26 gennaio 2020

Emily Dickinson - La mia lettera al mondo



Emily Dickinson (1830-1886) nacque e visse ad Amherst, un piccolo centro del Massachusetts. A fronte di un corpus estremamente vasto che comprende circa 1800 poesie, nell’arco della sua vita pubblicò solo una decina di testi, grazie alla complicità con Samuel Bowles, direttore dello «Springfield Daily Republican». Anima sensibile e solitaria, la famiglia e gli amici le alleviarono l’isolamento cui la sua indole irrimediabilmente la destinava. Scrivere lettere fu un’attività da lei sempre coltivata, un mezzo per comunicare col mondo: non a caso molti dei suoi versi viaggiarono e si fecero conoscere insieme alle missive che era solita spedire a conoscenti ed estimatori.

«Quando penso agli amici che amo e al poco tempo che abbiamo da stare qui, quando penso che poi ce ne andiamo, provo una sensazione di sete, un desiderio forte, unansia impaziente per paura che mi vengano rubati, per paura di non poterli più guardare. Vorrei averti qui, vorrei avervi tutti qui, dove posso vedervi, dove posso sentirvi».

Nella monotona atmosfera della provincia ottocentesca americana casa Dickinson fu un cuore pulsante, un centro capace di aggregare le intelligenze più acute del luogo.
In occasione dell’uscita del volume curato e tradotto da Andrea Sirotti per la collana “classici” di Interno Poesia, Rita Bompadre, poetessa, insegnante e divulgatrice presso il Centro lettura Arturo Piatti, ci offre questa nota critica e il suo omaggio a Emily Dickinson. 

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La mia lettera al mondo di Emily Dickinson è una silenziosa ed autentica testimonianza intimista, un’opera che infiamma elemosine d’amore, travolge la pena come un dolore prolungato, accompagna lusinghe arrendevoli nell’indifferenza di ogni inclinazione umana. In memoria di un epilogo dell’assenza che accresce la perennità del destino poetico. Nella poesia di Emily Dickinson l’eco del tempo, rallentato e carico di densità emotiva, attrae nell’incantesimo della crudele tenerezza del cuore, nella linea d’ombra che confonde sogno e realtà. I versi della poetessa seguono la lacerante fatalità di un respiro oltre le speranze del desiderio, tracciano il segno di un passaggio inseguendo la ricerca di un giorno in cui si sarà amati. Il suo congedo spirituale è una vertigine dell’anima, un soliloquio per oltrepassare il mondo e passargli «di fianco, obliquo come la pioggia». L’autrice vive di una struggente ossessione di sensibilità, avvolta nei pensieri poetici in cui cresce la sua infinita tristezza trafitta sulla carta. L’atmosfera dolorosa ed impietosa di ogni incomprensione estende una solitudine estrema, sacrificata e sprigiona il legame con la franchezza dell’esigenza letteraria e le sentenze degli abbandoni. I versi rimarginano consapevolezze amare e profonde e procedono a ritroso nella incoerente purezza della vita. Il dono di Emily Dickinson è una rarità di corrispondenze lungo il percorso dell’immobilità delle epigrafi alle sue parole, nell’intensità del suo sguardo vedovo sulla bellezza. Il disincanto difende il nascondiglio privato della saggezza e sceglie la poesia. Contro la strategia di ogni malinconica distanza l’autrice riabilita la sua arte, rinnovando ad ogni equilibrismo esistenziale la facoltà infinita di uscire dal dolore e rinascere nella consistenza della coerenza affettiva e della propria ereditaria efficacia.


(Di Rita Bompadre)


Edizione recensita:

Emily Dickinson, La mia lettera al mondo, a cura di Andrea Sirotti, Interno Poesia – collana Interno Classici, 2019


Non c’è vascello che meglio di un libro
possa portarci in terre lontane
né migliori corsieri di una pagina
d’impennante poesia –
Questo viaggio può farlo il più povero
senza tema di pedaggio –
Tanto è frugale il cocchio
che porta l’anima umana.




Ritratto di Emily Dickinson

16 gennaio 2020

Paul Krugman - Una troppo lunga recessione



Inizio dagli interrogativi lasciati aperti a conclusione di questo volume. Siamo di fronte a un cedimento strutturale del sistema, qualcosa che potrebbe essere rivelatore di una caduta di quegli assunti, pur entrati già più volte in affanno, che sorreggono l’economia di mercato? E ancora, non avrebbe più senso oggi parlare di una fase di depressione, cosicché cominciando dal chiarificare quanto sta accadendo, il tentativo di fronteggiarlo possa essere maggiormente efficace? La seconda domanda è un’interpretazione di poco più libera rispetto a ciò su cui s’interroga Paul Krugman, che in queste pagine si ferma qualche passo prima della terra di nessuno. Per terra di nessuno intendo esattamente lo spazio tra le due linee di fuoco, dove si va solo quando vengono ordinate temerarie sortite.

L’occasione del libro è infatti la crisi del 2008, il grande crac dell’economia mondiale – io qualche volta l’ho chiamato anche grande crash  perché quella catena di eventi produsse una tale frantumazione a tutti i livelli – economia, società, individui – che tuttora non è stata ricomposta, mostrando semmai la tragica tendenza a ulteriori implosioni. Dunque, lo sguardo di Krugman si levò a caldo sulla grande esplosione, dieci anni dopo aver commentato la crisi asiatica – primo nucleo del presente saggio – qui riletta come preludio, un banco di prova tra i più recenti per quel che riguarda il panico finanziario e l’arrivo di una recessione, purtroppo ignorato dagli economisti. Quando è arrivata la seconda ben più violenta tempesta nel 2008, con epicentro nei paesi occidentali, non ci eravamo attrezzati. Peggio ancora, la tendenza ad assecondare la volubilità dei mercati, considerando d’importanza primaria la conquista della loro fiducia, ha finito per lasciar correre politiche economiche di superficie, orientate alla guarigione psicologica degli attori finanziari coinvolti ma trascurando la radice dei problemi, sempre ben piantata nell’economia reale. Le cure somministrate ai paesi asiatici colpiti dalla crisi nel 1998, al Brasile, poco dopo – a proposito del quale si è parlato di caricatura del programma imposto all’Asia – e la Grecia, infine – che qui non compare perché allo sfiancamento ellenico si è arrivati attraverso un lento pluriennale stillicidio – si classifica a dire dell’autore entro un mix di austerità e riformismo spesso fuori tema, che non ha intercettato alcuna concreta possibilità di recupero. Laddove recupero vi è stato, il cammino delle riforme non aveva saputo tenere il passo – dunque, secondo quanto ci spiega Krugman, rivelando tutto il suo carattere accessorio – mentre nei casi in cui gli obiettivi programmatici siano stati disattesi, il panico finanziario si è autoalimentato raggiungendo velocità e proporzioni devastanti.
Ma qui entra di nuovo, almeno in parte, la politica. Fra il decennio di decrescita, per cui si è coniato il termine di “crescita in depressione” che ha tenuto in scacco il Giappone per tutti gli anni Novanta e il naufragio dei mercati asiatici, non va trascurata la candidatura della Cina a gigante orientale con ambizioni di divenire la prima economia del mondo. Questa enorme forza sprigionata dall’economia cinese in un tempo relativamente breve può non solo aver determinato squilibri regionali ed extra regionali ma ha forse spinto la Fed a entrare a gamba tesa, predisponendo piani di austerità fiscale nei paesi asiatici esposti, per inculcarvi, secondo il giudizio di alcuni osservatori, la propria dottrina finanziaria. Di fatto, riguardo la Cina, l’apertura al libero mercato si è affiancata al controllo sui capitali, ed è la via su cui il gigante ha continuato senz’arresto a marciare. Stati Uniti ed Europa si sono invece trovati alle prese con gli effetti deflagranti di due bolle consecutive, l’una generata dal mercato azionario, l’altra da quello immobiliare, venuta a sostituire la prima, protraendo l’euforia per una manciata di anni. Ma come Paul Krugman non manca di ricordarci, tutte le bolle prima o poi scoppiano. Quando è stato il turno di quella immobiliare legata per larga parte ai mutui subprime, ha trascinato con sé una bella fetta di ricchezza. Qui si rende necessaria una considerazione: nel momento in cui esplode una crisi gli effetti sono dirompenti nella vita di milioni di persone. Disoccupazione, perdite patrimoniali che non si potranno recuperare, incertezza circa la propria condizione, senso di impotenza e perdita di controllo sul proprio futuro. Una parola all’apparenza asettica, segnata dal suo richiamo tecnico, implica così tante drammatiche conseguenze nel destino di quelli che incontra sulla sua strada. Allo stesso tempo Krugman illustra molto efficacemente che non è semplice, per chi si ritrova coinvolto, comprendere nell’immediatezza tutte le implicazioni e le ricadute del fenomeno. Ciò spiegherebbe anche perché allo stato attuale delle cose in Europa non riusciamo a dare una lettura salda e univoca della lunga recessione che ci ha investiti, spesso anzi sentendo difendere la posizione di chi mette in dubbio perfino l’esistenza di una dinamica recessiva.
E siccome tra i pregi di questo libro c’è l’analisi basata sulla concatenazione degli eventi, cosa che manca desolatamente nella maggior parte delle letture pre e post crisi, veniamo alla Brexit prima della Brexit. Proprio così. Nel 1990 l’Inghilterra aveva aderito allo SME, il sistema monetario europeo, un sistema di tassi di cambio fissi concepito come fase intermedia che avrebbe condotto all’euro. Tuttavia oltremanica ci si rese presto conto che la politica monetaria verso cui si era obbligati non risultava più compatibile con i propri obiettivi. Era in corso infatti una profonda recessione e il malcontento popolare si stava diffondendo. L’Inghilterra si trasse fuori dagli impegni, provvedendo a svalutare la sterlina. La decrescita si volse in opportunità. Questa storia ci insegna fra laltro che occorre giovarsi di una certa libertà di manovra, se si vogliono risolvere i problemi.
La crisi che ci è piombata addosso e che stiamo tuttora attraversando somiglia a una traversata in un mare inesplorato alla ricerca di un passaggio. È un insieme di situazioni pregresse e anche un fenomeno che genera di continuo nuovi scenari. In egual misura a quanto avvenne durante la crisi dei “trust” di New York nel 1907, anche nel caso attuale un circuito parabancario cresciuto in maniera ipertrofica e sfuggito al controllo – oppure lasciato prosperare perché a certuni faceva comodo così – ha finito per squilibrare il sistema. Il consolidamento della globalizzazione finanziaria ha decuplicato gli effetti a catena innescati dai crolli. Lo shock ha polverizzato la fiducia e ridotto drasticamente le linee di credito – i soldi si prestano ora con maggiore difficoltà, le aziende che non beneficiano del rating più elevato in termini di affidabilità pagano tassi di interesse più alti rispetto a quanto avveniva prima della crisi. Ecco, nelle parole di Krugman, la sintesi di questo disastro: «Mi verrebbe da dire che la crisi non ha alcun punto di contatto con ciò che abbiamo visto in precedenza. Ma sarebbe più esatto dire che è molto simile a tutto ciò che abbiamo visto in precedenza, però tutto insieme: l’implosione di una bolla immobiliare paragonabile a quella che si è creata in Giappone alla fine degli anni Ottanta: un’ondata di corse agli sportelli paragonabile a quelle dei primi anni Trenta (che ha coinvolto il sistema bancario-ombra, anziché le banche convenzionali); un grosso problema di liquidità negli Stati Uniti, analogo a quello che si era già presentato in Giappone; e ultimamente una discontinuità dei flussi internazionali di capitale e un’ondata di crisi valutarie fin troppo simile a quella che si è avuta in Asia alla fine degli anni Novanta».
E noi, abbiamo sviluppato nel frattempo qualche antidoto? No. Anzi, continuiamo affatto raramente ad avere persino problemi nell’ammettere la natura di questa crisi, che non ha un volto solo ed appare sempre di più come un organismo adattabile e resistente. Eppure, ci sussurra l’autore, quello delle recessioni è un tema carico di significati, che molto potrebbe istruirci sulle strategie di contenimento di breve e lungo termine. Allora torniamo al punto di partenza. C’è forse qualcosa nel sistema che sarebbe arrivato a un punto di non ritorno? Qualcosa che fino al decennio scorso ci sembrava inossidabile e che invece ha smesso d’un tratto di funzionare? Occorre ripensare il modello e, più ancora, la struttura al cui interno opera questo modello?
Paul Krugman afferma che la ripartenza consista nel riaccendere il motore dell’occupazione. In scia alla sintesi keynesiana, dice una cosa giustissima. Bene, lo sosteneva però più di dieci anni fa. È un fatto che in tutto questo tempo il mercato del lavoro, toccando dei vertici negativi nei paesi mediterranei, non è ripartito come ci si aspettava. Dei quattro fattori che garantiscono il funzionamento economico – terra, capitale, impresa, lavoro – proprio quest’ultimo sembra accusare una debolezza senza precedenti. Neppure vendendo gratuitamente o quasi le proprie competenze si riesce a rientrare in un mercato sconsolatamente piatto, privo di scossoni, a corto di idee ed entusiasmo. L’automazione, l’informatizzazione, sommate a un drastico calo degli investimenti hanno forse saturato una richiesta di manodopera necessaria solo fino a poco fa? Non è questo un indicatore inequivocabile che ci troviamo di fronte a una svolta? Se a ciò aggiungiamo l’inefficacia della politica monetaria, qualche dubbio viene. Lascio ancora dire a Krugman: «La recessione del 1981-1982, che ha spinto il tasso di disoccupazione sopra il 10%, è stata pesantissima; ma era più o meno frutto di una scelta deliberata: la Fed perseguiva una politica monetaria molto rigida per disinnescare l’inflazione, e nel momento in cui ha stabilito che l’economia aveva sofferto abbastanza, il suo presidente, Paul Volcker, ha allentato la stretta e l’economia è tornata a correre. La devastazione economica si è trasformata in una “nuova alba” per l’America con una rapidità impressionante. Questa volta, per contro, l’economia ristagna nonostante i ripetuti sforzi messi in atto dalle autorità monetarie per farla ripartire. Questa impotenza della politica monetaria ricorda da vicino ciò che è avvenuto in Giappone negli anni Novanta. Ma ricorda anche le vicende degli anni Trenta. In questo momento non siamo ancora in depressione, e nonostante tutto io non credo che andremo incontro a una depressione (anche se non ne sono del tutto sicuro). Siamo però in presenza di una tipica economia della depressione».
Di fronte a una caduta così esplicita e prolungata della domanda, anche i più fervidi paladini del libero mercato saranno obbligati a prendere atto che sta venendo meno uno dei presupposti basilari per cui appunto il libero mercato trova la sua ragion d’essere. Come per il libro di Marco Revelli sulla crisi – analisi la sua di taglio sociale, che prendeva in esame la povertà crescente e i pericoli per la coesione e la tenuta democratica –  anche qui ci fermiamo sulla soglia degli eventi. Due letture per certi versi contigue che buttano lo sguardo appena dopo il grande crollo finanziario del decennio scorso. E adesso?
L’impressione è che siamo già molto oltre le colonne d’Ercole. Ma ci ostiniamo a voler navigare un mare sconosciuto con le vecchie carte. Bisogna dedurre dalle mappe già disegnate l’informazione utile a evitare pericoli già noti o altri possibili che potrebbero sopravvenire, senza pretendere che sappiano dirci di più; del resto non potrebbero farlo. Occorre invece avere il coraggio di tracciare la nuova rotta.

(Di Claudia Ciardi)  


Edizione consultata

Paul Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, Garzanti 2009 [edizione ampliata e aggiornata su quella del 1999]      

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