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30 gennaio 2016

Poeti russi oggi






È il titolo dell’antologia firmata da Annelisa Alleva, volume di circa seicento pagine edito da Scheiwiller dove trovano spazio sedici voci della poesia russa contemporanea, tradotte dalla stessa curatrice che attraverso brevi schede biografiche e bibliografiche aiuta il lettore a orientarsi o se vogliamo ambientarsi in un panorama piuttosto frastagliato per cadenze e argomenti. Gli autori censiti si collocano su un arco di tempo che va dal 1935 al 1974, estremi di nascita entro cui sbocciano alcuni tra i più vivaci universi generazionali della Russia postmoderna. Citate frequentemente tra le pubblicazioni italiane che fanno in qualche modo da spalla a questo ampio excursus, le antologie dell’editore Crocetti e le numerose traduzioni di Paolo Galvagni, entrambi oggetto di diversi miei articoli. 
La Alleva, studiosa di lingua e letteratura russa, già curatrice per Garzanti delle opere di Puškin, insegna attualmente traduzione letteraria dal russo all’università La Sapienza di Roma. Nel periodo più recente della sua attività si è indirizzata alla divulgazione della poesia russa contemporanea, contribuendo a presentarne non pochi nomi presso i lettori italiani. Tra essi spicca quello di Boris Ryžij, indole affascinante e tragica, virtuoso del verso dove il risveglio della parola è costantemente in bilico tra ascesa e caduta, armonia e decomposizione, classicismo – dai grandi maestri russi a Rilke –  e crudezza verbale. Si sarebbe tentati di dire poeta maledetto proprio per la singolare commistione fra il suo immaginario lirico e il precoce epilogo della sua esistenza. Suicida nel 2001, all’età di ventisette anni, è infatti l’unico poeta non vivente tra quelli antologizzati. E aggiungerei, forse anche il più profondo, sebbene non intenda con ciò assecondare certa aneddotica che esagera la sovrapposizione tra vicissitudini di vita e genialità. Considerando che la lettura in traduzione può comportare una perdita della forza dell’originale, e per la poesia il discorso si fa ancora più delicato in quanto la parola sviluppa nessi con diversi piani della sensibilità di cui la componente sonora è il principale veicolo, insomma anche in tali limitazioni il tratto di Ryžij non esaurisce la sua bellezza.
Merito senz’altro del grande lavoro della curatrice ma non meno del peso dell’autore. Casi del genere implicano che nell’esercizio della traduzione si celebri a pieno l’incontro con la materia prescelta, tanto che nel passaggio e nel rinnovamento in un’altra lingua l’identità del poeta cresce anziché essere smorzata. 
Il presente volume è corredato da una serie di saggi e interviste che contribuiscono ad approfondire le singole figure proposte in antologia ma ancor più danno uno spaccato del dibattito contemporaneo attorno a temi cruciali della creatività letteraria. Da una prospettiva abbastanza inconsueta per un occidentale, la Russia, che a sua volta in questa analisi guarda inevitabilmente anche a occidente. Nel corso della mia ricognizione sul testo mi sono soffermata su tre autori le cui vite abbracciano in maniera simbolica l’immenso spazio della madrepatria. Il primo è Sergej Stratanovskij, bibliotecario a San Pietroburgo, figlio di un filologo traduttore degli storici antichi, che gli ha trasmesso la passione per la lingua greca e in generale per la cultura classica. La seconda è Olga Sedakova di Mosca, eclettica studiosa di lingue e culture straniere, attualmente insegnante presso l’università statale della sua città. Infine, Boris Ryžij, di cui in parte abbiamo già detto, nativo di Ekaterinburg, sugli Urali, luogo periferico e conosciuto solo per l’uccisione dei Romanov durante la rivoluzione bolscevica. Ma attraverso Ryžij torniamo pure a San Pietroburgo, da lui frequentata, e dove è entrato in contatto con la sua ‘scuola’ poetica; numerosi sono infatti i ricordi che lo legano alla birreria di Via Mochovaja, accanto alla redazione della rivista «Zvezda», in compagnia dei poeti Oleg Dozmorov e Elena Tinovskaja, entrambi affezionatissimi a Boris. 
Dunque, tre mondi lirici che rappresentano altrettanti punti cardinali nella galassia sovietica, una vastità geografica che riflette la complessità spirituale di un popolo e delle sue molteplici aperture culturali. Così Rilke, quando giunse la prima volta in Russia in compagnia di Lou Andreas Salomé e del marito di lei, Carl Andreas, fu commosso dall’attenzione che questo paese riservava ai suoi poeti e dal fatto che la poesia fosse considerata parte integrante della società, capillarmente diffusa ovunque, anche e perfino con maggiore slancio tra i contadini analfabeti che amavano recitare a memoria Puskin. La scoperta di una simile vicinanza del popolo all’arte poetica, in occidente confinata con freddo rigore alle sfere elitarie della società, compagine fin troppo omogenea per quanto riguarda il sentimento autoreferenziale di sé, scosse nel profondo il giovane Rilke, regalandogli una delle lezioni più importanti per la sua crescita intellettuale. Nel vecchio continente l’artista risulta spesso appesantito dalla propria estrazione sociale. Chi si dedica all’arte, non importa sottolinearlo, appartiene alle classi fornite di più mezzi e il motivo è ben immaginabile: arte e studio richiedono tempo, libertà da obblighi stringenti, quindi risorse economiche, e ciò è ancor più vero in paesi dove i meriti culturali di una persona prima di essere riconosciuti e di trovare una rispondenza concreta nella collettività subiscono un annoso processo alle intenzioni. Il che può essere lecito se serve a verificare i reali attributi di qualcuno, ma corre il pericolo di divenire un mezzo per non rimescolare determinati assetti, ritenuti un diritto acquisito anche quando ormai esprimono poco o nulla. Pertanto se è vero che esiste un’autoreferenzialità sociale dell’arte e in generale dell’attività intellettuale, va da sé che questo orienti anche un sentimento elitario di chi le pratica. La differenza tra noi e Orazio quando diceva «odi profanum vulgus et arceo» è che lui aveva ben in mente cosa fosse il popolo, e proprio in virtù di tale consapevolezza poteva prendersi la libertà di stigmatizzarne i tratti, inchiodandoli all’occorrenza a una formula di altezzosità letteraria, senza che la fede sincera nei suoi simili fosse scalfita. Noi invece non sappiamo più o quasi cosa sia il popolo, soprattutto dove sia. Quando scriviamo o pratichiamo i nostri studi, molto poco vibra in noi di quella che potremmo chiamare partecipazione spirituale a un insieme, che in sostanza è fatto di carne, pelle, occhi di chi abbiamo intorno e delle generazioni che ci hanno preceduto, di quel presente in cui non esistevamo ma che già entrava nelle nostre vite attraverso i nostri familiari. Non era forse il culto degli antenati al centro della religiosità latina? Non lo era in Cina, altra civiltà antichissima, dove è sopravvissuto fino alle soglie della rivoluzione maoista? Senza sapere cosa sei, la tua scrittura varrà poco e nulla. Ecco, quando leggo la poesia russa, questo monito sorretto dal senso di qualcosa che unisce alla corrente magnifica e brutale della storia mi trascina su sponde culturali molto lontane dal consueto.  
Basti osservare cosa sia San Pietroburgo, come un’intera città in poco più di tre secoli abbia fatto delle proprie strade una narrazione letteraria cui gli eventi si sono docilmente assoggettati. Nella città «più astratta e più premeditata del pianeta» secondo la celebre epigrafe scolpita da Dostoevskij per le sue Memorie dal sottosuolo, non sarebbe potuto accadere il contrario. Guardiamo cosa sia palazzo Jusupov, in che modo, quasi con ovvia predestinazione si siano alternati nelle sue stanze trascorsi sanguinari – nel dicembre del ’16 vi si consumò l’assassinio del monaco-guaritore Grigorij Rasputin – a episodi di grazia abbagliante. Il suo teatro ha ospitato innumerevoli concerti, fra cui le esibizioni di Liszt e Chopin, e le letture dei versi di Blok, Esenin e Majakovskij. Vedere quali spazi offrano i russi ai loro poeti dà ancora una volta la misura della considerazione di cui gode quest’arte. 
Gli autori che qui introduco brevemente, sebbene di età non omogenee, hanno accenti e modelli comuni. Per quanto riguarda questi ultimi, lo si diceva precedentemente, il classicismo russo da Puskin alla Achmatova, andando all’indietro fino all’antichità greca e passando per la letteratura anglo-americana. Nella Sedakova l’intreccio assume proporzioni assai vaste, tanto da congiungere idealmente la tradizione italiana delle Laudi (Jacopone da Todi, San Francesco) e Dante ai Cantos poundiani. Voci diluite e condensate in molte delle sue liriche, dove tuttavia restano pure estremamente riconoscibili. Della dissolvenza la Sedakova fa un tratto stilistico proprio, che mostra le sue numerose e delicate sfaccettature nei versi del Viaggio cinese, omaggio a un oriente dell’anima più che del paesaggio. 
Colpisce in particolare il ricorso insistito ai temi della memoria e dell’infanzia che in ognuno assume com’è ovvio caratteristiche differenti, anche se è prevalente l’idea della perdita del sé. Mentre nel caso di Ryžij e Stratanovskij affiora una vera e propria lacerazione, che il secondo declina anche nei termini di un confronto serrato quanto impietoso con la storia e i suoi sempre attuali drammi, per la Sedakova è questione di archetipi, sagome e ombre evocate in linea con le rarefazioni della sua scrittura.
Ryžij reca in sé la cifra di un fatalismo iscritto con sconvolgente pesantezza nel suo passato. Il poeta guarda se stesso sempre all’indietro, come riavvolgendo una pellicola, e non è infatti un caso che prediliga le metafore cinematografiche e in generale l’ambiente cinema. Se non rinnega se stesso è solo in rispetto di quella spropositata maschera del tempo, che ora è una zingara profetizzante in un padiglione, simile in tutto alle prime pagine dei Canti Orfici campaniani, ora un ubriaco steso sulla panchina di un giardino che i poliziotti scoprono essere per l’appunto «il solito ubriacone Borka Ryžij, il primo poeta della città».
Sono poesie queste della Russia contemporanea in cui altezze e bassezze del vivere stringono un patto fragorosamente e clamorosamente attagliato alla quotidianità, impastata quanto basta col fango dell’essere perché ascesa e dannazione scavino un solco riconoscente nella nostra esperienza di lettori.

(Di Claudia Ciardi)


Poeti russi oggi,
a cura di Annelisa Alleva,
Libri Scheiwiller, 2008


Di Sergej Stratanovskij

[Spiriti invisibili]

Spiriti invisibili,
spiriti dei monti non battezzati, ostili,
di notte, scendendo a valle,
                                   assaltano i nostri guerrieri
e la nostra milizia.
Noi è tanto che abbiamo conquistato
questa terra ribelle,
                                  ma gli spiriti delle sue gole
non ce l’hanno ancora perdonata.

(Da Accanto alla Cecenia)


[Nel metrò]

Nel metrò Tjutčevskaja passa la notte un uomo
Oh, non svegliare –
                                sennò insorgerà
in lui un caos furioso…

(Da Buio diurno)


[Non ho trovato quella birreria]

Non ho trovato quella birreria,
                      dove con gli amici, solo ieri…
al suo posto c’è un enorme fosso,
                      anche se lo steccato tutt’intorno è lo stesso…

E il passante non sa
                       che cosa è successo alla birreria:
come se fosse sprofondata tutt’a un tratto.

Non ho trovato neppure l’ufficio,
                       dove solo ieri, un certificato…
Possibile che sia sprofondato in una notte?
                       Mi sono seduto su una panchina
                                                            sudando freddo.
La matrice, si vede, onnipotente
                       ha fatto qui questo bel lavoro,
contenta di terrorizzare la mente

(Da Sul fiume torbido)


Di Olga Sedakova

[Là, sulla montagna]

Là, sulla montagna,
dentro le cui ginocchia è l’ultima capanna,
e più in alto nessuno capitava;
la cui fronte non si scorgeva per via delle nuvole
e non si potrà dire se era tetra o allegra –
qualcuno ci passa e non ci passa,
                                                    c’è e non c’è.
Ha la grandezza circa dell’occhio di una rondine,
                                                   di una briciola di pane secco,
di una scala sulle ali di una farfalla,
                                               di una scala gettata giù dal cielo,
di una scala, su per la quale
                                                nessuno ha voglia di arrampicarsi;
più minuscola di quel che vedono le api,
                                               e di quanto sia la parola.

(Da Viaggio cinese)


[Grande il pittore che non conosce dovere]

Grande il pittore che non conosce dovere
                                             oltre a quello del pennello che gioca:
e il suo pennello penetra nel cuore dei monti,
penetra nella felicità delle foglie,
con un colpo solo, con la sola mitezza,
                                              il rapimento, il solo turbamento
penetra nell’immortalità stessa –
                                              e l’immortalità gioca con lui.

Ma colui che viene abbandonato dal suo genio, colui dal quale
                                              il raggio viene deviato,
colui che per la decima volta in un luogo torbido
                                              cerca una sorgente pulita,
colui che si è lasciato cadere di mano i miracoli, ma non dirà:
                                              i miracoli non esitono! –
davanti a lui con deferenza
                                              s’inchinano i cieli.

(Da Viaggio cinese)


[Lodiamo la nostra terra]

Lodiamo la nostra terra,
                                               lodiamo la luna sull’acqua,
quel che non è con nessuno e con tutti,
                                                da nessuna parte e dappertutto –
della grandezza di un occhio di rondine,
                                                di una mollica di pane secco,
di una scala sulle ali di una farfalla,
                                                di una scala, gettata dal cielo.
Non solo disgrazia e pietà –
                                                sono briglia al mio cuore,
ma il fatto che sorrideva
                                                un’acqua meravigliosa.
Lodiamo il bagno nel vetro vivo
                                               dei rami inestimabili, scuri
e di tutti gli spiriti insonni
                                               su ogni grano dentro la terra.
E quel che è ricompensa,
                                               quel che è ostacolo alla cattiveria
quel che è il giardiniere per il giardino –
                                               alla terra è lode.

(Da Versi)


Di Boris Ryžij

[Indovina, zingara]

Indovina, zingara, per un soldo di rame,
spiegami di che morrò.
Risponde la zingara, dice, tu morrai,
quelli così non restano al mondo.

Tuo figlio diventerà un estraneo, estranea la tua donna,
ti volteranno le spalle gli amici-nemici.
Che cosa ti ucciderà, giovane? La colpa.
Ma tu la colpa custodisci.

Di fronte a chi la colpa? Di fronte a chi è vivo.
E ride, negli occhi mi fissa.
E dal bazar echeggia un motivo
della mala, il cielo si schiarisce.

(Da Al vento freddo)


[Dove si spezza la memoria]

Dove si spezza la memoria, un vecchio film parte,
una vecchia musica suona una certa tiritera.
La pioggia è passata nel parco, e non si può dire
                                                                     [quanto forte
profumi il lillà in questo giorno di primavera.

Salire sul tram 10, scendere, passare sotto l’arco
staliniano: tutto com’era, era un secolo addietro.
Qui mi prendevano per mano, qui mi tiravano
                                                                      [su in braccio,
mi facevano vedere un film nel cinema teatro all’aperto.

L’arte mostrava gli stessi sentimenti,
lo stesso parco dei divertimenti, un ragazzino in braccio.
E l’interminabile passato, illuminato fiocamente,
impedisce molto al futuro di prendere slancio.

Per nostalgia o per scempiaggine e sbornia ci si può
sollevare più in alto dei pini, fino al cielo
sulla ruota panoramica, ma capire non si può:
se la guerra ancora non c’era, o c’era.
È tutto in bianco e nero, con le mamme vanno i figli,
un cattivo altoparlante canta qualcosa con aria trionfale.
Quanto ho vissuto a lungo, quanto ho patito gli
spasimi del cuore, le lacrime, e anche il contrario.

(Da Al vento freddo)


[Ricorderemo quel che ricordiamo]

Ricorderemo quel che ricordiamo e il dimenticato,
tutto quel che il bambino ci ha dato in regalo.
La cittadina dove abbiamo amato,
la cittadina persa fra le nuvole.

E se potessimo riavvolgere la bobina
indietro, tu vedresti
coprirsi di polvere sulla mia tomba
i fiori gialli morti.

Lì sono morto, ma chi è vivo sente il chiasso
degli uccelli, e l’alba prende fuoco
sui cespugli dei ciliegi selvatici rossi.
Vano tutto quel che è stato dopo.

(Da Al vento freddo)



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16 marzo 2015

Giacomo Trinci - Inter nos



Giacomo Trinci l’ho incontrato in un caldo pomeriggio di due anni fa nella libreria di Via dell’Ospizio, a Pistoia, dove era atteso per un reading. A tenere banco tra i partecipanti era l’ultima sua raccolta, un grande volume appena pubblicato da Nino Aragno, Inter nos. Sebbene partecipassero anche altri ospiti, tutti aspettavano “il poeta”. Quando l’ho visto affacciarsi sulla strada, con quel suo passo cadenzato e senza fretta, il libro in mano, dondolante lungo il fianco, quasi appendice ritmica della sua persona, mi è apparso subito l’incarnazione della semplicità. Impressione che ho avuto confermata nel nostro breve scambio di parole, di cui ricordo principalmente, oltre e più delle parole, la straordinaria capacità di Giacomo di registrare oscillazioni e vibrazioni del proprio interlocutore.
Allora avevo letto soltanto, divorandola, la silloge pubblicata da Via del Vento edizioni, La cadenza il canto, dove il prodigio sonoro del suo verso mi si era prepotentemente rivelato. Si è trattato infatti di una vera e propria irruzione musicale, che ha spazzato via, nel mio caso, i paludamenti di troppa prosa smerciata come poesia, inaridita alla fonte perché priva di studio metrico e linguistico, per giunta appesantita da una concettosità che alla fine non è né dotta né autentica. Giacomo Trinci ha costituito per me una sorta di azzeramento, una dinamo in grado di catalizzare i modelli (Dante, lo stilnovo, Leopardi, Eliot, Pound) e renderli al lettore come ‘voci sole’, lasciandoli implodere nella tessitura dei versi, creando continue intersezioni tonali, frizioni, collisioni come se stesse lavorando a un nuovo alfabeto poetico. In questo moto profondamente disincarnato e disincantato, la sua poesia tende a una dizione pura, ma non in quanto assoluto nettato dalla sporcizia del quotidiano, al contrario come scheggia che in quel fango vuole incagliarsi, perché solo lì potrà scavare il mondo in via regressiva, restituire la parola a se stessa, tornare a una spontaneità di voci e accenti.
Quelli che di primo acchito risultano al lettore accostamenti improbabili e spiazzanti, sono invece ritualmente funzionali a uno svelamento, che nell’intimo del poeta corrisponde a una sottilissima trama di salvezza. Così infatti leggiamo in uno dei suoi testi che io considero una specie di Ars poetica: «Benedetto il parlato,/ che volgare sia volgo, e mi rivolgo/ a tutta quella gente che verrà,/ verrà più tardi, ai giovinetti vecchi/ che sapranno, al popolo venturo,/ che non saprà più prosa ma poesia,/ che non sarà più mia ma nostra».
Parola rimasticata dalla gente, parola viva di gente e del loro esistente, parola originale, che è proverbio, filastrocca, motteggio, canzonetta, bestemmia. Verbo che si coniuga e si disfa, rumore di fondo della sua terra desolata «tutto ancora nel guanto della vita/ chiuso rinvolto aperto a mille forme –/ materia madre che mi ti disfai/ rifai continua la tua stessa via/ tutto è ancora le tempie il fiato il cuore», trapasso di corpi, dialetto dell’infanzia, ricordo opaco che sovverte il tempo. A questi incroci sta il poeta, apparentemente defilato ma vigile sulla barricata, pur stanco ma lucido, lascia che le sue dita scorrano in cerca di commessure, spiragli, di vuoti dove ceda la materia, in cui sappia insinuarsi «un elemento estraneo che, straniero,/ guarda in tralice e luce,/ splende sinistro e torvo di diadema».
Poesia di delicate affilate giunture, di insinuazioni e annunciazioni, di metamorfosi incompiute, repentinamente interrotte dagli umani scotimenti; in queste faglie ancor più si solleva l’agra falsità nella quale sbatte la nostra epoca, cui Trinci non risparmia vigorosi affondi.  
Inter nos è ciò che sta tra noi, che ci lega e per questo immancabilmente ci disgiunge. La preposizione latina indica lo stare in mezzo a qualcosa, la relazione, la reciprocità, la durata ma anche la misura di un intervallo di tempo, che delimita e separa due eventi. Dunque uno stare dentro le cose, partecipandovi, ma anche uno stare tra le cose, destinati alla sospensione e all’attesa.
Non sono sfumature di poco conto in un poeta che mostra una grande devozione per il latino, nella sua qualità di “pre-lingua” e dunque di strumento naturalmente predisposto al discorso evocativo.
E ciò ha a che fare ancora una volta col grado tellurico della scrittura di Trinci, che è irrimediabile discesa dell’atto creativo alla sua radice («ad arte rifiutare l’arte è già poesia»), fino allo schianto che annulla il senso, che esalta e fonde ogni astrazione, in un’afasia universale da cui rigenerarsi. Il termine di paragone è sempre l’infanzia, non tanto come dimensione individuale ma come momento di resa incondizionata al vero: «mi rincresce di crescere fra gli òmini,/ sfuggendo te che crepiti che dòmini/ bambina mia, che luci disperduta!»
È una raccolta complessa, stratificata, magmatica, dove l’attualità entra col suo sconvolgente armamentario di lessici borsistico-bancari, con le sue carambole di emarginazioni e povertà. Trinci denuncia gli sconvolgimenti della crisi occidentale, riversandovi tutto l’impegno civile che lo caratterizza, e che in un poeta fa un’enorme differenza. Ma si spinge anche ben al di là del contingente, vedendo nell’aberrazione e nel parossismo finanziario, il definitivo distacco dell’uomo dal suo orizzonte sentimentale, unico appiglio alla profondità del vivere.  

(Di Claudia Ciardi)


Giacomo Trinci, Inter nos
postfazione di Paolo Maccari,
Nino Aragno editore, 2013





è forse giunto il tempo di,
forse il punto si fa necessario, da mettere
quando,
si tira troppo la corda all’impiccato,
senza dire più niente,
forse è giunto il tempo di dire basta,
non si può che decidere di decidere,
di dire basta a questo sotterfugio di
tergiversare,
se tutto è già compiuto e basta,
non si può che tagliare il traguardo,
formulare il giudizio è già tanto, mi dico…

sulla cosa il nome, insomma,
apporre la firma sulla ciurma conciata,
fare basta con le versioni dei fatti,
per firmare contratti falsati sulle cose,
con le contorsioni dei veri nei falsi,
acrobati acuti dei circhi dei ciuchi dei cerchi
di fuoco,
e salti mortali nel vuoto,
è forse il momento venuto del vento,
di quel che divento domani, più vero,
che l’essere persuasi del mero morire
davvero,
o del rifiorire di tempo nel tempo,
poi punto sul vivo il momento che s’apre al
futuro,
sicuro di niente che sia di domani
l’annuncio,
siluro di mente che passa nel cielo e lo
segna…

******

Pensa tragico ma vive comico,
l’essere che più mi piace in assoluto,
il fratello che riconosco ed amo,
il mio più d’altri, il mio di tutti,
il più carnale dei fratelli,
somatico ridicolo, un po’ buffo
nel passo, zoppicante e incantato,
un poco idiota, vive clown
ma pensa serio, anzi no, proprio non serio,
pensa infante, pensa niente in mente,
è vuoto di ogni senso, è solo seno,
puppa, pulcinello pulcino,

pensa sciocco e vive serio,
anzi pensa pagliaccio e vive onesto,
pensoso con la cresta del gallo,
con la mesta ruga del senso sulla fronte
adulterino adulto, ben compreso,
ed è scemo, ma senza ingenuità,
col doppiopetto e qualche medaglietta
lì appuntata al posto giusto,
stagionato di stupido severo,
viene preso alla lettera, ruspante e rozzo,
è solo senso sobrio, è sua quaresima di sé,
senza mai festa.
porta la testa, inutile,
questo è quello che, di più, mi è estraneo,
che più mi aduggia infine…

******

- di cosa, questi, sono i segni, mi diceva nel
  sangue
calata nel fango la lotta dell’uomo
di rosa si macchia la luce che rossa si squama
questi sono i legni che incrociano l’uomo
alla sete alla rotta infinita, mare aperto,
fontana di macchia, foresta che spessa
  s’inoltra
la vita s’indovina fra spesse sue notti nel
  chiuso
conflitto del sangue, di cosa questi sono i 
  passi
che vanno svaniti nel vento che soffia, o
  verde…
verdissimo niente che vieni, ti prendo che,
  forse…


Related links:

Cenni biografici a cura di Francesco Cappellini,
Note al testo di Roberto Bartoli e Piero Buscioni.
Scelta delle poesie di Fabrizio Zollo,
Via del Vento edizioni, 2007

Pistoia in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni 
Collana “Città firmate” a cura di Alba Andreini introduzione Roberto Carifi, edizioni ETS, Pisa, 2012 


Catherine Pozzi. Inno alla notte, a cura di Claudia Ciardi, su «Poesia», Crocetti Editore, pp. 36-46, febbraio 2015





30 settembre 2014

Else Lasker-Schüler - Concerto/ Konzert


«Cinque brevi prose inedite in Italia della grande poetessa ebrea tedesca Else Lasker-Schüler, incentrate sul racconto della sua infanzia in Germania, momento di vita ideale e idealizzato in cui germogliano i semi di una maturità lirica che ne faranno una delle voci femminili più intense e struggenti nel panorama letterario europeo del primo Novecento.
Immenso tema quello della Kindheit, cosmo sentimentale, patria perduta, orizzonte della Sehnsucht. Da Kleist a Benjamin, Roth e Rilke, l’infanzia è una metafora dell’esistenza, la latitudine prescelta per narrare la fragilità umana e il naufragio del mondo. Il poeta la dissotterra come fosse una città sepolta e torna a farvi ardere le fiaccole della propria immaginazione. In questo percorso a ritroso, dove la realtà appare necessariamente sfumata e il filo delle memorie si svolge nel duplice affanno di chi è intento a dipanarlo e di chi lo insegue, emergono nella loro sconvolgente crudezza solitudini e contraddizioni dell’epoca odierna. 
Tra tali fuochi fatui, La finestra illuminata della Schüler, vertice di contenuto e di stile tra le prose qui raccolte, è una radura fiabesca, momentaneo risveglio del ricordo strappato all’indifferenza della storia, prodigio di scrittura sul quale si allungano le ombre della sera. Dal riflesso dei suoi vetri si tende una calda mano materna che viene a rassicurare colui che per un attimo vi getta lo sguardo».

(Di Claudia Ciardi)



Else Lasker-Schüler, Concerto e altre prose sull'infanzia,
a cura di Claudia Ciardi,
traduzione di Claudia Ciardi e Katharina Majer,
Via del Vento edizioni, settembre 2014
ISBN 978-88-6226-079-4
Euro 4,00

Scheda del libro/ Book snippet

Contiene/ Table of content:

Di prima mattina
Elberfeld nel Wuppertal
La mia infanzia
Concerto
La finestra illuminata

Collection/ collana Ocra gialla


«Venticinque anni fermentò questa poesia nel mio cuore, divenne una vigna, un’antica vite di Spagna, vite giudaica, dell’età delle stelle. Con l’arte va infatti come col vino. Quanto più si dispiega sulla volta del cuore, tanto più si rafforza. Alla mia adorata mamma, che io, da quando mi si rivelò la finestra ad arco, nell’andare a dormire la sera con timore ero solita abbracciare forte, raccontavo con grandi occhi il segreto del vetro illuminato. «Sei una poetessa», diceva mia madre. E il fatto che lei ora sia morta e non possa prendere parte di persona al banchetto apparecchiato dei miei versi, rattrista la mia anima. È in cielo, e quando è sera, la cerco dietro il luminoso granato della finestra di nuvole».

Da La finestra illuminata 


In questo blog/ related links:

Infanzia e Oriente - Kindheit und Orient





La recensione dell'ultimo numero della rivista «Incroci», dove è stato pubblicato un inedito di Joseph Roth, su «Poesia» di Nicola Crocetti - n. 296, settembre 2014, p. 30

15 settembre 2013

Ghiannis Ritsos e Heinrich Heine – Canto alla notte


Offro volentieri a lettrici e lettori, sebbene con un discreto ritardo rispetto alla data d’uscita, un assaggio di alcune delle voci che si incontrano nel numero 284 (luglio-agosto) di Poesia, la rivista edita da Crocetti. Il ‘paganesimo notturno’ di Ghiannis Ritsos, la tormentata sensibilità di Heinrich Heine, l’omaggio a Sarah Kirsch, scomparsa il 15 maggio scorso, la richiesta di aiuto per Franco Loi. 




«Quali siano la potenza e il significato del simbolo nella poesia di Ghiannis Ritsos, è detto limpidamente nella postfazione di Chrisa Prokopaki al libro Molto tardi nella notte, ultima raccolta di poesie del poeta greco prima della morte, avvenuta nel 1990. Nella Grecia antica, il simbolo (da syn-ballo, “metto insieme, ricompongo”) era un segno di riconoscimento, una tessera di ospitalità. Si spezzava un listello di legno o di avorio, in modo che gli orli si sfrangiassero irregolarmente. A distanza di tempo e di spazio, i due lembi, combaciando perfetti, garantivano l’identità di chi aveva contratto vincoli di amicizia e di alleanza. Nella comunicazione e in poesia, il simbolo è un collante allegorico, tra qualcosa che appare al primo sguardo, e un significato più arcano, profondo, che solo l’occhio del poeta esplora e divulga. Quando i due frammenti si congiungono, la verità esplode».

[…]

«La poesia di Ritsos concede ampio spazio alla notte. E le notti greche offrono lune sgargianti come teglie tirate a lucido. Con le sue ventuno ricorrenze in questo libro, la luna è uno degli oggetti-simbolo più penetranti. Ma non sfoggia più la potenza trionfale di cui godeva in altre occasioni. Il Funambolo e la Luna, monologo drammatico, opera chiave dell’arte di Ritsos, ne è l’apoteosi. L’astro notturno, enorme diamante del cielo, era in questi versi vita, bellezza, verità, poesia: la meta sfavillante verso cui l’acrobata, il poeta, orientava impavido la sua ascensione sulla fune, bilanciandosi con l’asta del canto. Ora si è come inaridita […]».

Di Ezio Savino


Della campagna

Questi volti, sorpresi dallo splendore del sole,
dal fogliame folto, dalle molte cicale,
dalle graziose sconsideratezze dei passeri,
restano immobili, incerti
se cambiare posizione. Perché poco sotto, sul fiume,
i tre vetturini si lavano i piedi, mentre i loro cavalli,
le orecchie tese e le criniere quiete,
guardano il cielo limpido con una suprema erezione. Più tardi
arrivò il postino del villaggio, le vecchie si adunarono sul ponte
e sopra le loro vesti nere si udirono
le campane a lutto di Santa Pelaghìa.

Karlòvasi, 11.7.’87


Vecchiaia

Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie.
Molti avevano preso parte a quella storia –
uomini, animali, bambini, fiumi, alberi,
ragazzi e ragazze con motociclette, due papere bianche,
il matto silenzioso con una cicca e una galletta;
ed era un mezzogiorno estivo d’oro e sventolavano
le piume della gallina sgozzata luccicando in aria,
e la zia Evanghelìa in cucina puliva le bamie,
e una grossa farfalla si posò sulla saliera.
Nessuno, proprio nessuno allora sapeva
che il transitorio passa nel mito. Alla stazione del treno
venne a sedersi su una panchina una vecchia vestita di nero
che teneva sul grembiule un cesto d’uova come se fosse
l’unica cosa che aveva al mondo. Si addormentò lì.
Qualcuno di passaggio le rubò il cesto. E cadde la notte.
Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie e i ricordi degli eroi.

Karlòvasi, 23.7.’87

Traduzione di Nicola Crocetti
******

«Cittadino tedesco di famiglia ebraica, inviso alle autorità prussiane per la potenza critica del suo pensiero, costretto dalla necessità di integrazione ad accettare un battesimo protestante che non soltanto gli mutò il nome da Harry in Heinrich, ma che di fatto lo rese “odiato tra i cristiani e gli ebrei” (così Heine in una lettera all’amico Moser) senza tuttavia aprirgli la strada verso l’agognata carriera accademica; esule per propria scelta a Parigi, costretto a letto – paralizzato – negli ultimi otto anni di vita; polemista, giornalista, saggista, autore di liriche tanto belle e conosciute che già nel 1897, a cento anni dalla nascita del poeta, il critico danese Georg Brandes ne contò 3.000 adattamenti musicali (liriche che perfino ai tempi del nazismo non poterono essere escluse dalle antologie scolastiche e vi vennero perciò inserite come ‘anonime’), Heine si percepì effettivamente sempre innanzitutto come ‘poeta’ e come ‘poeta tedesco’».

[…]

«Il poeta, insomma, e soprattutto il poeta descritto da Heine, è un essere dilacerato, zerrissen in tedesco, e come lo stesso Heine afferma in I bagni di Lucca la sua Zerrissenheit, ovvero il suo tormento interiore, racchiude il dolore suo e di tutta la sua epoca: l’epoca della Restaurazione, che abolì le riforme civili introdotte da Napoleone anche in Germania (tra queste, l’editto di emancipazione degli ebrei emanato, nel 1822, reintrodusse il divieto di accedere all’insegnamento scolastico e universitario); l’epoca della transizione dal ricco patrimonio culturale illuministico-romantico all’incipiente rivoluzione industriale (si ricordi che Heine fu in contatto con Marx e a Parigi fu vicino agli ambienti saint-simonisti); l’epoca che in Francia, dopo la Rivoluzione e l’epopea napoleonica, portò alla monarchia di luglio, che tanto incuriosì Heine da indurlo, proprio nel 1831, a trasferirsi a Parigi, dove fu accolto come una personalità di riguardo nei migliori salotti, e dove Luigi Filippo gli concesse un vitalizio; l’epoca che in tutta Europa sfociò nelle rivoluzioni del 1848».

Di Simonetta Carusi


Ein Fichtenbaum steht einsam
Im Norden auf kahler Höh’.
Ihn schläfert; mit weißer Decke
Umhüllen ihn Eis und Schnee.

Er träumt von einer Palme,
Die, fern im Morgenland,
Einsam und schweigend trauert
Auf  brennender Felsenwand.


Un pino solo, al nord,
sta su una vetta brulla.
Ha sonno, e ghiaccio e neve
lo ammantano di bianco.

E sogna di una palma,
nel più remoto Oriente,
che, sola, tace e soffre
su una roccia rovente.

(1822)


An dem stillen Meersstrande
Ist die Nacht heraufgezogen,
Und der Mond bricht aus den Wolken,
Und es flüstert aus den Wogen:

Jener Mensch dort, ist er närrisch,
Oder ist er gar verliebet,
Denn er schaut so trüb und heiter,
Heiter und zugleich betrübet?

Doch der Mond der lacht herunter,
Und mit heller Stimme spricht er:
Jener ist verliebt und närrisch,
Und noch obendrein ein Dichter.


Sulla riva del mare silente
si è levata la notte, e la luna
si fa largo attraverso le nubi,
e si sente sussurrare i flutti:

quell’uomo, laggiù, certo è un pazzo,
o deve essere innamorato,
perché ha l’aria avvilita e contenta,
è contento ed è insieme avvilito?

E la luna guardandolo ride,
e con limpida voce dichiara:
quello è innamorato ed è pazzo,
e per giunta è anche un poeta.

(1833)

Traduzione di Simonetta Carusi


Mann und Frau den Mond betrachtend

Man and Woman contemplating the moon
Date c. 1818/1824

Ricordo di Sarah Kirsch

a cura di Angela Urbano


«Il difficile rapporto con la dirigenza comunista raggiunse il punto di non ritorno quando Sarah Kirsch, come molti intellettuali del suo Paese, firmò la petizione contro l’espulsione della DDR del poeta e cantautore Wolf Biermann. Invitata a lasciare la DDR, nel 1977 si trasferì a Berlino Ovest, anche per ragioni sentimentali. Cominciò a viaggiare: Provenza, Roma (fu borsista a Villa Massimo), Camargue, Stati Uniti. Ne tornò con l’impressione di un Occidente straniante, chiassoso e scollegato dai bisogni più importanti e vitali dell’uomo, e decise di stabilirsi nel piccolo centro di Heide.
La poesia di Sarah Kirsch sembra dotata del potere magico di trovare una modalità esistenziale in una natura piena di elementi fiabeschi, vegetali e animali. Era un mondo che la Kirsch conosceva bene, sia per la sua formazione scientifica sia per le sue origini: la sua regione nativa, l’Harz, è un luogo pieno di foreste, lussureggianti e misteriose, come quelle delle fiabe dei fratelli Grimm. […] Ha scritto racconti, anche autobiografici, e prose liriche, ha tradotto diversi poeti russi (tra cui Anna Achmatova, Bella Achmadulina, Aleksandr Blok) e si è dedicata alla pittura. Numerosi i riconoscimenti che le sono stati assegnati, tra cui il premio Hölderlin».

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Della rubrica curata da Angela Urbano mi colpisce un trafiletto dedicato a Franco Loi, voce antica e preziosa della poesia milanese. Nell’Italia sempre più occupata a tenere a bada gli incubi del collassante debito pubblico e della guerra degli spread, capita che un poeta sia costretto a lasciare la sua casa, perdendo molti dei libri accumulati in anni di studio e profonda devozione per la propria arte ma anche per la propria città. L’amara vicenda che sconvolge la vita di Loi rispecchia la sindrome di un tempo disattento e sconcertante, che ha un rapporto malato con tutto quanto scaturisce dall’interiore: le manifestazioni creative, i sentimenti, la pratica dell’onestà nei confronti del prossimo sono caratteristiche accessorie e, quando esistono, causano perfino qualche imbarazzo. Nella loro spontaneità, del tutto inusitata per questi anni di implosioni umane, si tende quasi sempre a leggere una forma di dolo, un tranello, nella migliore delle ipotesi degli strumenti in grado di servire inconfessabili convenienze personali. Ma, cosa anche peggiore, qualora queste povere e sfilacciate emozioni e gioie individuali abbiano superato l’ordalia, e tocchi decretarne con fastidio l’autenticità, scattano altre e più sconvolgenti misure per reprimerle. Il che non sorprenderà in un occidente così ossessionato dalla possibilità che qualche sentimento vivo, stanco di andarsene ramingo, decida di ricordarci cosa siamo diventati e magari ci “detti dentro” come uscire dalla catastrofe.
Allora immagino l’anziano Loi angosciato dal pensiero del suo trasloco, lo immagino così, accorato e triste nella distratta e anonima estate italiana, un’estate stanca e bugiarda, che parla di ripresine da solstizio d’inverno e ci tiene a dire che i suoi ministri per quest’anno sono “poco abbronzati”.
Sì, è vero, meglio reprimere se questo serve ancora a bearci di qualche illusione e soprattutto a restare indifferenti mentre i poeti, i cassaintegrati, e tante altre persone perbene perdono la loro casa, la loro dignità, la loro vita.
L’importante è che si faccia silenzio.

(Di Claudia Ciardi)


(Scelta del testo a cura di Claudia Ciardi)

Marcanagg i politegh secca ball,
cossa serv tanc descors, tance reson?
Già on bast infin di facc boeugna portall,
e l’è inutel pensà de fà el patron;

e quand sto bast ghe l’emm d’avè suj spall
eternament e senza remission
cossa ne importa a nun ch’el sia d’on gall,
d’on’aquila, d’on’oca, o d’on cappon.

Per mì credi che el mej el possa vess
el partii de fà el quoniam, e pregà
de no barattà tant el bast despess,

se de nò, col postà da on sit all’olter
i durezz di travers, reussirà
on spellament puttasca e nagott olter.

(Carlo Porta, Milano, 15 giugno 1775 – Milano, 5 gennaio 1821)


«Uno dei più importanti poeti italiani viventi, Franco Loi, che dal 1937 risiede a Milano e ha fatto del dialetto milanese la lingua della sua poesia, è in procinto di lasciare la sua casa di viale Misurata perché non riesce a fare fronte ai suoi costi. Nel trasferimento sarà anche costretto a liberarsi di buona parte dei libri della sua biblioteca. È speranza degli amici, dei conoscenti e dei lettori che lo stimano che un’iniziativa privata o pubblica possa porre rimedio a questa mancanza di riconoscimento verso l’opera di un poeta che ha dato tanto in primo luogo alla città di Milano e all’intero Paese, distinguendosi nel panorama letterario e culturale nazionale e internazionale».

(Di Angela Urbano)


Franco Loi 

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