3 ottobre 2019

Marina Cvetaeva - Sette poemi


Sette, potere affatturante del numero. Nel Poema della montagna risuona la solennità biblica del settimo comandamento, sigillo a cose terrene perché non siano usurpate da altri né siano alienati i frutti dell’anima, e poi ancora il sette «fulcro del mondo» nell’immateriale sospensione del Poema dell’aria, fuga liberatoria che accarezza l’idea del congedo. Numero ricorrente del folclore russo, equilibrismo cabalista nella lotta fra gli opposti, scala musicale, mediazione del divino e dell’umano, misura esatta, compiuta armonia.
La vita di Marina Cvetaeva inizia con una precoce consacrazione nel tempio delle lettere. Bella, colta, appartenente a una classe agiata – il padre è professore universitario a Mosca, la madre una pianista – appena diciottenne pubblica a sue spese Album serale, che raccoglie le poesie composte nell’adolescenza. Il volumetto non passa inosservato tra i letterati del tempo e per lei si aprono subito le porte di casa Volosin, a Koktebel’, una sorta di residenza d’artista dove dal 1910 al 1913 furono ospiti i maggiori scrittori russi. In Crimea trova anche l’amore, incontrando Sergej Efron, studente all’Accademia militare con cui si sposa all’inizio del 1912.    
L’intensità dell’esordio e la velocità dell’ascesa del suo talento poetico, quando tutto sembra concederle un’esistenza appagante in un crescendo di successi letterari e fama, suscitano un’amara inquietudine se accostati ai difficili anni della rivoluzione bolscevica e alle peregrinazioni che fu costretta ad affrontare. Il concetto di rovesciamento delle sorti nella vita di Marina Cvetaeva acquista l’aspetto sconvolgente della storia, segnata dalla guerra, dalla caduta zarista, dalle epurazioni di partito. In questa carambola impazzita i suoi versi, soprattutto quelli consolidati nell’architettura dei poemi, sono schegge guaritrici cui affidare le lacerazioni, i distacchi, la strage sentimentale che si abbatte nei giorni malati dell’esilio, dell’isolamento, del voltafaccia di amici e colleghi. Un’elaborazione autobiografica densissima, sempre oscillante fra ctonia agonia e sublimate erranze in paesaggi paralleli, onirici sconfinamenti, visioni destinate a un altrove che distoglie dal quotidiano incalzare. Sulla cascata delle strofe si sporgono d’improvviso conturbanti figure mitologiche, non solo personae ma vere e proprie coordinate oracolari, messaggere di sotterranee evocazioni e arabeschi tonali, voci e metri compositi che si contendono brani di memoria. Dal richiamo ad Alceo nel gioco delle conchiglie di Dal mare alla frammentarietà avanguardista, da satira jazz, nel Poema della scala, stralci di vita in bilico su assoli fiabeschi. Ogni traccia terrena, ogni luogo o evento rimasticato nella scrittura del poema diviene simbolo, parola-chiave, formula scagliata in un’altra dimensione dov’è più facile capirsi, congiungersi a chi è lontano, smorzare quel che nel tormento di ore incerte e senza sponda assale con gelida efferatezza. È in questo epos larvale e umbratile che prendono vita gli scorci di Praga, la collina montagna e il lungofiume che fanno da sfondo alla storia con Konstantin Rodzevič, gli spazi degli incontri immaginari con Pasternak e Rilke, dioscuri della sua ostinazione creativa, la trasfigurazione dell’appartamento parigino stretto nella morsa di abitudini feriali e grettezze borghesi che disperdono la scintilla dell’arte, la trenodia per la morte di Rilke con cui prende corpo la consapevolezza di essere di un altro mondo, l’idea di un appartenersi cosmico che trascende le vie ordinarie e nella morte non vede un limite ma un valico che connette con quell’oltre vitale.

(Di Claudia Ciardi)


Edizione di riferimento:

Marina Cvetaeva, Sette poemi, a cura di Paola Ferretti, Einaudi, 2019


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Da Poema della montagna

Si struggeva, Montagna (che ogni monte
con fiele d’argilla ai commiati
si strugge). Per il tubare di tortora
soave dei nostri mattini senza nome.

Sul nostro sodalizio, si struggeva:
connubio irrefutabile – di labbra!
Asseriva Montagna che s’avvera
tutto – a misura del pianto profuso.

E ancora asseriva che bivacco
è la vita – di cuori eterno bazar!
E si struggeva: almeno Agar
insieme al figlio fu bandita!

E ancora, che un demone ci frulla
e che gratuito è sempre il gioco.
Sentenziava, Montagna, noi – muti.
A lei rimettendo il giudizio.

Praga, 1 gennaio – 1 febbraio 1924


Da Poema della fine

Ultimo ponte.
(Non rendo e non sfilo la mano!)
Ultimo ponte,
ultimo balzello.

Acqua e firmamento.
Le monete appronto.
Un soldo per Lete,
obolo a Caronte.

Ombra della moneta,
nella mano adombra. Mute
monete, quelle.
Alla mano ombrata –

L’ombra della moneta.
Né luccicanti, né tinnanti.
Monete – a quelli.
Solo papaveri, dai defunti.

Ponte.

[…]

Anime non rassettate –
male rimarginate!
Periferie, sobborghi…
furibondo è il burrone

della periferia. Senti lo stivale
del fato – sulla molle argilla?
… Dai pure a me la colpa: nella fretta
un che di vivido, stringente ho imbastito

– per quanto ingarbugliato!
Ultimo lampione!

Qui? Come di carbonaro hai
lo sguardo. Di razza inferiore –
sguardo. – Saliamo alla montagna?
Per l’ultima volta!

Praga, 1 febbraio – Jiloviste, 8 luglio 1924


Da Dal mare

Io – senza refusi,
Io – senza ritocchi.
Un pugno di rose alpestri
ti darei, e una bicocca
a picco sul mare,
con onde di bonaccia.

Dall’Oceano, ecco per te
una manciata di gioco.

Grado a grado prendi, come fu raccolto.
Il mare gioca. Chi gioca – è buono.
Il mare gioca, e io prendo,
il mare lascia, e io ripongo

in scollo e guancia – salmastra, marina!
Palmi occupati: la bocca è tiretto.
Lode, risuona al flutto!
La Musa lascia, l’onda prende.

Coralli di granchi, leggi: gusci.
Gioca il mare, chi gioca – è grullo.
Chi pensa – ciocca ingrigita! –
è saggio. Giochiamo, allora,

a conchiglie.

Vandea, maggio 1926


Da Tentativo di stanza

Senza affannosi «Dove sei?».
Sto in attesa. Nel maniero di Psiche
servono all’uopo – i gesti
che siano a quiete apparentati.

Vento soltanto è caro al poeta!
Ho una certezza – i corridoi.

Attraversare è tutto, per le armate.
A lungo occorre andare, perché infine

a metà stanza, con fare
da nume-citaredo…
                                – la Via del Verso!
Vento contro la fronte – stendardo
dal nostro passo inalberato!

St. Gilles-sur-Vie, 6 giugno 1926


Da Poema della scala

Silenzio. La tosse perfino
si è estinta, essiccata.
Anche la nostra scala
ha il suo momento

di quiete…

Ultima risalita
su scala tremebonda.
Ultima micetta.

Il buio tutto accorpa –
e noialtri e lo sporco.
Anche la scala di servizio
ha il suo momento

di lindore…

Una – chi, vattelapesca! –
rovescia l’ultimo catino –
Reno che da Alpi scroscia –
acque contro l’asfalto

del cortile…

Sul cortile – arabeschi:
là grappoli, là croci…
Anche la scala di servizio
ha la sua carta degli astri.

Vandea, luglio 1926

    
Da Per l’anno nuovo

Nel bailamme del Capodanno, assorta
Nella mia rima interiore: Ràiner-Mòira.
Se un occhio pari al tuo s’è ottenebrato,
non vita è la vita, non morte la morte,
– tutto s’offusca, lo capirò alla meta! – 
Non vita o morte (inesistenti) si danno,
ma nuova, terza cosa.

[…]

Scorgo la croce tua, di là dal tavolo:
quanti posti – fuori città, e spazio
fuor di città! A chi se non a noi
ammicca – l’arbusto? Posti – di nessun altro,
solo nostri! Fitto fogliame! Aghi, rami!
Posti tuoi con me (tuoi con te). (Devo, dirlo,
che insieme a te perfino a un comizio
verrei?) Altro che – posti! Lustri!
Settimane! Sobborghi desolati, pluviosi!
Quanti mattini! Insieme fare cose
non ancora varate da usignoli!
Magari io vedo male (dalla fossa),
magari vedi meglio tu, da lassù:
niente tra noi è andato in porto.
A tal punto quel niente chiaro e netto
si confaceva a noi per complessione –
che a malapena serve nominarlo.

Bellevue, 7 febbraio 1927


Da Poema dell’aria

Più assordante che Don a pugna
squillante, più che mietiture
di patiboli… per tornanti
più minacciosi che monti,
volute sonore, come tra mura
tebane non da mano erette.
Sette – le falde e le sfere!
Sette – gli heilige Sieben!
Sette, fulcro della lira,
sette, fulcro del mondo.
Se fulcro della lira
è il sette, fulcro del mondo
è il verso. Così le mura
tebane al suono della lira…
Del corpo ancora nel braciere
– «più che piuma lieve!»,
la vecchia storia del grave
che all’udito va perso.
Con l’udito – in puro spirito
mutarsi. Lasciate le scritture
ai secoli.
Come udito
puro o puro suono
avanziamo? Pre-annuncio
di sogno. D’estasi pre-sussulto.
Più che grotto assordante
quando infuria equinozio.
Più che tempia – epilettica,
più che fame – di visceri…
Pure, non più assordante
che di Resurrezione
sepolcro…

Meudon, 1927 (Nei giorni di Lindbergh)





Alta Val di Susa – Foto di Claudia Ciardi ©

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