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10 agosto 2015

Aneddoto di Giovanni B. Ramusio sul ritorno dei Polo a Venezia



La grande onda di Kanagawa e monte Fuji sullo sfondo (lett. Sotto un’onda al largo di Kanagawa

xilografia di Hokusai 
pubblicata tra il 1830 e il 1831


«Giunti i Polo a Venezia, intravvenne loro quel medesimo che avvenne ad Ulisse, che, dapoi venti anni tornato da Troia in Itaca sua patria, non fu conosciuto da alcuno. Così questi tre gentiluomini dapoi tanti anni ch’erano stati lontani dalla patria, non furono conosciuti da alcuno de suoi parenti; i quali sicuramente pensavano che fussero già molti anni morti, perché così anche la fama era venuta. Si trovavan questi gentiluomini per la lunghezza e sconci del viaggio, e per le molte fatiche e travagli dell’animo, tutti tramutati nella effigie, che rappresentava un non so che del Tartaro nel volto, e nel parlare, avendosi quasi dimenticata la lingua veneziana. Li vestimenti loro erano tristi e fatti di panni grossi, al modo de Tartari. Andarono alla casa loro, la qual era in questa città nella contrada di S. Gio. Crisostomo, come ancora oggidì [1553] si può vedere, che a quel tempo era un bellissimo e molto alto palagio. E trovarono che in quella erano entrati alcuni suoi parenti, alli quali ebbero grandissima fatica di dar ad intendere che fussero quelli che erano: perché, vedendoli così trasfigurati nella faccia, e mal in ordine di abiti, non potevano mai credere che fussero quei da Cà Polo, che aveano tenuti tanti e tanti anni per morti. Or questi tre gentiluomini s’immaginarono di far un tratto, col qual in un istesso tempo ricuperassero e la conoscenza de suoi e l’onor di tutta la città, che fu in questo modo. Che, invitati molti suoi parenti ad un convito, qual volsero che fusse preparato onoratissimo, e con molta magnificenza nella detta sua casa e, venuta l'ora del sedere a tavola, uscirono fuori di camera, tutti tre vestiti di raso cremosino in veste lunghe, come s’usava in quei tempi, fino in terra. E data l'acqua alle mani, e fatti seder gli altri, spogliatesi le dette vesti, se ne misero altre di damasco cremosino, e le prime di suo ordine furono tagliate a pezzi e divise fra li servitori. Dapoi, mangiate alcune vivande, tornarono di nuovo a vestirsi di velluto cremosino, e posti di nuovo a tavola, le veste seconde furono divise fra li servitori. E in fine del convito il simil fecero di quelle di velluto. Questa cosa fece maravigliare, anzi restar come attoniti tutti gl’invitati. Ma, tolti via li mantili, e fatti andar fuori dalla sala tutti i servitori, messer Marco, come il più giovane, levato dalla tavola, andò in una delle camere, e portò fuori le tre veste di panno grosso tristo, con le quali erano venuti a casa. E quivi, con alcuni coltelli taglienti, cominciarono a discucir alcuni orli e cuciture doppie e cavar fuori gioie preciosissime in gran quantità, cioè rubini, safiri, carboni [gemme], diamanti, smeraldi che in cadauna di dette vesti erano stati cuciti con molto artificio, e in maniera che alcuno non si avaria potuto immaginare che ivi fussero state. Perché, al partir dal gran Cane, tutte le ricchezze che egli aveva loro donate cambiarono in tanti rubini, smeraldi e altre gioie, sapendo certo che, se altrimenti avessero fatto, per sì lungo, difficile ed estremo cammino non saria mai stato possibile che seco avessero potuto portar tanto oro. Or questa dimostrazione di così grande ed infinito tesoro di gioie e pietre preciose, che furono poste sopra la tavola, riempié di nuovo gli astanti di una così fatta maraviglia che restarono come stupidi, e fuori di se stessi. E conobbero veramente ch’erano quegli onorati e valorosi gentiluomini da Cà Polo, di che prima dubitavano, e fecero loro grandissimo onore e riverenzia».



*Colgo l’occasione della pausa estiva per avvisare i lettori che le interviste riprenderanno dopo settembre e non cadranno più mensilmente. Saranno divulgate con maggiore o minore frequenza in base alla disponibilità degli interlocutori. Chiunque desideri intervenire su argomenti che riguardano la società, la comunicazione, la cultura non ai fini di presentare se stesso e la propria opera ma per creare un punto di riflessione di pubblica utilità, è pregato di utilizzare il modulo di contatto. I tempi di risposta non sono molto veloci da parte mia ma ho cercato finora di soddisfare tutte le richieste.
Inoltre, a causa di crescenti impegni sul fronte dello studio e del lavoro, che mi tengono lontana dal computer e non mi permettono di seguire il web con l’intensità che richiederebbe, sono costretta a ridurre la pianificazione dei post. Lo spazio resta aperto ma in alcuni periodi avrà meno aggiornamenti. Ricordo infine che è sempre a disposizione il cospicuo archivio di questo blog che siete invitati a visitare.  

(Di Claudia Ciardi)


Segnalazioni:

 Sulla rivista «Incroci», numero 31, Adda editore, diretta da Lino Angiuli, una prosa autobiografica inedita in Italia della poetessa ebrea tedesca Else Lasker-Schüler. La accompagna un breve saggio che introduce alcuni paralleli tra la poetica schüleriana e quella più o meno coeva del grande svizzero eremita, Robert Walser. 






Su «La Nazione» di Pistoia del 4 luglio 2015 la recensione a cura di Enzo Cabella del racconto inedito di Lou Andreas Salomé, Una notte, pubblicato per la prima volta in Italia da Via del Vento edizioni.   


13 giugno 2015

Lou Andreas Salomé - Una notte

Studiare la figura di Lou e avvicinarne l’opera con il lavoro di traduzione mi ha consentito di entrare in un mondo affascinante dove si respirano l’incontro e l’estrema sintesi culturale tra oriente e occidente, tema a me molto caro. La Russia, essendo lei di origini pietroburghesi, e poi ancora la Persia (Iran), attraverso il marito, Friedrich Carl Andreas, bussano alle porte della sua patria creativa, i cui mezzi d’espressione sono la lingua e la letteratura tedesca. E tedeschi sono pure la maggioranza dei suoi sodalizi, legati ai più diversi campi del sapere, dalla politica alla medicina, fino alla conoscenza, per certi versi rivelatrice, di Sigmund Freud.
Quanto all’orientalismo, in Germania si afferma a partire da Bismarck che divenne promotore di un progetto per l’invio in Medio Oriente di rappresentanti diplomatici e militari. Affinché questo personale potesse ricevere un’adeguata preparazione, nel 1887 fu fondato a Berlino l’Istituto per le Lingue orientali. Carl Andreas ricevette il posto di professore di persiano e di turco. Era tuttavia uno studioso puro e mal si adattava alle politiche accademiche, in linea con le direttive di utilità e profitto tracciate dal governo.
Questo provocò una rottura che ebbe conseguenze non irrilevanti sul piano della sua carriera e, ancor più, del proprio sostentamento economico. La vicenda si risolse nel 1903, anno della sua riabilitazione, quando fu chiamato a ricoprire la cattedra di lingue asiatiche all’università di Gottinga.
Politica dunque, e solo in minima parte attrattiva culturale o, come fu per diversi artisti dell’epoca, moda, allusione senza coinvolgimento, esotismo estetico. Ma pure in tal caso con qualche eccezione: si pensi al polimorfismo orientaleggiante che pervade i libri della Lasker-Schüler
Lou Andreas Salomé scrisse molto, anche per bisogno come ebbe a ripetere in diverse circostanze. Assai più capace nella saggistica, le sue opere narrative non mancarono del favore di critica e lettori. La generosità degli amici che orbitavano intorno al variegato panorama editoriale tedesco, la aiutò a procurarle non solo una certa fama ma anche quei mezzi che le furono utilissimi per poter viaggiare pressoché ininterrottamente, coltivando i tanti scambi con intellettuali e artisti, vitali allo sviluppo della sua personalità.
Il giovane scrittore che legge queste cose prova un certo disagio a raffrontarle alla propria esperienza. Ne ho parlato qualche tempo fa, forse proprio sull’onda di un simile intrecciarsi, sotto i miei occhi, di non poche situazioni la cui costante era proprio la solidarietà tra studiosi. Come sarebbe possibile e pensabile oggi dalle proprie collaborazioni – almeno in Italia, ma l’aria che ho respirato fuori non mi è parsa animata da maggiore slancio – rimediare anche solo il premio, per non dire il compenso materiale, utile a spostarsi, a fare un viaggio, a raggiungere qualcuno che sia in grado a sua volta di farci sviluppare nuovi sodalizi, di insegnarci qualcosa? Mi pare abbastanza arduo. E ciò spiega anche lo scarso entusiasmo che si respira, fin troppo spesso, tra gli addetti ai lavori. Ma soprattutto, al di là delle condizioni materiali – necessarie – che in passato permettevano il realizzarsi di questi incontri, non c’era la fatica del crearsi di un rapporto, non si girava attorno alle cose, non ci si perdeva in congetture sulla convenienza di avere o meno davanti una persona: chi meritava di essere coinvolto in una discussione non veniva escluso, ma cercato e fatto arrivare dove lo si riteneva utile. A costo di disaccordi, contrasti e perfino scissioni – emblematico proprio il caso della scuola freudiana – era comunque importante stare insieme, coltivare i contatti con una certa assiduità, stimolarsi. A me pare che proprio questa sia stata la grande forza, anche e soprattutto creativa, insita nell’esaltante ventennio culturale che va dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento.

(Di Claudia Ciardi)



Lou Andreas Salomé, Una notte,
a cura di Claudia Ciardi,
traduzione di Claudia Ciardi e Katharina Majer,
Via del Vento edizioni, giugno 2015
ISBN 978-88-6226-079-4
Euro 4,00

Scheda del libro/ Book snippet

Collection/ Collana «I quaderni di Via del Vento»


Di Lou Andreas Salomé, amica e compagna di numerosi intellettuali, quali Nietzsche, Rilke, Freud, moglie del noto orientalista Carl Andreas, studiosa eclettica e grande viaggiatrice, fra le pioniere della psicoterapia, queste edizioni presentano un racconto inedito in Italia. 


From the book:
«Dapprima ci pensa con ostinata amarezza, con disperato struggimento, si mette a girarci intorno, sente di essere proprio infelice, poi prova terrore e cerca inutilmente di staccarsi da lui. Crede ancora di sentire il discorso di poc’anzi ma stavolta non è solo la sua ragione a seguire le parole – l’intera atmosfera della morte scivola sopra di lei e l’afferra.
È come se fosse stata scaraventata fuori da un giardino di rose sul bordo nudo di uno strapiombo dove s’infrange il mare. Ma non è sola, piuttosto sono con lei tutte le persone – l’essere umano essenzialmente – ogni singolo essere che vive, ama e muore. Si sente legata nel pieno dell’affanno alla grande totale sofferenza di tutto l’esistere, la sua esigua, isolata pena d’amore svanisce e s’inabissa. Ora non avrebbe potuto baciare e neppure dormire. Siede, le mani intrecciate attorno alle ginocchia, e con turbati occhi aperti fissa la notte. 
Nella lampada langue il lucignolo. Si alza lentamente e lo estingue. Il cielo sopra l’ospedale inizia a tingersi lievemente di rosso. Passano bianche caliginose nubi mattutine. Dalle chiome dei castagni che si levano come una nera massa compatta si ode il basso verso assonnato di un uccello. Qua e là una finestra illuminata degli edifici laterali getta il suo bagliore nello scuro groviglio delle foglie, e un ramo carico di fiori risalta».


14 aprile 2015

L'esperienza di scrivere e tradurre


GoyaMurió la Verdad - Truth has died 

Desidero segnalare due scritti che mi sono stati recentemente richiesti da persone occupate da anni nella divulgazione culturale, delle quali ho molta stima. 
In uno, prendendo spunto dalla mia ultima pubblicazione dedicata alle prose memoriali di Else Lasker-Schüler, torno a parlare dell’esperienza di tradurre dal tedesco, argomento peraltro già toccato abbastanza diffusamente in occasione dello scambio con Paolo Zignani, al quale accennai non molto tempo fa nel corso di una sua intervista. La poetica schüleriana è anche un ponte per parlare di un altro tema amatissimo, quello della Kindheit nella letteratura tedesca.
Nell’altro ripropongo due mie vecchie prose, la cui stesura risale al 2010, dove ho inteso cimentarmi nel vortice linguistico del Finnegans di Joyce e della sua versione italiana, genialmente condotta dal compianto Luigi Schenoni. L’inaspettato interesse di Alibi Rivista per la scrittura dello Slum pastiche ha fatto sì che ripensassi a quell’esperimento, percorrendo di nuovo le più che bizzarre tappe della sua genesi. Ne do qui un assaggio, per il resto rimandando al numero elettronico. Alibi è una tra le più interessanti officine letterarie in cui mi sia capitato di entrare. Il collettivo, nella persona di Ciro Maiello, sarà presto mio ospite su queste pagine per parlare del progetto.

Su «Helios Magazine» - gennaio 2015 - racconto brevemente la mia esperienza di traduttrice e di come ho iniziato ad avvicinarmi alla letteratura tedesca. Per motivi di spazio non è stato possibile pubblicare tutto il mio intervento che riporto in versione integrale qui di seguito. Grazie a Kreszenzia Daniela Geher, autrice del pezzo, e a Pino Rotta, direttore di Helios, per avermi richiesto questo contributo: 

 «Ho cominciato a occuparmi di cultura tedesca prima di laurearmi in lettere antiche, quindi parliamo circa del 2006. Di formazione sono una classicista ma a metà del mio corso universitario ho avvertito che lo studio del latino e del greco non mi appagava completamente. Mi sono così indirizzata all’ambito storico e antropologico, e in questa ricerca piuttosto eclettica ho coltivato le lingue moderne, soprattutto inglese e tedesco. Mentre l’inglese era per me una via assai più comoda, avendolo frequentato per quasi dieci anni, il tedesco è stato un salto nel vuoto. La sua scoperta è avvenuta precisamente attraverso una prima breve collaborazione con un’equipe internazionale di studiosi, fisici per lo più, che si muovevano tra l’università di Roma e un istituto abruzzese, per i quali ho svolto le mie prime traduzioni, e in seguito nei panni di segretaria di un professore della FU di Berlino. Nei momenti di pausa mi capitava di leggere Schiller, Hölderlin, Novalis, o che mi fossero letti in lingua originale. Si è trattato di una folgorazione. Da allora la mia curiosità per la lingua e la letteratura tedesca non è più venuta meno. Avevo finalmente trovato quello che da tempo stavo cercando e che mi è alquanto difficile spiegare: il tedesco veicolava un insieme di temi, accenti, sottili alchimie che ogni volta rafforzavano, limavano, davano profondità all’italiano. Un ponte era stato gettato e su di esso correva una sintesi culturale che calzava alla perfezione con i miei interessi. Dalle voci di poeti e prosatori dell’Ottocento e Novecento tedesco affioravano stimoli continui al mio percorso di studi e scrittura. Vi sono stati poi diversi viaggi in Germania. Compiuti i corsi linguistici di rito mi sono tuttavia allontanata decisamente, sebbene anche per ragioni indipendenti dalla mia volontà, dai protocolli accademici: il che ha comportato anche qualche problema. Avendo viaggiato in solitaria e per lo più senza incarichi posso fare la seguente riflessione che mi deriva da esperienza diretta: è difficile oggi essere letterati sul campo, cioè comportarsi come gli autori del secolo scorso, dei quali ci stiamo occupando in questa discussione. Queste persone formavano gruppi, avevano luoghi di aggregazione, si confrontavano, anche con animosità, vivevano la letteratura a trecentosessanta gradi. Parigi, Berlino, Monaco erano capitali della cultura perché tutto lì raggiungeva in pochissimi istanti la temperatura di fusione, e molto di quanto vi si faceva e diceva aveva ricadute creative. Adesso, benché si parli ovunque di fermento, e anch’io nei miei interventi in un passato non troppo lontano abbia sostenuto ciò, mi pare che in realtà si abbia molta più propensione al commercio che alla sostanza, pure in ambito artistico, che ci si atteggi a qualcosa prima ancora di esserne veramente investiti e partecipi. Gli spazi – e in una metropoli contemporanea questo diviene lampante – sono destinati a un’immediatezza di fruizione e consumo. Quel che resta nella sfera della cultura è a sua volta inquadrato nella settorialità, nello specialismo accademico, cioè in un meccanismo che è applicazione, che finisce per tradursi fin troppo spesso in uno sguardo parziale, estremamente frantumato. Mentre tale atteggiamento, sebbene solo in maniera limitata, trova ancora in ambito scientifico qualche punto di convergenza funzionale, mi si passi l’espressione, per chi si occupa di discipline umanistiche rappresenta la catastrofe. 
Poco, pochissimo dunque rimane a disposizione del gioco letterario.
Gli autori tedeschi amano e analizzano il tema della Kindheit, in quanto metafora potente della disgregazione del mondo. Da un lato il ricordo di un tutto sensibile e affettivo, un’utopia per certi versi, all’opposto la realtà stringente che in una mano agita il progresso e con l’altra sparge i drammi della storia. E la Germania del primo Novecento è per l’appunto il luogo della deflagrazione. Certo, il clima politico e sociale tedesco, e si consideri in tal senso anche la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, ha contribuito non poco a tenere a battesimo presso i letterati mitteleuropei una simile poetica. Pensiamo a Walter Benjamin nella prosa e a Rainer Maria Rilke in poesia. In entrambi l’infanzia è un polo magnetico, attorno al quale si addensa una vera e propria epica del disincanto.
A livello personale esplorare, letteralmente per mano a questi autori, la faglia che li ha portati a una simile elaborazione, lo ritengo più che necessario. La mia ricerca, condotta nelle difficoltà, perfino nella discontinuità di cui dicevo, è motivata da una sorta di duplice bisogno conoscitivo e creativo. Le due cose non dovrebbero soccombere all’antitesi meccanicistica dei tempi.
La figura di Else Lasker-Schüler, nella cui anima molte sono le fratture che si aprono, ha speso la sua esistenza tentando di recuperare quell’unità di significato che gli eventi le avevano sottratto. E non è un caso che per raggiungere la propria meta abbia scelto due vie, tra loro contigue. La prima, il gioco letterario, perché la letteratura è di per sé giocosa, implica il coinvolgimento di maschere, l’invenzione, la riscrittura di senso che lei spinge talvolta all’estremo, fino a una ridondanza esasperata e disperata insieme. Da questo punto di vista il pittore Franz Marc ne è stato forse l’interprete migliore, e non sorprende che i due abbiano intrecciato un dialogo di profonda sintonia artistica. 
La seconda via, il recupero del volto dell’infanzia trascorsa nella grande casa natale di Elberfeld, circondata dal calore dei familiari, perché lì si sono addensate quelle suggestioni, quelle impercettibili cadenze, quelle fragilità visionarie destinate a divenire il termine di paragone di tutto il suo esercizio poetico».


Breve nota allo Slum pastiche su «Alibi Rivista» numero 9, aprile 2015

«Queste due prose risalgono a un periodo di sperimentazione. Era il 2010 e mi stavo avvicinando al Finnegans non senza provare di fronte a quella lingua tortuosa, improbabile eppure perfetta, un senso di confusione, che non è esagerato definire quasi di malessere. Ma a ogni lettura mi capitava anche di assaporare la beatitudine dello stare davanti al prodigio delle parole sorprese nel loro stadio più selvatico. Nel suo ultimo capolavoro Joyce si limita ad assecondarne i capricci musicali, null’altro. Il genio di Schenoni traduttore, purtroppo precocemente scomparso, ne ha fatto una costola meravigliosa, una zattera buttata sulle rapide della creazione verbale e della sua traslazione fantastica. Ma né Joyce né il suo magnifico interprete italiano hanno certo esaurito la materia. Finnegans è una di quelle opere, come Pinocchio, che contengono il principio dell’“uno nessuno centomila”, sfogliarle non è un atto privo di conseguenze; implica una metamorfosi che dal lettore rimbalza nel testo originale.
I miei scritti sono niente più che un divertissement, suggerito dalla volontà ludica – e che altro è la letteratura se non un gioco? – di fissare con immediatezza in che modo il dettato dello scrittore irlandese stava radicandosi dentro di me. Ecco il motivo per cui vi si trovano non solo citazioni dalla ‘tabula’ joyciana ma anche elementi che in maniera più o meno scoperta ammiccano ai miti e alle figure della scomposizione (Osiride, Dioniso, l’asino di Apuleio). Il tutto calato in un impasto linguistico che attinge a fonti tra loro molto lontane (le lingue antiche, i dialetti meridionali, soprattutto il calabrese e il siciliano – ma si dovrebbe pur sempre parlare di lingue – e le lingue moderne), sovrapponendo cadenze, indovinelli semantici, collisioni fonetiche ai limiti del possibile. Da qui il titolo che si può rendere in italiano come “pasticcio catapecchia”».

(Di Claudia Ciardi)


Marginalia on James Joyce's Finnegans

30 settembre 2014

Else Lasker-Schüler - Concerto/ Konzert


«Cinque brevi prose inedite in Italia della grande poetessa ebrea tedesca Else Lasker-Schüler, incentrate sul racconto della sua infanzia in Germania, momento di vita ideale e idealizzato in cui germogliano i semi di una maturità lirica che ne faranno una delle voci femminili più intense e struggenti nel panorama letterario europeo del primo Novecento.
Immenso tema quello della Kindheit, cosmo sentimentale, patria perduta, orizzonte della Sehnsucht. Da Kleist a Benjamin, Roth e Rilke, l’infanzia è una metafora dell’esistenza, la latitudine prescelta per narrare la fragilità umana e il naufragio del mondo. Il poeta la dissotterra come fosse una città sepolta e torna a farvi ardere le fiaccole della propria immaginazione. In questo percorso a ritroso, dove la realtà appare necessariamente sfumata e il filo delle memorie si svolge nel duplice affanno di chi è intento a dipanarlo e di chi lo insegue, emergono nella loro sconvolgente crudezza solitudini e contraddizioni dell’epoca odierna. 
Tra tali fuochi fatui, La finestra illuminata della Schüler, vertice di contenuto e di stile tra le prose qui raccolte, è una radura fiabesca, momentaneo risveglio del ricordo strappato all’indifferenza della storia, prodigio di scrittura sul quale si allungano le ombre della sera. Dal riflesso dei suoi vetri si tende una calda mano materna che viene a rassicurare colui che per un attimo vi getta lo sguardo».

(Di Claudia Ciardi)



Else Lasker-Schüler, Concerto e altre prose sull'infanzia,
a cura di Claudia Ciardi,
traduzione di Claudia Ciardi e Katharina Majer,
Via del Vento edizioni, settembre 2014
ISBN 978-88-6226-079-4
Euro 4,00

Scheda del libro/ Book snippet

Contiene/ Table of content:

Di prima mattina
Elberfeld nel Wuppertal
La mia infanzia
Concerto
La finestra illuminata

Collection/ collana Ocra gialla


«Venticinque anni fermentò questa poesia nel mio cuore, divenne una vigna, un’antica vite di Spagna, vite giudaica, dell’età delle stelle. Con l’arte va infatti come col vino. Quanto più si dispiega sulla volta del cuore, tanto più si rafforza. Alla mia adorata mamma, che io, da quando mi si rivelò la finestra ad arco, nell’andare a dormire la sera con timore ero solita abbracciare forte, raccontavo con grandi occhi il segreto del vetro illuminato. «Sei una poetessa», diceva mia madre. E il fatto che lei ora sia morta e non possa prendere parte di persona al banchetto apparecchiato dei miei versi, rattrista la mia anima. È in cielo, e quando è sera, la cerco dietro il luminoso granato della finestra di nuvole».

Da La finestra illuminata 


In questo blog/ related links:

Infanzia e Oriente - Kindheit und Orient





La recensione dell'ultimo numero della rivista «Incroci», dove è stato pubblicato un inedito di Joseph Roth, su «Poesia» di Nicola Crocetti - n. 296, settembre 2014, p. 30

19 marzo 2013

«Die kreisende Weltfabrik»


Else Lasker-Schüler

Nato davanti a una tazza di caffè gustata sotto un pergolato di Sindelsdorf, Der Blaue Reiter è un movimento molto diverso da quello della Brücke (Dresda, 1905-1906), e dunque dall’espressionismo. Ciò è dovuto al suo rapporto fortissimo con l’eredità del romanticismo tedesco e al contatto con gli artisti russi, legati all’ambiente simbolista, cose che lo espongono all’influsso di dottrine esoteriche.

Entrando nella galleria del Lenbachhaus di Monaco si è infatti colpiti dalla forte presenza del blu cobalto, tanto che sembra di passeggiare in un mondo fiabesco di immagini irreali, vicine alla natura, dove l’universo romantico convive con un’istanza di rottura della tradizione. Leggendo alcune osservazioni di Boris de Rachewiltz circa il simbolismo racchiuso nell’azzurro presso le culture orientali, non sfuggirà il nodo di implicazioni che una simile scelta di colore comporta: «Questa predominanza [del blu] può riferirsi – al di là della pura e semplice visione estetica – a un elemento archetipico cromatico la cui dimensione «magica» era ben nota agli antichi egiziani (si ricordi la vasta produzione di faïence azzurra) e che si basa sulla particolare vibrazione di questo colore. In sede scientifica si potrebbe ricordare come le onde luminose provenienti dal sole ed invisibili negli spazi cosmici, colpendo l’atmosfera, brillino di luce azzurra. La percezione intuitiva di antiche genti sul miracolo della «luce» portò quindi alla attribuzione di una proprietà magica al colore azzurro […]. La stessa giada azzurra venne considerata magica dai cinesi in quanto si reputava contenesse il principio Yang e quindi la «segnatura» solare, divenendo così un centro carico di energie cosmiche» (si tratta del suo famoso studio sulla poesia poundiana, L’elemento magico nella poesia di Ezra Pound, pp. 14-15).
Un altro aspetto che contraddistingue Il Cavaliere azzurro è il sodalizio, tutt’altro che superficiale, tra pittori e musicisti. Basti pensare che nel celebre almanacco di presentazione sono inserite le partiture di Schönberg, Berg e Webern, e ben quattro saggi musicali su quindici complessivi. Anche a monte di ciò si registra un’eredità simbolista, un bagaglio che si coglie pure nel forte interesse per il primitivo dimostrato da tutti gli aderenti. Il gusto per ciò che è naïf, ossia fotografato in uno stato di comunione con la natura, non solo penetra nel Blauer Reiter attraverso il filtro delle più o meno coeve esperienze d’avanguardia ma si materializza in una vera e propria ricerca delle origini, ravvisate ad esempio nelle figurine del teatro d’ombre egiziano, nei disegni cinesi e negli ex voto bavaresi (importanti soprattutto per Kandinskij), pitture queste ultime di incredibile semplicità tecnica e compositiva, eseguite su specchi e vetri, quale attestazione della grazia ricevuta.  
Infine non è possibile non riconoscere uno spiccato carattere internazionale del gruppo, soprattutto aperto all’elemento russo-slavo. I russi, in particolare Kandinsky, Javlenskij e la Werefkin, trapiantati a Monaco, sono i rappresentanti di una religiosità, il cui misticismo si unisce al romanticismo tedesco, oltre ad essere portatori di una sensibilità per il colore, vicina ai toni esplosivi e fantastici dei fauves, incontrati a Parigi.
Insieme a Kandinsky, il padre putativo del movimento e colui nel quale si identifica la figura “virtuosa e visionaria” del cavaliere, è Franz Marc, legato peraltro da una profonda amicizia a Else Lasker-Schüler, moglie del gallerista Herwarth Walden. Else chiama Marc con il soprannome di fratello Ruben e gli indirizza non poche lettere (56 per l’esattezza, vergate tra il 1913 e il '15) in cui mima i più improbabili travestimenti, ora proclamandosi regina di Tebe, esotica e sensuale, ora cortigiana d’avanguardia, irriverente e androgina.
Nel suo epistolario Else assume il ruolo di gran sacerdotessa che officia la nascita rituale della nuova arte monacese. Il dialogo intrecciato con Ruben prima del dramma – l’artista infatti muore nella prima guerra mondiale, diventando una sorta di incarnazione di Adone, giovane e dolente –  somiglia a un cammeo bizantino, un'affiche surreale ornata di illusionismo, la cui vibrante gestualità si ritrova, per certi versi, nello straordinario bazar weimariano allestito da Benjamin, più di un decennio dopo, sulla sua Einbahnstrasse.
Con l’aroma del caffè, da Sindelsdorf arrivano a Berlino le cartoline di Franz animate da paesaggi onirici e spiazzanti cavalli azzurri. Else non si lascia certo cogliere impreparata e risponde coniando un fortunatissimo epiteto: «caro cavaliere azzurro». L’idea si lega finalmente a un nome e il gruppo può così consegnarsi alla storia. Né manca in tutto questo l’ammiccamento sessuale, maschera ironica ed estremamente volubile, che presiede al gioco di reciproca investitura artistica: «Siamo entrambi seduti sul pavimento della stanza dei giochi nel vecchio palazzo a Tebe; giochiamo insieme con le cianfrusaglie, con le gambe di legno, con la coda del cavallo a dondolo rotto. Fez polverosi e turbanti stracciati e vari tipi di legno del Libano sono sparsi un po’ dappertutto fino all’uscita. Ci rincorriamo sulla scala a chiocciola, che già scricchiola, i suoi scalini sono marci e traballano come i vecchi denti degli eunuchi. Tu sei il più caro che io conosca, sei fatto di puro miele; bada che non venga un orso a leccarti. Io sono ancora piccolina, gioco sempre a nascondermi dietro le mani o far trapelare il sole fra le dita. Tu sei sempre di casa, ma per lo più siamo due porcospini che si rotolano sui sassi ruvidi – o due lombrichi; quando sentiamo delle voci ci rifugiamo in un cantuccio» (lettera 26).
E ancora: «[…] lontani vagano i tuoi occhi bruni e la tua mano afferra la prima striscia d’aurora nel cielo, per intagliarsi un bastone da pastore. Tu, grande pastore fra i principi, Tu, Emiro, Tu Messia di tutte le fiere dei boschi nuziali, delle cupe foreste vergini. Tu, azzurro guidatore del destriero, Tu sciacallo bruno-oro, che afferra la gazzella dalla roccia. Tu mi insegnasti la parola dell’assassinio casto. Sei Ruben, l’uomo ancora intatto della Bibbia. Tuo fratello Jussuf» (lettera 35).
Simili tonalità non sono forse straordinariamente affini ad alcuni cori di bassaridi, ministre e ambasciatrici di quell’eros dionisiaco e di quella sensualità innica disseminati nei Cantos, che si andavano inaugurando più o meno nello stesso momento dell’avanguardia di Monaco? La cultura europea sembra percorsa, ma meglio sarebbe dire scossa, dal riprodursi di simboli e archetipi che nel primo novecento affollano il panorama del fermento creativo. Impossibile non cogliere il bisogno concettuale, e ancor più plastico, di irretire la materia in nuovi alfabeti e linguaggi in grado di comprenderla nella maggiore profondità e completezza d’espressione. Ma in ogni caso si tratta di una esplorazione che guarda all’antico e non sogna affatto di amputare né disconoscere l’origine dell’arte occidentale, anzi l’obiettivo è proprio il recupero di tale radice di pensiero per provare a operarne una sintesi.  
La scelta di alcune lettere della Lasker-Schüler, nella traduzione di Maura Del Serra, autrice anche di una puntuale analisi del milieu in cui l’epistolario è venuto alla luce, fa di questo volumetto, edito da Via del Vento, un prezioso contributo all’approfondimento non solo di una singola avanguardia ma in generale di un’epoca che ha assistito a una grande mobilità di ingegni e idee, chiosando, almeno per un piccola porzione, quel concitato crocevia che è la cultura del primo Novecento.

(Claudia Ciardi, maggio 2011)
Portrait

Else Lasker-Schüler (Elberfeld, Westfalia, 11 febbraio 1869 – Monte degli Ulivi, 22 gennaio 1945).


Else Lasker-Schüler, "Caro cavaliere azzurro" Lettere a Franz Marc, a cura di Maura Del Serra, Via del Vento edizioni, maggio 1995.
Titolo originale: Der Blaue Reiter präsentiert Eurer Hoheit sein Blaues Pferd, Monaco, Prestel, 1987 (comprende tutte le 56 lettere scritte dalla poetessa al “fratello Ruben”).

Else Lasker-Schüler, 11. 2. 1869 Elberfeld - 22. 1. 1945 Jerusalem. Die Tochter eines jüdischen Bankiers erhielt nach Schulabbruch Privatunterricht, heiratete 1894 den Arzt Dr. Berthold Lasker und zog nach Berlin. Hier entwickelte sich kurz vor der Jahrhundertwende eine enge Freundschaft mit P. Hille, mit dem sie zeitweise in der von den Brüdern Hart gegründeten Neuen Gemeinschaft zusammenlebte; 'Das Peter Hille-Buch', ihre erste Prosaarbeit, überhöhte die Beziehung ins Traumhaft-Mythische. Inzwischen von Lasker geschieden, heiratete sie 1903 H. Walden, den späteren Herausgeber der Zeitschrift «Der Sturm» (Scheidung 1912). 1933 emigrierte sie in die Schweiz und reiste danach wiederholt nach Palästina. Hier wurde sie 1939 vom Ausbruch des Krieges überrascht, so dass sie nicht mehr in die Schweiz.


«Chi abbandona l’amico è un disertore, ma guai a chi si vanta della vittoria con il nemico. Voglio essere imperatore sopra l’imperatore. Ciascuno di voi, sia pure il più povero, è il mio imperiale suddito. Vogliamo baciarci sulla bocca. Io, il Malik, ognuno di voi, ognuno di voi l’altro. Dunque curate dolcemente le parole del mio amore, che fioriscano in mezzo al pane dei vostri acri. Ho sempre guardato al cielo, oh, dovete avermi caro, e vi porto con molta dolcezza il mio cuore come un grande narciso
»  (lettera 55, a Karl Kraus).

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Leseprobe aus Die kreisende Weltfabrik

DIE BEIDEN WEISSEN BÄNKE VOM KURFÜRSTENDAMM


Meinem lieben Freunde Andreas Meyer Morgens standen sie plötzlich auf dem Kurfürstendamm wie vom Himmel gefallen in Mondsichelfasson. Die eine weiße Bank winkte den Letzten, die aus der Friedrich-Wilhelm-Gedächtniskirche kamen, freundlich zu, die andere weiße Bank lud eine blonde Schöne ein in aschgrünem Samt. Ich bin seitdem öfters an den weißen Bänken vorbeigegangen; gestern setzte ich mich zum erstenmal auf die eine, den Damm weiter, auf die andere. guckte ich geradeaus, bot sich mir ein Kreuz- und Querbild. Man sieht es vielen Vorbeieilenden an am Operngucker in ihrer Hand, wohin sie wollen zur Hochbahn in einer halben Stunde fangen die Theater an. Andere kommen aus der Stadt, biegen um die Joachimsthaler Straße und kehren ein in das heimatliche Café des Westens. Kommen da zwei kleine, arme Mädchen; in ihrer Mitte ihren lebendigen, rotbäckigen Hampelmann, der sprechen kann. "Zwei Jahre ist er", erzählen sie mir und streiten sich, wer ihn aufwarten, das heißt, wer mir von ihnen seine Kunststücke zeigen wird. "Wir sind keine Schwestern", antworten die beiden gernegroßen Mütter, sie lassen schon behäbig das Kinn hängen, fürsorglich sind sie um ihren kleinen Kasperle. "Wir sind jede für uns allein." Sie meinten damit, sie sind nicht einmal verwandt. Lieschen ist in Pflege, ihr Pflegevater ist Nachtwächter manchmal legt er sich vor Müdigkeit, wenn er morgens nach Haus kommt, mit dem Bund Schlüsseln und der Laterne ins Bette. Das andere Lieschen, sie heißen beide ganz gleich, erzählt: Sein Vater helfe einem Zauberer. "Ein schwarzer Neger ist sein Papa!" Es ruft mich jemand von der Haltestelle der Elektrischen, ein Dichter im Florentiner, er will in die Kolonie fahren. "Reisen Sie alleine, Torquato Tasso, ich will mich noch auf die weiße Schwesternbank setzen." Ich sehe mich nach ihr um, sie glänzt viel bräutlicher wie diese, von der ich mich erhebe; und ich zögere, mich auf die myrtenweiße niederzusetzen. Aber die beiden Verliebten da bemerken es nicht. Aus der Kirche treten schon die ersten Sonntaglinge, die Sonne spielt Orgel um das Haus mit ihren schlanken Strahlen. Ich verstecke mein Gesicht in dem großen Glockenturm sehe, höre und denke nichts. und doch findet man sich auf den weißen Bänken wieder, wenn man sich verloren hat.



Beschreibung zu Die kreisende Weltfabrik


Else Lasker-Schüler, 1869 in Elberfeld (Wuppertal) geboren, 1945 in Jerusalem gestorben, lebte seit 1894 in Berlin, schrieb Gedichte, Theaterstücke, Prosa und wurde eine der bekanntesten Figuren der aufregenden zehner und schrillen zwanziger Jahre. 1933 musste sie in die Schweiz emi­grieren, seit 1939 lebte sie in Palästina. Für Gottfried Benn war sie »die größte Lyrikerin des Jahrhunderts«.


Ihr Ruhm basiert auf sehr poetischen und phantasiereichen Liebesgedichten, auf ihrer unkonventionellen Lebensweise, auch auf der Fähigkeit, geradezu schwärmerisch auf Personen zuzugehen, die sie als geistesverwandt ansah und dann in Gedichten und Briefen verewigte.

Es gibt auch eine andere Seite der Else Lasker-Schüler, die viel zu wenig wahrgenommen wurde und wird: die der genauen Beobachterin des großstädtischen Lebens in Berlin. Es gibt eine Reihe von Prosatexten und Porträts aus den zehner und zwanziger Jahren, also aus der Zeit, in der Else Lasker-Schüler in Berlin lebte, die eine überraschend präzise formulierende Autorin zeigen und das Bild korrigieren, das von vielen Interpreten (à la »eine ganz nach innen gekehrte Seherin«) geprägt wurde. Sie ist hier als Autorin zu entdecken, die ihre soziale Umgebung mit allen Details und Widersprüchen wahrnahm, sie hinreißend genau beschreiben konnte und dann mit ihrer einzigartigen Ausdruckskraft zum Leuchten brachte. In einer manchmal ironischen, manchmal ganz sachlich am Gegenstand (Straßen, Plätze, Bäume, Hotels, Cafés etc.) oder an Personen (Porträts von Zeitgenossen, bekannten wie unbekannten) orientierten Sprache hat Else Lasker-Schüler etwas über die damalige Zeit und das damalige Berlin zu sagen, was über die Feuilletons anderer Autoren dieser Zeit hinausgeht und eine ganz eigene Farbe trägt.



Else Lasker-Schüler: Die kreisende Weltfabrik. Berliner Ansichten und Porträts
Herausgegeben und mit einem Nachwort von Heidrun Loeper
Transit Buchverlag, Berlin 2012
130 Seiten, 14,80 EUR.
ISBN-13: 9783887472825

See also:

War & Metropolis/ Robert Musil, la guerra e la metropoli
Robert Musil, Narra un soldato, Via del Vento edizioni, novembre 2012
recensione di Giuliano Brenna per La Recherche

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