Valsugana. Il primo di questi eventi racconta l’attività estrattiva e il lavoro dei cavatori in quota. La fatica, il duro vivere e soprattutto una significativa metamorfosi ambientale sono al centro della narrazione di Kathia Lenzi. Testimonianza intensa del rapporto simbiotico tra uomini e montagne che apre all’attuale dibattito su cultura del territorio, conservazione e tutela della sua specificità identitaria e geografica.

La seconda rassegna ci introduce al mondo affascinante e onirico degli spaventapasseri, i fiabeschi guardiani dei campi, simbolo per eccellenza dello spazio rurale, coi suoi riti e ritmi. Entrato potentemente nell’immaginario collettivo, il pupazzo di paglia levato al vento si è visto al centro di rappresentazioni alchemiche quanto di catarsi cristiane che in lui hanno proiettato l’idea del martirio e della redenzione. Nel Mago di Oz lo spaventapasseri vestito d’azzurro si confonde cromaticamente col cielo, è in tutto e per tutto elemento d’aria e rivela un’essenza se vogliamo dire totemica, simile sul piano caratteriale a quella di un Pinocchio. Nel mio personale ricordo associo questa creatura arcaica e forse perfino inquietante, non fosse che per il suo compito d’incutere timore, al resoconto della sua creazione e vestizione per bocca di mia madre, che da piccola osservava il nonno destreggiarsi fra ciocche di paglia e vecchi vestiti: “una giacchettaccia, dei pantaloni rattoppati”, queste parole, da lei spesso ripetute, mi son sempre suonate come uno strano incantesimo. E puntualmente immaginavo l’anziano agricoltore che si caricava in spalla quel bizzarro manichino, navigando fino al centro del campo.

Straordinaria testimonianza della nostra più profonda tradizione contadina, l’obiettivo di Adriano Condini, che per ventisette anni ha percorso le valli del Trentino, le rende un degnissimo omaggio con una serie di commoventi ritratti in bianco e nero.

Ringrazio il Bersntoler Kulturinstitut per le preziose segnalazioni. Di seguito si riportano i comunicati dei singoli eventi e gli orari di visita delle mostre.

(Di Claudia Ciardi)


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L’esposizione, curata da Katia Lenzi, collaboratrice dell’Ecomuseo Argentario, presenta 110 fotografie provenienti dall’archivio del progetto “Quando andavamo in miniera. Immagini e voci dei paesaggi minerari storici della Comunità Alta Valsugana e Bersntol”, esplorando il paesaggio estrattivo nei suoi aspetti più rilevanti: i paesaggi di miniere e cave, il lavoro sottoterra, le strutture e i macchinari, i lavoratori.
Diversi livelli tematici e punti di osservazione permettono al visitatore di riconoscere innanzitutto le tracce dell’intervento umano nella trasformazione “fuori terra” e “sottoterra” del territorio, operata attraverso i mezzi di lavoro, manuali prima meccanizzati poi. Queste tracce però ci parlano soprattutto di vicende di operosità, fatica, vicinanza e amicizia, riflesse nei volti di chi ha vissuto e vive in un paesaggio scavato.

La mostra fotografica della Comunità Alta Valsugana e Bersntol sulle miniere e cave in Alta Valsugana, Valle dei Mòcheni e Monte Calisio, curata da Katia Lenzi sarà visitabile presso la sede dell'Istituto culturale mòcheno a Palù del Fèrsina dal 7 al 23 luglio, tutti i giorni, dalle ore 10.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 16.00.


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Gli spaventapasseri vivono come noi, almeno quelli sulle fotografie di Adriano Condini. A queste creature magiche auguriamo molta fortuna nel loro viaggio dai campi trentini!
In tre sedi museali della Valle dei Mòcheni/Bersntol sarà possibile osservare in tre tappe le fotografie in bianco e nero di Adriano Condini di questi Omeni de paia, scattate nel corso di 27 anni nelle vallate trentine.
Nati come sentinelle contro gli uccelli, gli “uomini di paglia” diventano simbolo di difesa del nostro ambiente.

14 luglio - 28 agosto 2017
Ecco le tre sedi con i rispettivi orari di apertura:

Museo Pietra Viva, loc. Stefani, S. Orsola Terme
- domenica, dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 16.00
- venerdì e sabato, dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 16.00

Filzerhof, al km 10 della Strada provinciale n. 135 sinistra Fersina, Fierozzo/Vlarotz
- domenica, dalle 10.00 alle 12.00 dalle 15.00 alle 17.30
- martedì, giovedì e sabato, dalle 15.00 alle 17.30

Mil, al km 3 della Strada provinciale n. 233 Roveda, Frassilongo/Garait
- domenica. dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 17.30
- mercoledì, venerdì e sabato, dalle 15.00 alle 17.30




7 luglio 2017

Alberto Bregani - La montagna in chiaroscuro





Nella graziosa collana “Piccola filosofia di viaggio” della casa editrice Ediciclo il libro di Alberto Bregani è una perla di saggezza fotografica che ci introduce all’arte del ritrarre montagne. Talento complesso in cui le lunghe camminate per boschi e sentieri, con tutto ciò che l’andar per cime comporta, incontrano la pratica dai risvolti se possiamo dire alchemici di saper catturare al meglio luci e ombre. Virtù imprescindibile la pazienza che in quota fa rima con resistenza, perché spesso la foto va attesa in condizioni ambientali molto disagevoli.
Attraverso una prosa semplice che non respinge il lettore negli asettici meandri del puro tecnicismo, Bregani ci accompagna in una delle sue passeggiate alla scoperta di questo singolarissimo mondo d’immagini tra nuvole e rocce. Sul filo dei ricordi personali che portano la sua escursione in parte sui binari del diario di un alpinista zen in parte verso il sommesso divagare di quel minimalismo letterario alla Robert Walser, che ogni buon camminatore ben conosce, chi scrive compie un vero e proprio incantesimo tascabile. In questo piccolo libro, infatti, ogni parola riconduce alla compiutezza di uno scatto.
Bregani parla di come e quando si assommino gli elementi giusti per un’istantanea che sia in grado di raccontare qualcosa, e questo suo resoconto con cui allude alla bellezza di un’immagine è un modo perfettamente riuscito di consegnare nelle nostre mani un singolarissimo catalogo fotografico costruito per lievi, tacite evocazioni. L’allusività di quest’opera, il sottile gioco all’inseguimento fra rappresentazione verbale e uso dell’obiettivo ne fanno un piccolo manuale per appassionati, ma forse soprattutto per neofiti. E ciò grazie all’umiltà con cui Bregani spiega il suo mestiere. Perché quest’arte nasce tutta in simbiosi con la natura e dunque si dà solo nella genuina pretesa di tale attaccamento o se vogliamo affiatamento. C’è alla base una devozione se vogliamo cultuale nei confronti degli spazi in cui si tenta di astrarre lo spirito di una narrazione. Chi scrive ha scelto di coltivare questa religiosità dell’immagine in bianco e nero, secondo la tradizione degli altri grandi ritrattisti che hanno legato il loro nome al profilo delle vette, da Ansel Adams a Vittorio Sella. Emblematica la sintesi che si legge nel libro sul lavorare in assenza di colori: «C’è un momento della giornata, ben conosciuto dai fotografi che scattano a colori, che si chiama ora blu. È intorno al crepuscolo. Non c’è più sole, ma non è ancora completamente buio. È una situazione molto ricercata, perché la luce ha una temperatura più fredda che contribuisce a ottenere aree di penombra, colori desaturati e più freddi, e cielo blu intenso. Ecco, tutto questo con il bianco e nero io non ce l’ho. Rende sicuramente meglio a colori. Ma anch’io ho il mio momento ideale: quello in cui il sole è presente ma ancora per poco. Ha un’inclinazione perfetta per dare risalto alle pareti, i bianchi delle nuvole si accendono e i giochi di luci e ombre acquistano densità e definizione».
Vediamo ancora una volta in queste righe come il quadro prenda letteralmente forma sotto i nostri occhi, oltre a percepire con chiarezza la disciplina quasi ascetica che si richiede a chi impugna la macchina fotografica. Nel ricostruire la messa a punto di alcuni dei suoi lavori più belli, Bregani isola l’elemento imponderabile, quell’imprevisto che può rovinare le premesse per il migliore degli scatti possibili ma anche trasformare una situazione di luce piatta in una vista insolita e profonda. E ciò si accompagna alla necessità di distinguere tra esecutore e autore, una differenza che al nostro fotografo non preme affatto sottolineare in nome di un presunto narcisismo artistico incaricato di scoraggiare qualsiasi ricerca amatoriale. Anzi. Ben vengano i molti appassionati senza pretese, perché anche la foto è un mezzo per avvicinare la gente alla cultura di montagna e a un ambientalismo responsabile. Per Bregani si tratta solo di rendere cosciente il lettore dei diversi gradi in cui l’opera di ritrarre il paesaggio possa svilupparsi. Ed è pur vero che vi sono casi in cui l’incappare in condizioni meteorologiche particolarmente favorevoli e inaspettate, talvolta regala scatti di notevole impatto narrativo.
Io che in materia di fotografia riesco appena a definirmi una simpatizzante, quando ripenso a certe circostanze della mia vita capisco in pieno il senso della fortuna e del fattore inatteso di cui parla Bregani a proposito di scatti riusciti. Tra gli episodi più recenti ci sono un temporale improvviso sul golfo di Trieste mentre il sole stava tramontando e una schiarita a Boccadarno – di quelle che capitano una volta all’anno quando va bene – con le Apuane che sembravano a un passo dal fiume e la linea di costa marcata fino alle Cinque Terre. Quel che avvenne a Trieste fu davvero incredibile. Arrivata in città alla fine di settembre con un sole quasi imbarazzante, nel pomeriggio ebbi l’idea di andare al mare. Non avevo pianificato il mio spostamento e la sosta fu decisa in modo del tutto impulsivo. Mentre ero sull’autobus la luce aveva cominciato a cambiare e, col timore di ritrovarmi nel bel mezzo di una tempesta ma impaziente anche di scattare qualche foto, al primo varco che vidi aprirsi nella pineta alle mie spalle saltai giù. Scoprii di essere a Barcola. E la vista in quel punto, a quell’ora, col cielo spaccato in due metà esatte tra il cupo delle nuvole e l’incendio del tramonto, mentre il vento prendeva forza sul mare spingendo le due metà a toccarsi, io credo sia stato uno degli spettacoli più singolari e intensi a livello cromatico cui fosse dato assistere lì. Ecco una grande fortuna, ecco come qualcuno che visiti un posto per la prima volta non possa sperare di essere salutato meglio dallo spirito del luogo. Son sicura che la mano di un professionista avrebbe realizzato qualcosa di straordinario. Eppure custodisco gelosamente quei miei scatti che, com’è inevitabile, si legano a miei ricordi di quelle ore benedette.
Di questo libro di Alberto Bregani ho apprezzato la naturalezza con cui ci introduce alle cose semplici e autentiche del vivere. Camminare, aggiungere strade alla nostra quotidianità, non fuggire i percorsi che ci guidano alla conoscenza degli altri e di quello che ci circonda, abbandonarsi agli imprevisti, agli incontri, in una parola esplorare gli infiniti mondi che ruotano dentro e fuori di noi e, sentendone l’esigenza, provare a raccontarli.  


(Di Claudia Ciardi)


Alberto Bregani, La montagna in chiaroscuro. 
Piccolo saggio sul fotografare tra cime e sentieri,
Ediciclo editore, 2017


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