15 ottobre 2015

Guglielmo II e la tenzone dei coboldi


Copertina di una rivista di trincea - prima guerra mondiale

Queste righe potrebbero anche intitolarsi pedinamento. Ma andiamo per gradi. Vi sono diversi modi di essere lettori, così come per esprimere a qualcuno la nostra stima si possono imboccare vie differenti. Barbe didascaliche, spropositi accademici, pedanterie di ogni taglia non giovano alla comunicazione. Lo scrittore che se ne ammanta, invita il lettore a uno scimiottamento altrettanto patetico e immancabilmente lo distoglie dall’oggetto della propria riflessione. Sentire e sapere divergono come due mete opposte, perché chi scrive tende con colpevole lucidità a imboscarsi. Lo sfoggio sapienziale, lontano dal riflettere un autentico radicamento di sguardi e culture, troppo spesso è un mezzo che favorisce la fuga, forse anche l’insinuarsi nel messaggio di travisamenti quando non di spudorate falsità. L’affettazione letteraria, escludendo chi se ne serve per prenderla a sberle, dovrebbe far stare in campana quel popolo sterminato di incauti che si avvicina a un testo. Per questo stesso motivo il tipo allevato nel turgore accademico, rischia di essere una gran seccatura. Le sue lenti saranno sempre un po’ più spesse di quelle di altri, il suo passo un filo più marziale, la sua pompa fragorosamente irritante. Quando siete innocenti, cioè non avete fornito alcun appiglio a un simile contegno e vi piove comunque addosso, ebbene, ci si può solo rassegnare. È così infatti che ha inizio un pedinamento in piena regola. Voi non lo sospettate neppure, ma ci sarà un occhio sempre spalancato sul vostro scrittoio, pronto ad annotare qualsiasi pur minimo scricchiolio nei vostri ragionamenti, solerte a rilevare quelle che per lui sono inaccettabili trascuratezze, ma soprattutto vi servirà su un piatto d'argento la sua specialità: sarà lo spericolato cocchiere delle contraddizioni che vi attraversano. Perché, sia chiaro, ciò che i comuni mortali interpretano come normale attività di un cervello, per il lettore abituato alle scarrozzate auliche ogni bisbiglio rischierà di compromettere il bisbiglio precedente e via dicendo. Ogni singola parola si rovescerà sui banchi di un tribunale, sarà setacciata da un codice che ne vaglierà o meno l’ortodossia giuridica, tutto insomma verrà riscritto secondo la sua vicina o lontana parentela con la cosiddetta procedura fino all’inappellabile sentenza. Per lo più a sfavore di quell’insieme che stando al giudice troppo blandamente ha incoronato la cincischiaggine.
Di simili comportamenti costrittori ammetto che ne ho sperimentati diversi. Quasi sempre, alla fine di una lezione, mi è successo di sentirmi rivolgere domande imbarazzanti. Laddove confidavo in una riflessione di più ampio respiro sulla poesia, se di poesia si era parlato, puntuale e brutale giungeva la smentita dell’impiccione di turno. Le mirabolanti possibilità del suo ingegno gli consentivano appena di articolare una questioncina cronologica o di rimettere in ballo un luogo comune, tanto comune, che smentirlo avrebbe potuto scatenare una sommossa o magari farmi venire un mancamento. Più volte ho lasciato affondare cotanta ottusità insieme alla sua dottrina. Le donne, in questi casi, si fanno benvolere un po’ di più, anche se di un’inezia. Ma se capita quella che si spertica per mezz’ora tra psicologismi e beghe intellettuali non sospette, posso solo sperare che il suo braccio sfiori quello del vicino bacchettone, e che presi da reciproca voluttà inforchino l’uscita.
Eppure c’è un’altra situazione perfino più imbarazzante. Il costrittore numero tre è il peggiore, principalmente perché più educato degli altri due. Le sue buone maniere pretendono di far breccia ad ogni nostro passo. Al cuore non ci arriva, in quanto non gli riesce di vedere più lontano del suo naso. Ma secondo lui sì che vede lontano, e tanto più lontano di noi che sa esattamente quello che cerchiamo, quello che una nostra frase sottintendeva, dove volevamo arrivare “eh, io so quel che lei voleva dire”, è il ritornello che porta ben in vista nel taschino. Sente di doverci consolare da qualcosa che ci indispone e che solo lui sa cosa sia. Ovvio, la sua presenza innanzitutto, ma ancora una volta il naso oscura l’orizzonte e di nuovo eccolo che ci viene incontro. 
Se qualcosa mi infastidisce davvero è chi pretende di essere l’interprete esatto della sensibilità altrui. Non c’è bisogno di dire che siamo degli infiniti. Quasi nascondiamo a noi stessi certe inconfessabili sfumature di quel che proviamo. Chi è così folle da affiancarsi a qualcuno con una simile prolissità emotiva? Con le donne poi è un errore che sa di dilettantismo. Le donne non cercano affinità ma somiglianza. L’affinità è l’atteggiamento di quanti pretenderanno la vostra simpatia, relegandovi sulla soglia delle proprie attenzioni, e a patto che non ve ne lamentiate. Nasce al confine di due personalità e purtroppo è destinata a non varcarlo mai. La somiglianza invece, quando è autentica, cioè quando nessuno si preoccupa di rimarcarla, gioca le sue carte nel disaccordo, sboccia nel pieno di una vera e propria bufera tra due caratteri in opposizione ma non opposti. Nessuno rinfaccerà la sua similitudine all’altro, si può star tranquilli. Non vi sarà pedinamento alcuno, e forse prima o poi ci si sorprenderà inaspettatamente vicini in un momento di tregua. 
E vengo, dunque, all’ultimo caso di petecchiosa ridondanza che mi ha investita. Si parlava di Dino Campana, ne ho scritto anche a più riprese in passato e nell’anno in corso. A settembre mi conferiscono un riconoscimento nell’ambito delle celebrazioni del poeta. Qualche tempo dopo discuto di modernità e classicismo e salta fuori il nome di Guglielmo II, cui il poeta di Marradi dedica come noto i Canti Orfici. Poiché non riservo all’imperatore tedesco un giudizio esattamente lusinghiero, nel folto del bosco il ridicolo letargico costrittore di turno pensa bene di scrivermi e mettermi sotto il naso la deprecabile contraddizione in cui sarei caduta. Ora, io non ho diciamolo pure un nasino alla francese, ma non mi impedisce come altri di vedere abbastanza chiaro davanti a me. Insomma, per qualche strana proprietà logica sarebbe contraddittorio lodare la poesia di Dino Campana e criticare Guglielmo II. Il signor imperatore in questione gestì malamente la politica estera del suo paese, e il suo trono fu risucchiato dalla prima guerra mondiale; giusto ma pur sempre lieve contrappasso per aver fomentato, con lena anche maggiore dei vicini austriaci, quel bagno di sangue. Dino Campana aveva una venerazione per la cultura tedesca. Era un infaticabile traduttore, lettore onnivoro in molte lingue, ma al tedesco riservò sempre un posto d’onore. Fu tra i primi divulgatori in italiano di alcuni saggi freudiani “minori” che in Italia non si conoscevano neppure dal titolo. Insomma, quella dedica ancor prima di qualsiasi ricaduta politica, è scaturita in modo sanguigno e istintivo dal desiderio di rendere pubblico il legame tra il poeta e le cose d’oltralpe. Ma prendiamola anche per quel che è, un sonoro svarione di cui l’autore si pentì amaramente, data l'incombenza del casus belli, arrivando a cancellarla dalle copie in suo possesso e provando a fare lo stesso su quelle già vendute; un disperato inseguimento della propria opera che, pur se per motivi diversi dai tormenti della gestazione, proseguì a quanto pare dopo la stampa.  
Questo modo un po’ gendarme di guardare all’altro, di cavillare, sovrapporre, intrigare, brigare, che fa finire tutto nel vicolo cieco dell’assurdità, mi crea disagio. Sembra che la pigrizia e ancor più la somma incapacità di osservare le cose nel loro insieme, esasperino i dettagli, per occultarli con scientifica regolarità. E come potrebbe andare in modo diverso: ad avvicinarsi troppo l’immagine si sfuoca e il guardone sbatte contro la parete. Il ragionamento viene frantumato, a tal punto scomposto da negare le sue stesse premesse. Va da sé che le conclusioni non hanno più alcun valore. Proprio mentre mandiamo a male la nostra emotività, ci facciamo latori di una logica perfetta! Al confronto, il cilindro di un mago ostenta più coerenza. 
Insomma, per quanto mi riguarda mi avvio ben volentieri al patibolo delle contraddizioni monarchiche o d’altra natura. In un’epoca così prona a togliere pagliuzze per lasciarsi cadere in testa macigni, è difficile augurarsi qualcosa di meglio. Appurata la demenza dei detrattori, come del resto è sempre stato, non resta che confidare nella buona compagnia dei poveri diavoli. 

(Di Claudia Ciardi)      

9 ottobre 2015

Risus abundat!



 Duendecitos 
                                   Francisco Goya - Caprichos n. 49


Il riso abbonda e c’è poco da stare allegri. Non di cibo si discute ma di quella espressione liberatoria che solleva l’uomo dagli affanni quotidiani. Il parlare comune agita sulla punta della lingua una scorza di verità. Vi entra infatti un sentire che, applicando alla vita uno sguardo semplificato, ne ricava una saggezza tascabile, pur valida anche se non così esemplare. Il detto latino inclina forse troppo alla censura, «il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi». Chi non è stato motteggiato in questo modo? L’ammonimento è chiaro. Ridere, essendo una manifestazione di spontaneità, forse una delle più nobili di cui siamo stati dotati, non va d’accordo con l’eccesso né con la forzatura. Un sorriso non è solo l’affiorare sulle nostre labbra di un sentimento che improvvisamente ci innalza. È un moto di tutta la persona sul cui volto risale un’energia impulsiva, diffusa in ogni parte del suo corpo, della quale non si sospettava l’esistenza, e che invece se ne stava in attesa nelle sue più nascoste cavità. Non a caso avviene che la bellezza di qualcuno, mentre sta ridendo, si trovi accresciuta, come per un incantesimo.  
Ridere in eccesso, a sproposito, è segno di insicurezza, nervosismo, finanche follia. Non ridere mai è ugualmente il sintomo di una perdita del sé. Scontare una delusione spesso basta a farci dimenticare per molto tempo questa sacrosanta valvola di sfogo. Del resto, a soffermarsi sull’etimologia di deludere, è chiaro come l’essere umano sia un pendolo destinato a oscillare tra felicità e assenza di felicità, che non significa con esattezza infelicità ma una gamma piuttosto estesa, per certi versi ancor più insidiosa, di stati d’animo, dalla poeticamente nota mestizia alla più decadente noia. Deluso è chi, suo malgrado, si è allontanato dal gioco, in latino ludus. Il che vuol dire non partecipare a una dimensione di leggerezza e divertimento, di cui il riso è appunto il veicolo di maggiore espressività. 
La nostra epoca, che assomma le più diverse nevrosi e tende a trascurare con scientifica ignoranza gli aspetti essenziali del vivere, ha un rapporto alquanto controverso con l’emotività. Ama circondarsi di sensazioni artificiali, surrogati di mente e corpo, dove il coinvolgimento opera per induzione, e il più delle volte è tenuto a bada fuori dalla porta. È un’emozione addomesticata, svilita, prevenuta in ogni suo slancio. Quando in uno scambio epistolare o in una conversazione si affaccia qualcosa di somigliante a un sentimento, se una frase o addirittura una sola parola osano sfidare gli schemi della medietà, e va letta banalità, che in questo tempo sciagurato sorvegliano i pensieri di uomini e donne, scattano immediate le sanzioni del caso. La parola viene dispersa insieme alla voce che l’ha pronunciata. 
Tutto ciò che invita all’approssimazione, alla fretta, all’opportunismo, perfino al delitto, ottiene il più largo consenso perché, come dire, queste cose sono smerciate ovunque e, tranne la rovina di chi le pratica, non richiedono altro. Quasi che andare al diavolo sia meno compromettente di capire qualcosa di se stessi. Ecco cos’è ora il senso comune. Ogni tanto riemerge il ricordo di un bel paesaggio, e ci scopriamo ambientalisti della domenica, oppure vestiti da cultori dell’arte seminiamo polemiche versando fiumi d’inchiostro sul tale e il talaltro giornale, una rubrica tiene alta la sua picca contro un’altra, ma in un simile baccano la bellezza di un ambiente, la pittura e la poesia restano obliate senza rimedio. E questa attitudine fallace non da altro deriva se non dal sentire poco o nulla le cose dentro di noi, per quello che sono. 
Saper ridere allora, si capisce, diventa impresa assai complicata. Distanza e freddezza cui ormai si accompagna per rassegnazione la sensibilità nel suo complesso, producono una landa desolata sulla quale ci si adagia come bambini già vecchi. E così stando le cose, al ridere non spetta neppure un’esistenza larvale, l’unica sua strada è piuttosto la paralisi. 
E mentre in molti lamentano la gran tristezza che li affligge, mentre è un continuo sparlare di problemi che attanagliano altri problemi, così pesanti e insormontabili da non ostacolare tuttavia la frenetica contemplazione dei difetti del prossimo, e l’isteresi vacanziera scambiata per viaggio, la poesia senza metrica mascherata da avanguardia; mentre è tutto un rumore di tenaglie, uno sforbiciare di astio e invidie, e punzecchiature di egoismo e incomprensioni, tutto pur di non volgere lo sguardo dove serve, navighiamo in questo artificio emotivo all’apparenza accogliente ma che prima o poi si deciderà ai soffocarci.
Così, per non abdicare con troppo clamore a ciò che natura vorrebbe, abbiamo fabbricato il riso per tutte le occasioni. Miracolo della grafica che dissemina i nostri messaggi di rotonde faccine con la lunetta della bocca sempre uguale, né più lunga né più corta, né più storta né meno. Il visino abbozzato si appiccica lì alla fine di una frase, stupidamente ridanciano, e anche un po’ in falsetto, quando parliamo del nulla e nel bel mezzo di un annuncio importante. Accade pertanto che l’intensità vera di una gioia non si avverta e l’invito a ridere o sorridere di una cosa suoni come un’equivoca appendice. E per non farsi mancare nulla, ecco venire a sostegno della risolina in scatola la giornata del sorriso: abitanti della terra, ricordiamoci almeno come ridere!
Si moltiplicano moine intorno a tutto quello che bisogna adescare – il riso e la sua preda, il riso e il suo pantano commerciale, la deriva televisiva, in un quiz si apre il pacco sorriso. Ma che felicità!
No, non abbonda il riso e neanche l’umano.

(Di Claudia Ciardi)

1 ottobre 2015

La scuola carrarese dell'Ermitage




Ancora pochi giorni per vedere i marmi dell’Ermitage esposti a Palazzo Cucchiari a Carrara, sedici sculture che da San Pietroburgo, dopo circa tre secoli, tornano nel luogo che tenne a battesimo la creatività di questi artisti. Nel Settecento infatti la cosiddetta scuola carrarese acquisì una larghissima fama, interessando soprattutto collezionisti tedeschi e russi. Presenti alla mostra sono non a caso diversi busti commissionati dai regnanti prussiani e da alti esponenti della nobiltà d’oltralpe. Visitando questo allestimento, si torna davvero indietro nel tempo, nel senso del tempo storico vissuto dalla cittadina toscana all’apice della propria gloria, quando cioè le sue maestranze ne innalzarono il nome nel contesto internazionale. Il percorso suggerisce molto bene come l’avvicendarsi di secoli di duro lavoro, e di vita altrettanto dura, dentro e all’ombra delle cave apuane, abbia saputo far germogliare lentamente, nelle generazioni, l’urgenza del creare. Millimetrica secolare limatura di sensibilità, arte del levare passata da artigiani scalpellini ai loro allievi e così via, negli anni, fino a consolidare una tradizione in grado di attrarre personalità anche dall’esterno, prestigiose committenze, e infine i compratori russi. E in che cosa avrebbe potuto manifestarsi se non nella statuaria, paziente esercizio attorno alla materia, tentativo di ricavare forme dall’informe, di infondere alla pietra un respiro vivente? 
Questo evento scaturisce da un’importante collaborazione con gli enti culturali russi, in primo luogo il Museo dell’Ermitage, rappresentato da Sergej Androsov, responsabile della curatela carrarese. Festeggia inoltre la riapertura al pubblico, dopo gli attenti lavori di restauro, delle sale di Palazzo Cucchiari, raffinata dimora ottocentesca opera di Leandro Caselli, disegnatore della Carrara moderna. Ulteriore celebrazione del luogo che proprio nello scorcio urbanistico che va da qui alla Chiesa di San Francesco, con la sua impervia e solare scalinata da tempio orientale, alla vicina scuola di scultura la cui architettura gioca con inserti moreschi, esalta la durevole ricerca d’arte e bellezza rappresentata in mostra. 
Un posto d’onore nella collezione la occupa senz’altro l’Orfeo di Antonio Canova. In gioventù, lo scultore di Possagno, lesse i classici latini, Ovidio e Virgilio, traendone appunti per una sua personale interpretazione della storia di Orfeo ed Euridice. Frutto di questo studio sono le due statue realizzate tra il 1773 e il 1776, attualmente custodite al Museo Correr di Venezia. L’Orfeo esposto a Carrara è un doppio, sul quale in passato si è acceso un dibattito di attribuzione risolto infine a favore dell’artista veneto, che attirò l’interesse dei russi, finendo nello sterminato fondo dell’Ermitage dove tuttora si trova. Il fatto che Canova abbia realizzato due versioni dell’Orfeo simboleggia l’attaccamento dell’artista a questo soggetto. Si tratta di una statua di medie dimensioni raffigurante l’attimo in cui il cantore, che tutto muoveva a commozione, comprende il tragico e irrimediabile errore che ha commesso voltandosi. L’artista ha assimilato profondamente i versi virgiliani «cum subita incautum dementia cepit amantem», tratti dal IV libro delle Georgiche, quell’improvvisa e improvvida follia che afferra l’uomo, ormai sul punto di uscire dall’Averno, e che lo spinge a voltarsi verso l’amata. Orfeo è fotografato così, in quella fatale torsione che lo rende tragicamente consapevole della sua irrimediabile perdita per aver infranto il patto con le divinità ultraterrene. Quei Mani più potenti di Ade, signore dell’aldilà, che non conoscono perdono e che lo stesso Foscolo cita in epigrafe dei suoi Sepolcri, altro poeta dialogante con la morte, che invoca il giuramento degli antichi perché ne sorreggano la parola. I versi virgiliani, alcuni riportati non a caso anche nel basamento dell’opera, tracciano la labilità dell’esistenza mortale in opposizione all’implacabile disegno divino, il quale riflette un disegno di natura.
Che Canova si sia appassionato a questo mito è assai comprensibile. Prima di tutto c’è il filone dell’epica sepolcrale che attraversa la cultura settecentesca, creando mode ma anche influenzando a un livello assai più profondo il gusto artistico. Poi c’è la grande allegoria che è racchiusa in questa storia. Orfeo è poeta; la discesa all’inferno, la separazione dalla donna che ama sono le prove cui l’artista è chiamato in vita. L’arte tende a essere sfuggente, si raggiunge nelle avversità e soprattutto nell’avversità del mondo, richiede da parte di chi la coltiva una volontà ferma. Vacillare anche solo un istante, implica disperdere i propri sforzi. 
Il giovane Canova si affaccia sulla scena dell’arte dimostrando di aver recepito questa lezione e di averla ben chiara davanti a sé. L’allestimento carrarese rende in maniera ammirevole l’atmosfera che aleggia attorno a questo Orfeo, posizionato in fondo a un corridoio lasciato quasi al buio, rimando voluto agli inferi. Nell’avvicinarsi alla statua il visitatore ripete il cammino di Euridice e allo stesso tempo sente su di sé la disperazione dell’uomo, che investe con forza chi fissa quel volto dai tratti convulsi. 
Il migliore omaggio a un ospite illustre di Carrara, dove soggiornò mentre provvedeva a reperire i marmi per il mausoleo Ganganelli, lì commissionando i blocchi, e dove fu eletto socio onorario dell’Accademia di Belle Arti.

(Di Claudia Ciardi)


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