29 ottobre 2012

Theodor Fontane - Elogio della flânerie


Theodor Fontane
L’aria di Berlino
Titolo originale: Von Zwanzig bis Dreißig, 1898
Traduzione italiana di Carmen Putti
Casa editrice: Santi Quaranta
Anno: 2004

From the book: pp. 102-105

«A Pasqua venni promosso alla classe superiore e mi ripromisi di essere diligente e ordinato. Ma non misi mai in atto i miei buoni propositi. Anzi, per quanto riguarda gli studi fu un vero fallimento, e non del tutto per colpa mia. O almeno per quella volta non fu colpa mia. A Pentecoste, allo zio August venne l’idea di affittare una casa per l’estate nelle vicinanze di Berlino e scelse una località ad un buon quarto d’ora di distanza dalla porta di Oranienburg, che veniva familiarmente chiamata “bei Liesens” (da Liesen). Da lì ci impiegavo esattamente un’ora per arrivare alla mia scuola e non era cosa da poco. Ma nulla era quell’ora di cammino in confronto a ciò che mi aspettava ogni mercoledì e domenica! In questi due giorni, infatti, erano programmate le escursioni botaniche con l’insegnante di scienze naturali, il benemerito maestro Ruthe. Poiché egli abitava all’imbocco della Köpnickerstraße, guarda caso le escursioni venivano sempre fatte nella zona verso Treptow o, meglio ancora, verso Britz e sui prati di Rudow. Vi partecipavo volentieri, soprattutto per merito del maestro. Mentre sedevamo sul cordolo di una rustica pista da bocce intenti a bere il nostro latte, il buon Ruthe, che in fondo era un uomo semplice, lasciava cadere la maschera dell’insegnante e faceva trasparire la sua vera natura di filantropo rousseauiano ed educatore. Toccava volentieri questioni riguardanti la morale.
“Ebbene, miei giovani amici, indubbiamente la botanica è una cosa buona e anche le scienze lo sono. Ma la cosa più importante resta sempre l’uomo con la sua retta moralità. Ve ne parlerei volentieri, subito qui, ma anche in classe. Vi gioverebbe di più di molti altri argomenti. Ma purtroppo non posso farlo.” Quest’ultimo era un chiaro riferimento al direttore, il vecchio Klöden, che credo avesse molte perplessità circa gli argomenti di morale di Ruthe. Ruthe era indubbiamente una persona eccellente, benché non abbia mai saldato con noi il debito del “mistero della vita”, ma per quanto lo amassi non riuscii mai a perdonargli la sua ostinazione nel non voler modificare la meta delle escursioni dai prati di Rudow. Abitando nella Köpnickerstraße, quella meta per lui era indubbiamente comoda e anche per i miei compagni di scuola il tragitto fino a casa non era eccessivamente lungo, per me invece, le vere difficoltà della giornata iniziavano appena terminata la lezione: troppo spesso, infatti, dovevo rifarmi il tragitto dalla Köpnickerstraße fino a Liesen con i piedi piagati poiché non ho quasi mai posseduto stivali in cui i miei talloni si trovassero a loro agio. Arrivavo perlomeno dopo un’ora e mezza di cammino. Una volta a casa facevo appena in tempo a sistemare gli esemplari botanici raccolti nella carta assorbente e finalmente sprofondavo stanco morto nel letto. È facile immaginare con che spirito mi alzassi il mattino successivo per andare a scuola. A volte l’impresa era superiore alle mie forze.
Un’altra conseguenza della villeggiatura a Liesen fu la pessima abitudine di andare a zonzo, tanto che per me divenne consuetudine marinare la prima ora di lezione, dalle otto alle nove. Per mia fortuna quell’ora corrispondeva alla lezione di francese e il professore insegnava in almeno altre tre scuole e così gli importava francamente poco degli assenti. Come il leone non riesce più a trattenersi dal compiere carneficine una volta assaporato il gusto del sangue, così ben presto anch’io non seppi più accontentarmi di bigiare la prima ora di lezione trascorrendo addirittura intere giornate a bighellonare dentro e fuori le mura cittadine. Le assenze prolungate avevano il vantaggio di essere facilmente giustificabili con la scusa di una “malattia”. E i giorni da ottobre a Natale si prestavano ottimamente allo scopo.
Ero perfettamente cosciente dello spreco di tempo che stavo perpetrando ma, contemporaneamente, non incontravo difficoltà nel mettere a tacere i rimorsi di coscienza, anche e soprattutto grazie alla mia giovane età. Producendo un’encomiabile opera di persuasione mi autoconvinsi che, di lì a pochi anni, sarei diventato un famoso botanico, per cui trovavo assai più proficuo pattugliare regolarmente i boschi e le lande che seguire le lezioni di grammatica del professor Philipp Wackernagel; si ostinava a dettare nei nostri quaderni infinite liste di vocaboli terminanti in «ig» e «ich», che poi dovevamo anche studiare a memoria. Ancora oggi ignoro l’opinione in proposito del professor Wackernagel, un’ottima persona, oltre che erudito di fama eccelsa. Insomma, boschi e brughiere mi avevano definitivamente conquistato e divenni un perfetto conoscitore del territorio rupestre circostante. A prescindere da queste digressioni, ero seriamente alla ricerca di muschi e licheni, immaginando di essere un piccolo criptogamologo. In effetti la fioritura dei muschi è uno spettacolo meraviglioso.
Verso l’una del pomeriggio ero generalmente a casa e mangiavo con appetito invidiabile che, evidentemente, non dava segni di venir rovinato dai sensi di colpa. Al termine del pranzo mi si presentava il dilemma su come trascorrere le restanti ore del pomeriggio. Ma un modo lo trovavo sempre. All’angolo tra la Schönhauserstraße e la Weinmeisterstraße, quindi in una zona della città in cui era molto improbabile incontrare il direttore Klöden e gli altri insegnanti, si trovava la pasticceria del mio amico Anthieny. Bevevo il mio caffè immerso nella lettura dei periodici letterari più in voga: il «Beobachter an der Spree», il «Freimütigen», il «Gesellschafter» e soprattutto il mio favorito, il «Berliner Figaro». Ore di completa beatitudine. Divoravo le recensioni teatrali di Ludwig Rellstab, i saggi e i racconti di Gubitz e le poesie di quei sei o sette giovanotti che, forse loro malgrado, formavano la scuola poetica berlinse dell’epoca. Ricordo i nomi di Eduard Ferrand, Franz von Gaudy, Jiulius Minding e August Kopisch, i migliori, talenti che, nonostante il mutare delle mode e dei costumi, hanno saputo affermarsi e sono conosciuti anche ai nostri giorni. Eduard Ferrand, che forse oggi è retrocesso in seconda linea nel gusto della critica contemporanea, morì molto giovane e componeva versi semplicemente sublimi. Una della sue poesie migliori ispirò i versi di Georg Herweghs: «Vorrei spengermi come l’ultimo bagliore del tramonto». I versi di Ferrad esordiscono con le parole: «Vorrei morire come quella nube» che, ripetute, ritornano ad ogni capoverso con piccole variazioni. Impossibile non cogliere la somiglianza. Ripensando alle mattinate nei boschi e ai pomeriggi da Anthieny, quelle giornate caratterizzate non solo dalla pigrizia, ma anche da menzogna e inganno, non posso fare a meno di provare un certo turbamento, paragonandomi al famoso «Cavaliere sul lago di Costanza» che si rese conto della sventatezza della propria impresa solo dopo averla compiuta. Trasalisco al solo pensiero del tempo perduto e prego i miei giovani lettori di non volermi imitare. Sono stato uno sventato, ma non per tutti la sorte è così benevola. Ora che sono felicemente sfuggito al pericolo, pur ammettendo la mia colpa, non posso comunque fare a meno di esprimere una certa soddisfazione per aver marinato la scuola e per aver intrapreso le “escursioni nel Brandeburghese” molto prima del loro inizio ufficiale. Da un punto di vista fisico quel moto mi faceva bene e poi, nei pomeriggi, le letture letterarie da Anthieny, mi hanno permesso una tale padronanza della lirica tedesca degli anni trenta, che forse, ancora oggi, nessuno la conosce meglio di me. Se, invece, avessi adempiuto diligentemente ai miei obblighi scolastici, indubbiamente avrei conservato una coscienza pulita, ma al mio bagaglio culturale, peraltro già carente, sarebbe venuta a mancare anche la preziosa formazione che devo alla lettura del «Freimütigen», del «Gesellschafter» e del «Figaro». Alle critiche di mia madre, che rinfacciava a mio padre di attingere il proprio sapere dal dizionario enciclopedico, egli regolarmente rispondeva dicendo che «la fonte della cultura è completamente irrilevante». E mi sento di condividere questa sua opinione».

Portrait of Theodor Fontane

Theodor Fontane: Meine Kinderjahre
  Vorwort
Als mir es feststand, mein Leben zu beschreiben, stand es mir auch fest, daß ich bei meiner Vorliebe für Anekdotisches und mehr noch für eine viel Raum in Anspruch nehmende Kleinmalerei mich für einen bestimmten Abschnitt meines Lebens zu beschränken haben würde. Denn mit mehr als einem Bande herauszutreten, wollte mir nicht rätlich erscheinen. Und so blieb denn nur noch die Frage, welchen Abschnitt ich zu bevorzugen hätte.

Nach kurzem Schwanken entschied ich mich, meine Kinderjahre zu beschreiben, also »to begin with the beginning«. Ein verstorbener Freund von mir (noch dazu Schulrat) pflegte jungverheirateten Damen seiner Bekanntschaft den Rat zu geben, Aufzeichnungen über das erste Lebensjahr ihrer Kinder zu machen; in diesem ersten Lebensjahre »stecke der ganze Mensch«. Ich habe diesen Satz bestätigt gefunden, und wenn er mehr oder weniger auf Allgemeingültigkeit Anspruch hat, so darf vielleicht auch diese meine Kindheitsgeschichte als eine Lebensgeschichte gelten, Entgegengesetztenfalls verbliebe mir immer noch die Hoffnung, in diesen meinen Aufzeichnungen wenigstens etwas Zeitbildliches gegeben zu haben: das Bild einer kleinen Ostseestadt aus dem ersten Drittel des Jahrhunderts und in ihr die Schilderung einer noch ganz von Refugié-Traditionen erfüllten Franzosen-Kolonie-Familie, deren Träger und Repräsentanten meine beiden Eltern waren. Alles ist nach dem Leben gezeichnet. Wenn ich trotzdem, vorsichtigerweise, meinem Buche den Nebentitel eines »autobiographischen Romanes« gegeben habe, so hat dies darin seinen Grund, daß ich nicht von einzelnen aus jener Zeit her vielleicht noch Lebenden auf die Echtheitsfrage hin interpelliert werden möchte. Für etwaige Zweifler also sei es Roman!
Th. F.

Links:
Theodore Fontane.de
Bücher
Franz Hessel - Reveries in Berlin/ Fantasticherie berlinesi di Claudia Ciardi
(La Biblioteca di Israele a cura di Giusi Meister per Franz Hessel)

14 ottobre 2012

Helga Schneider


Uuzym polzo ieldii
Nella mia bocca è il vento


Formula di un rituale Teleut (Siberia)

«Un’alba impaziente aveva fuso la notte come cera».
[...]
«Finalmente il treno si rimise in moto giungendo a Berlino che era buio pesto. La stazione era avvolta da tenebre impenetrabili e un ferroviere ci scortò fino all’uscita con un lume raccomandandoci di cercare un riparo perché era appena stato lanciato l’allarme aereo. Mi accodai a un gruppo che stava puntando verso un rifugio pubblico nei pressi di Askanischer Platz.
Anche l’Askanischer Platz si presentò nera come la pece con il complesso dell’Europahaus oscurato. L’atmosfera era triste e sinistra. Si sentirono i primi rombi aerei e tutti presero a spingere per mettersi in salvo il più in fretta possibile. […] L’inferno finì dopo mezzanotte. Nuova ressa per uscire.
Finalmente fuori.
Inspirai avidamente l’aria fresca e solo in quel momento mi afferrò l’emozione di essere di nuovo a Berlino».
[...]
«Stavamo percorrendo il Kurfürstendamm. Fino a qualche tempo addietro era stata un’area piena di vita e ora sembrava un luogo di fantasmi.
Silenzio, buio e poca gente per strada. Gregor osservò con disappunto: – Non capisco più i berlinesi! Cosa li trattiene dal comportarsi come una volta divertendosi e godendosi la vita? Possibile che l’obbligo dell’oscuramento sia sufficiente per inchiodare il popolo di una metropoli tra le proprie quattro mura?
– È la guerra, – non potei fare a meno di obiettare. – La guerra deprime, rende insicuri e preoccupati».
[...] 

«Ci sono stati alcuni bombardamenti sulla capitale ma per fortuna non hanno causato troppi danni. Il 26 agosto è stato colpito il centro storico e ci sono stati numerosi morti. Tutti sono molto scossi….»
Berlino, 28 agosto 1940

Portrait of Helga Schneider

Il piccolo Adolf non aveva le ciglia
di Helga Schneider
Grete è una giovane madre che sperimenta sulla propria pelle la cruda efferatezza del programma di eutanasia elaborato dal nazismo. Tutto comincia quando conosce Gregor, il facoltoso rampollo di una famiglia prussiana, destinato a una radiosa carriera nelle alte gerarchie del regime. L’unione è in apparenza felice ma molte ombre minano la solidità della coppia. Il carattere instabile di Gregor infatti non tarda a manifestarsi nella forma di una brutale crescente violenza, culminando nel rifiuto del figlio, che, appena nato, viene trasferito all’istituto di Görden, la prima struttura ad essere entrata in funzione per praticare lo sterminio di bambini affetti da malformazioni e malattie genetiche. Ma il calvario di Grete è solo agli inizi. Gregor, consapevole di non poter salvare in alcun modo il suo matrimonio, per cancellare la vergogna che ciò comporta in una società che ha eretto altari al culto dell’ordine e della perfezione, dispone il ricovero coatto della moglie in un centro di cura per le malattie mentali, avviandola a morte certa.
Solo per una incredibile fatalità Grete scampa alla camera a gas. Da questo punto in poi ha inizio la sua seconda vita, con l’adesione alla resistenza e un nuovo amore. La storia vera di Grete Schulze rappresenta il drammatico percorso del risveglio di una coscienza indottrinata, plagiata fin dall’infanzia ad accettare passivamente regole e comportamenti che ne avrebbero fatto un ottimo elemento di sostegno al partito di Hitler.
Attraverso questo romanzo Helga Schneider aggiunge un tassello importante alla sua indagine sui crimini commessi dalla dittatura nazista, affrontando un tema delicatissimo in rapporto al quale il processo di recupero di una memoria esaustiva di fatti e persone coinvolte, parallelamente alla stesura di una storiografia critica,  può dirsi tutt’altro che concluso.
L’opera è corredata di una nota di approfondimento nella quale si ricostruisce la pianificazione e la messa in atto dello sterminio di quanti furono considerati ‘inabili’ al lavoro e alla procreazione: epilettici, senza fissa dimora, disabili, malati di mente, invalidi di guerra, omosessuali. Una sintesi che permette di seguire nello spazio geografico e cronologico i terribili sviluppi di una pratica ispirata da un’ideologia folle, alla quale vanno attribuite 70.000 vittime.
(di Claudia Ciardi)

Heike riprende a respirare
Su licenza della Salani Editore (2008), TEA ripropone nel 2011 un intenso romanzo di Helga Schneider, "Heike riprende a respirare", dove la scrittrice, scampata alla furia della battaglia di Berlino e da molti anni in prima fila nel rappresentare il dramma del popolo tedesco annientato dal delirio nazista, torna a riflettere sulle distruzioni fisiche e morali della guerra.
L’inizio del 2011 ha visto dare alla luce diverse pubblicazioni su questo tema, pensiamo al bel volume di Abscondita che presenta in nuova veste editoriale il quaderno-poema di acqueforti, Estragos o Desastres de la guerra, realizzato da Francisco Goya tra il 1814 e il 1820; guardiamo agli appunti scritti durante la seconda guerra mondiale da John Steinbeck, mentre era al fronte come corrispondente per l’esercito americano, usciti a gennaio per Bompiani; e ancora il Cendrars di Via del Vento edizioni, reduce e invalido di guerra che cerca di far proseguire la propria vita. Questi lavori arrivano in un momento cruciale per l’assetto geopolitico del Mediterraneo. Non è volersi affidare a tutti i costi ai ricorsi storici. Eppure, quella che va presa come un’innegabile coincidenza, senz’altro conferisce maggior vigore ai messaggi di autori che tornano ad affacciarsi nel panorama culturale dell’occidente proprio in una fase delicatissima, nella quale quotidianamente abbiamo sotto gli occhi esodi e violenze. Di un simile aggirarsi per macerie umane e culturali la scrittura della Schneider si fa carico con straordinaria intensità, proiettando la narrazione pezzo per pezzo verso la fragile quinta di una realtà desolata.
Al pari di una macchina da presa, il racconto indugia ripetutamente sul paesaggio lunare di una città che non c’è più, non solo per il venir meno dei suoi spazi ma anche, e soprattutto, in seguito alla fine delle consuetudini e della quotidianità vissute dai suoi abitanti. C’è un respiro spezzato nelle architetture e uno, interrotto con strazio ancora più grande, nelle persone: lo spazio offeso scandisce il ritmo di una lacerazione corale. Peraltro la memoria dolorosamente infranta dal dramma di un’epoca è al centro anche di altri resoconti. Uno su tutti, il romanzo di Anne-Marie Hirsch, esule in Francia dall’avvento del nazismo. Nel suo Ritorno a Weimar la Hirsch, compiendo un percorso in parte simile a quello della Schneider, che la porta tra le rovine delle città tedesche, da Berlino ad Halle, comincia un lento ritorno a quel mondo, violentemente strappato alla propria vita e perfino al ricordo, quindici anni prima. Ogni giorno, i sopravvissuti, sotto l’assedio di una sorta di spasimo del nulla, cercano di rintracciare la strada che porti a una guarigione dal trauma, se non arrivando a superarlo, almeno aspettandosi di sanare la tensione che ancora, alla fine del disastro, tiene lontana l’anima dal sé, non a caso, per gli antichi, soffio vitale e centro sensibile. Un’esistenza più che stentata quella in cui si trascina il popolo delle Trümmerwohnungen, abitazioni di fortuna ricavate da case distrutte. E ciò a partire dalle due protagoniste, Heike, cugina berlinese della scrittrice, e la madre, vittima prima delle violenze dei Russi e poi della brutta depressione che le sarà fatale. Dopo il bombardamento della casa, convertita la cantina in alloggio, le due donne lottano per dare un senso alla loro vita familiare, in attesa dell’arrivo del padre e marito. Ma la volontà di andare avanti viene meno a Margie, lentamente consumata da un dolore insidioso, quasi l’ammorbante scenario di sconforto, che non lascia intravedere alcuna speranza, reclami da lei ogni intento di salvezza, finché un pomeriggio la fa finita, assumendo una massiccia dose di Veronal. Heike si trova disperata e sola, in un mondo di solitudine e devastazione col quale combatterà la sua personale e durissima battaglia, per poter ritrovare se stessa e lo spazio che le appartiene. Come per un’assurda fatalità, l’estremo gesto della madre le riporta il padre. E tuttavia, il genitore è a sua volta confuso e svuotato dall’atmosfera di un paese nel quale fa fatica a riconoscere e recuperare i cocci della propria vita, precedente lo strappo della guerra. La Schneider riflette molto bene in questo lavoro su un tema centrale nella società tedesca postbellica, affrontato ad esempio, con grande semplicità e immediatezza, anche dal diario di Marta Hillers: la frustrazione maschile per la sconfitta, la perdita dei punti di riferimento nel contesto privato e pubblico e il ruolo delle donne le quali, al prezzo di una sofferenza non minore ma che hanno saputo volgere in positivo, perlomeno in molti casi, si sono messe a scavare, letteralmente e moralmente, tra le rovine del proprio paese per ricostruirne le case e, soprattutto, le persone. Del resto, già un paio di millenni e più orsono, Eschilo ci aveva mostrato quanto delicato fosse il dialogo e lo scambio, all’interno della pólis, tra le attività e i rapporti del nucleo familiare e le istituzioni. E aveva messo in guardia i propri concittadini dal fatto che un irragionevole sentimento di paura, generato dai cattivi governanti, e la stásis, ossia la guerra interna, sua inevitabile conseguenza, facessero correre pericoli esiziali alla società. Le macerie del Pireo e quelle di Berlino si osservano in controluce e mettono a fuoco la stessa tragedia. Heike ha solo dieci anni, eppure trova il coraggio di gridare il suo disagio e di scuotere il padre dal torpore che sempre più lo sottrae a lei. È, certamente, una ribellione ingenua, che non manca di metterla in serio pericolo, ma nel tempo sortisce i suoi effetti.
In questo nulla umano i soli elementi di rifugio e consolazione, grazie ai quali Heike si sente ancora in contatto col mondo, sono gli alberi e la lingua che parla con loro. Proprio l’alternanza tra la polvere e l’aridità della terra, e l’improvviso aprirsi di rigogliosi squarci di verde, danno un respiro tutto particolare alla narrazione. Le piante, fiorite nel deserto, incarnano la resistenza della vita, che dentro se stessa trova la forza di uscire dalla catastrofe.
(di Claudia Ciardi)

Il rogo di Berlino 
«Perché piango? Io non lascio niente, tranne il buon vecchio Opa. Ma quanto fa male! Lascio una città che mi ha rifiutato tutto: una madre, un padre, la nonna. Una vita normale, un’infanzia serena. Una città che mi ha dato solo dolore, privazioni, terrore, solitudine, tristezza, angoscia e disperazione. Perché piango?»
"L’addio a Berlino" di Helga Schneider è una delle dichiarazioni d’amore più toccanti e appassionate che si possano rivolgere a una città. Helga, che aveva otto anni quando si è trovata a vivere i mesi della caduta del Reich in una Berlino bombardata con eccezionale violenza e condannata a un’agonia lenta e terribile, scrive una testimonianza asciutta degli eventi che hanno segnato la sua infanzia e quella del fratello minore Peter.
Le corti di Berlino, spettrali e deserte, la vita di una città che è costretta ad abbandonare spazi e consuetudini, una ferita che si allarga e sanguina di infinita devastazione. Ovunque rovine e il “muto sconcerto” che si abbatte su tutto. L’immenso rogo di una città chiusa in un dolore attonito, assurda prigione di corpi dove la morte, nella veste di un’infaticabile sorvegliante, si è aggirata febbrilmente per mesi. Helga ha vissuto in una cantina, insieme alla famiglia e agli altri abitanti del suo palazzo, i mesi atroci dell’assedio di Berlino. La condanna a un’esistenza sotterranea, piena di privazioni. Inaudite condizioni di sopravvivenza. Gli stenti della fame e della sete e i pericolosi viaggi, nei brevi intervalli tra i bombardamenti, in cerca di qualcosa con cui andare avanti. Le urla di chi ha scelto a rifugio i sotterranei della metropolitana, i corpi sorpresi per strada dalle incursioni aeree, il fischio impressionante degli “organi” di Stalin. Cumuli di macerie, dappertutto, la vita saccheggiata a una città e alla sua comunità.
Di origini austriache, alla fine della guerra, in seguito al ritorno del padre, l’autrice rimpatria con i genitori nel proprio paese. Ma la tragedia di Berlino, gli anni nella città che dentro di sé ha espiato il dolore del mondo, le settimane nella cantina dove ha rischiato di morire non si possono dimenticare. Si può dire addio a Berlino? Pianto di liberazione, pianto di nostalgia, pianto di un tempo che non può passare soltanto. Berlino è un’ossessione e un legame per la vita. Se volete capire questa città, leggete il libro di Helga Schneider.
(di Claudia Ciardi)


Links:



Helga Schneider è nata in Slesia ed è cresciuta in Germania e in Austria. Sopravvissuta alla battaglia di Berlino, drammatica esperienza di cui fu testimone diretta all’età di otto anni, è un’infaticabile narratrice dei crimini del nazismo e degli orrori della guerra. Dal 1963 vive a Bologna, portando avanti il suo lavoro di narratrice, per il quale ha scelto la lingua italiana, oltre a dedicarsi all’attività didattica rivolta soprattutto alla sensibilizzazione dei giovani su questi temi.

1 ottobre 2012

Berlin-Weißensee


Quello di Weißensee è un distretto (Bezirk) contiguo al Pankow (nel nord-est di Berlino). Prende il nome dal lago (Weißer See), il bacino berlinese più profondo, situato all’interno dell’omonimo parco, e costituisce una zona residenziale che ospita il più grande cimitero ebraico della Germania. 
Le autorità comuniste cercarono di incoraggiare l’usanza per cui le coppie appena formate deponessero fiori sul memoriale contro il nazifascismo, edificato all’entrata del parco, ma questa attività ha subito un drastico declino a partire dal 1989. Nella parte settentrionale del parco si estende una pista ciclabile, la Radrennbahn Weißensee, dove ai tempi del Muro erano occasionalmente tenuti concerti rock che attiravano molti giovani della Germania Est.
Pankow and Weissensee - The Rough Guide to Berlin
 by Jack Holland, John Gawthrop
pp. 189-193
Weißer See in Winter
Weißer See
wikipedia.it

Strandbad Weissensee on facebook

Der Bezirk Pankow-Weissensee

Weissensee is a locality in the borough of Pankow in Berlin, Germany, named for the small lake Weißer See (White Lake) within it. Before Berlin's 2001 administrative reform, Weissensee was a borough in its own right, consisting of the localities of Weissensee, Heinersdorf, Blankenburg, Karow and Stadtrandsiedlung Malchow.

Weissensee was first mentioned in 1313 as Wittense. The first settlers subsisted on fishing and established themselves on the eastern shore of the lake, where an old trade route connected Berlin with Szczecin (Stettin) and the Baltic Sea - today the Bundesstraße 2 federal highway.
As Berlin's least inhabited district, it has been overshadowed historically by its neighboring boroughs Prenzlauer Berg and Pankow. However its popularity is increasing due to its proximity to the hip but expensive Prenzlauer Berg. Its trams make reaching Mitte very convenient.


Mauer memory - Foto di Claudia Ciardi ©
Sul cimitero di Weissensee/ Weissensee Jewish Cemetery

«In Germania è usata un’espressione per questo tipo di cimiteri, ossia ‘cimiteri orfani’, perché tutti i parenti di coloro che sono seppelliti lì furono assassinati o lasciarono la Germania. Non c’è proprio nessuno che si prenda cura di queste sepolture».


«What role does Weissensee play in the consciousness of the German public?»

«Most Berliners have heard of Weissensee, but never went there, though there were always people who were interested and went there. There’s a German term for this kind of Jewish cemetery—they call it an orphan cemetery, because all the relatives [of those buried there] were murdered or had to leave Germany. There’s no one really to take care of it. In the 1950s, the German government decided that they were responsible for Jewish cemeteries because they killed the people in charge, or forced them to flee. There are also private citizens who want to help, who go to the registry and say, ‘I really want to do something. What can I do?’ The people at the registry might say, ‘These are graves of families who committed suicide, so there’s really no one who can take care of the graves. If you want to, you’re welcome to.’ They choose one or two graves and say, ‘I’m the one who goes there now because there’s no one left to do this job.’ So for every birthday or date of death there’s someone coming, sometimes with flowers, or to put stones on it. They feel responsible for it. We, the Germans, are responsible. But there are also governmental intitiatives to take care of the mausoleums, because they say, ‘That’s something that belongs to our culture, and we have to preserve it’.»

Source: gravetender06 | December 17, 2011
blog:
InTheMoment
politics | culture | religion

Weißensee graves - Seventh Art Releasing ©

Bibliography:
Weissensee: ein Friedhof als Spiegelbild jüdischer Geschichte in Berlin, Peter Melcher, Haude & Spener, 1986

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