30 settembre 2013

Storie di eremiti


Red Pine (Bill Porter), La Via al Cielo. Incontri con eremiti cinesi
Ubaldini, 2013

Titolo originale:
Road to heaven. Encounters with Chinese Hermits
Counterpoint, Berkeley, 1993


Cover ©
Ubaldini di Roma offre quest'anno ai lettori italiani un affascinante libro sulla Cina. Saggio storico, politico e antropologico, il resoconto dell’americano Red Pine (pseudonimo di Bill Porter) approfondisce una materia poco nota al pubblico occidentale, ma forse di questi tempi non troppo popolare neppure presso quello orientale.

Come Alan Watts già preconizzava nel suo celebre scritto sul taoismo (La Via dell’acqua che scorre, Ubaldini, 1977), in Cina la dimestichezza con il linguaggio e le pratiche del progresso avrebbe quasi definitivamente sradicato la familiarità con gli antichi saperi. Sono pensieri simili a quelli espressi da Gao Xingjian che ho avuto il piacere di sentir parlare e conoscere qualche anno fa, poco dopo aver letto il suo capolavoro sulla Cina ‘perduta’, La montagna dell’anima, toccante pellegrinaggio di un ‘uomo senza qualità’ che nel corso della propria odissea orientale riflette sulle devastazioni del capitalismo.

Partito da Taiwan nei giorni delle agitazioni studentesche culminate nel massacro di Tienanmen, insieme al fotografo e compagno di avventure Steven Johnson, Pine raggiunge il Chungnan, l’ultima dimora degli eremiti. Figure chiave nella società cinese, custodi di saperi millenari, gli eremiti sono stati di volta in volta allontanati dal potere ufficiale e chiamati ad affiancarlo. Pine ci riporta alle origini di questa storia e precisamente nel sito neolitico di Panpo, a est di Sian, abitato fin dal quinto millennio a. C. e dove sono stati rinvenuti resti importanti di culture sciamaniche. Alla comparsa dell’urbanizzazione e della stratificazione sociale lo sciamanesimo entrò in crisi e la sua eredità venne gradualmente assorbita da uomini e donne che contestavano la burocrazia della corte e l’esercizio politico privo di virtù. Presso i cinesi gli eremiti hanno sempre goduto di una particolare venerazione in quanto depositari di quel passato spirituale che ha continuato a restare vivo anche in seguito all’avvento della civiltà.

«Quando gli imperatori, i re, i capi dei clan e i capofila della cultura arcaica cinese avevano bisogno di entrare in contatto con le forze naturali, con gli dèi oltre le mura cittadine e all’interno del cuore umano, essi si rivolgevano agli eremiti. Gli eremiti potevano parlare al cielo. Ne conoscevano i segni, ne parlavano il linguaggio. Gli eremiti erano sciamani e indovini, erboristi e medici, adepti dell’occulto e del manifesto. Il loro mondo era ben più vasto di quello circoscritto dalle mura della città. Distaccati dai valori imposti dal capriccio o dalla consuetudine, gli eremiti erano restati parte integrante della società cinese per la loro fedeltà ai valori più antichi della propria cultura».

Talora il potere si è rivolto a questi saggi per trarne consiglio, ritenendo che l’insegnamento taoista fosse l’unico in grado di ispirare il buon governo, e anche, caso affatto raro, per convincerli a interrompere il loro volontario esilio in mezzo alle montagne e a tornare in città nelle vesti di cortigiani, ministri o eredi del regno. La storia degli eremiti diviene dunque una straordinaria allegoria dell’opportunità di conciliare le opposte esigenze di isolamento e impegno pubblico, un dibattito che nella cultura cinese si è sempre rivelato estremamente vivace. Non sorprende quindi che la descrizione di questi tipi affascinanti di maghi, poeti, guaritori e profeti si accompagni a un dettagliato resoconto di storia delle dinastie imperiali e coevi sviluppi del pensiero taoista e buddhista. Durante la sua esplorazione dell’Huashan (Montagna Fiore) Red Pine ripercorre le orme dei primi maestri che qui si ritirarono e la misteriosa sacralità che da millenni circonda i loro romitori, nascondigli impervi destinati a restare inviolati, da cui osservare con distacco i rovesci delle epoche.

«Lo Huashan ebbe lo speciale potere di attrarre venerazione. La sua forma era unica fra le montagne. E scalarla richiedeva grande coraggio e grande desiderio, desiderio non della carne ma dello spirito. Perché lo Huashan fu uno dei primi centri spirituali della Cina, un luogo dove gli sciamani venivano in cerca di visioni».

La camminata di Pine registra i diversi ‘umori’ della montagna, dalla profanazione di numerosi santuari a opera delle Guardie Rosse alle preoccupazioni dei monaci che, nelle maggiori aperture concesse dal governo alla religione, leggono solo l’attaccamento a un utile economico: riempire i templi di visitatori. Mentre Pine stende i suoi appunti di viaggio, in molti santuari si procede infatti a lavori di restauro e ricostruzione. L’opera di ripristino comprende anche le capanne degli eremiti, la maggior parte abbandonate durante la Rivoluzione Culturale. Ma per tutti gli adepti sia delle pratiche taoiste che buddhiste, le quali proprio sui monti Chungnan si erano notevolmente estese, raggiungendo un pari livello di profondità ed elevazione, il pericolo incombente consiste nella dipendenza dai fondi governativi. Ricevere sostegni dal governo significa condannare a morte l’identità spirituale dei templi, semplicemente perché ogni sussidio genera un obbligo verso i programmi di Stato, che prevedono la riconversione dei siti in attrattive turistiche.

Nel ricordare le impressioni del buddhista Kao Ho-nien che visitò questi luoghi nel 1904, parlando della loro serenità e solitudine, Pine si interroga, alla fine dello stesso secolo, su quanto sia rimasto dell’atmosfera catturata da quell’attento pellegrino. Viene anche da chiederci, a distanza di altri vent’anni dal diario di Pine, cosa resti dei volti gentili e sorridenti che fanno capolino da queste pagine e se la situazione sull’Huashan come in altri luoghi di culto sia migliorata o soffra le conseguenze di sempre più radicali atteggiamenti consumistici. Grazie alla preziosa testimonianza di diversi monaci, raccolta per via, Pine ridisegna una geografia ‘sepolta’ dalla quale affiorano pressoché intatti racconti, tradizioni e sembianze. Alle vette del Chungnan, definito dagli antichi “l’avo di tutte le montagne”, appartengono esploratori che si sono spinti fino all’India, sfidando pericoli e poteri avversi, festeggiati al loro ritorno come eroi dagli imperatori cinesi; religiosi che, mettendo in gioco la propria vita, hanno difeso i templi dalle distruzioni delle Guardie Rosse; miti custodi impegnati nel salvataggio di un patrimonio culturale millenario insidiato da un nemico ancor più temibile della Rivoluzione Culturale, il materialismo. I maestri ottuagenari incontrati da Pine, scacciati dai loro eremitaggi sulle montagne a metà degli anni Cinquanta, manifestano non di rado una certa rassegnazione per l’aridità dei tempi e anche un senso che non è esagerato definire di sconforto riguardo il destino delle loro più segrete esperienze. Le storie di questi asceti rappresentano l’estremo presidio di una volontà diversa, orientata a valori alternativi e contrastanti rispetto all’agonismo, ai condizionamenti dettati dai desideri e dalla pratica del potere. Perciò, al di fuori del contesto cinese, le biografie degli eremiti divengono il segno di una necessità, probabilmente innata negli uomini, di agire lontano dal clamore, di saper essere interpreti e attori della società anche, e soprattutto, prendendo le distanze dai suoi insanabili conflitti. E forse, l’unica possibilità di esprimere un punto di vista in grado di incidere nel profondo e rovesciare i troppi pregiudizi che inibiscono l’azione, viene proprio, paradossalmente ma neppure così tanto, da chi più ha coltivato i semi dell’immobilità e della solitudine.

(Di Claudia Ciardi)

Anche su sololibri.net:
Red Pine, La Via al Cielo


* Foto di Claudia Ciardi © prese autorizzate dal personale della mostra



Testa maschile in bronzo della dinastia Shang (1600-1046 a. C.) 
Fossa sacrificale, sito di Sanxingdui, prov. Sichuan
Roma - Mostra di Palazzo Venezia, 2013 ©



Testa maschile in bronzo con maschera a lamina d’oro - dinastia Shang
Roma - Mostra di Palazzo Venezia, 2013 ©



La Montagna dell'anima di Gao Xingjian.
In copertina una sua illustrazione: Il volo della notte



22 settembre 2013

Once There Was a War - C'era una volta una guerra


John Steinbeck, C’era una volta una guerra,
traduzione di Sergio Claudio Perroni,
Bompiani Overlook, gennaio 2011

Titolo originale: Once There Was a War (The Viking Press Inc., USA, 1958)    



Un libro passato senza troppo clamore nelle librerie italiane su cui vale la pena riaccendere l’attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l’autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia. Ma Steinbeck, volendo costruire per l’appunto un suo personale epos della guerra, non ha altro mezzo che scagliare lontano, fino a sfumarli nel paradosso del non-tempo, i margini concreti della narrazione. La sequenza quasi cantilenante con cui comincia ogni fiaba funziona come una sorta di formula magica che ci introduce, sì, in un mondo parallelo ma non annulla completamente i contatti con la realtà di partenza. Semmai agisce da relais della memoria, contribuendo a spiegare quei nessi che nel racconto della quotidianità ci erano sfuggiti.    
In tutto ciò, vi è posto per un aspetto che quasi scade nell’ironia – gli episodi più foschi della storia sono spesso consegnati a una simile ambiguità: la guerra, per quanto recente, è stata oggetto di una strana trasmigrazione che l’ha allontanata dalle coscienze, proiettandola in un limbo dove le singole tragedie che si sono affollate lungo i raccordi della sua anatomia, hanno perso forza e sono rimaste confuse, senza saper trasmettere fino in fondo il peso degli accadimenti. L’incertezza del racconto crea allora i presupposti per l’ingresso nel mondo della fiaba, in cui l’anonimo flusso delle percezioni oscillerà, con bruschi sbalzi d’umore, tra astenia e amplificazione. Il recupero di una ritmica infantile, che per certi versi può suonare beffarda e perfino cinica, va di pari passo con la ricerca di una strada conciliante verso gli eventi, la quale si dà attraverso quell’insieme di note uguali e sicure che si sono conosciute all’inizio della vita. 
Pronunciare le parole dell’incantesimo è quindi un moto più che coerente, perché solo provocando un cortocircuito tra la dimensione cosciente e quella fantastica e solo attingendo a questa epica per così dire indeterminata, si può davvero ridare ai fatti la loro legittima forza narrativa.

(Di Claudia Ciardi)




Once there was… Es war einmal… C’era una volta una guerra, che suona più o meno come “c’era una volta un califfo per un un’ora”. Il titolo è volutamente provocatorio. John Steinbeck, scrittore americano versatile e fecondo, si è cimentato con un evento drammatico, la guerra, vissuta in prima persona, in qualità di inviato al fronte. Da questa esperienza sono scaturiti una serie di “pezzi”, spesso scritti nei tempi impossibili richiesti dai giornali e in situazioni affatto comode, il cui contenuto non appare invecchiato neppure di un giorno.

Gli articoli di Steinbeck dimostrano come la professione del corrispondente di guerra, in ogni tempo, sia tutt’altro che un lavoro di retrovia, e come non sia semplice conquistare la fiducia dei soldati, pregiudizialmente prevenuti nei confronti di chi ai loro occhi costituisce un intralcio alle attività, con in più una sospetta attitudine alla delazione.
«C’era una volta una guerra, ma così tanto tempo fa – e nel frattempo così rimossa da altre guerre e altri tipi di guerra – che anche chi l’ha fatta tende a dimenticarla. La guerra cui mi riferisco venne dopo le corazze e le balestre di Crécy e Agincourt, e poco prima delle piccole bombe atomiche sperimentali di Hiroshima e Nagasaki». La casa editrice Bompiani, nella traduzione di Sergio Claudio Perroni, ripropone le prose di Steinbeck, giornalista a servizio dell’esercito americano sui fronti di Inghilterra, Africa e Italia, tra il giugno e il dicembre del 1943, uscite per la prima volta in America nel 1958. Fa impressione il tono dell’incipit dello scrittore americano se si pensa che questo libro ha visto la luce appena tredici anni dopo la fine del conflitto.
È peraltro interessante soffermarsi su un dato. L’inizio del 2011, segnato dal crescere della tensione nell’area mediterranea, e in generale nel mondo, a causa degli effetti della crisi economica, ha salutato diverse pubblicazioni su questo tema; pensiamo al bel volume di Abscondita, che presenta in nuova veste editoriale il quaderno-poema di acqueforti, Estragos o Desastres de la guerra, realizzato da Francisco Goya tra il 1814 e il 1820; consideriamo la ristampa per TEAdue del romanzo di Helga Schneider, Heike riprende a respirare; e ancora la vicenda di Blaise Cendrars, reduce e invalido di guerra che cerca di far proseguire la propria vita, del quale Via del Vento edizioni ha pubblicato lo scorso aprile un racconto inedito in Italia. Una singolare coincidenza, si potrebbe pensare immediatamente, e tuttavia, a un’osservazione meno superficiale, viene da cogliervi una risposta, per nulla improvvisata, a un senso di inquietudine dilagante nel mondo occidentale, e un invito a non farsi cogliere alla sprovvista. Quanto sia necessaria la riflessione sul concitato momento storico che stiamo vivendo, lo prova il ritmo sempre più intenso al quale gli eventi si sono succeduti, nelle ultime settimane, proprio sull’altra sponda del Mediterraneo e nella stessa Europa, che ha visto e vede le sue piazze riempirsi ogni giorno di più di lavoratori cassaintegrati e giovani respinti dal mercato del lavoro. Questo collasso sociale rischia di avere contraccolpi gravissimi nelle nostre vite, che anzi hanno già manifestato i loro preoccupanti sintomi in un silenzioso lento, e all’apparenza insospettabile, sterminio di volontà e diritti.

I resoconti di Steinbeck sembrano metterci in guardia, più di mezzo secolo prima, dai molti drammi che, lungi dall’essere risolti in guerra, incombono su di noi e che risultano strettamente collegati al grado del nostro impegno civile. L’autore, invitando il lettore ad accompagnarlo nel singolare viaggio di preparazione alla guerra, ci porta dapprima a bordo delle navi allestite per il trasporto truppe e dirette in Inghilterra, e da qui sulle coste africane, dove fervono le prove del D-day e dello sbarco in Italia. Ci viene dunque mostrata, senza filtri né retorica, tutta la complessità con cui si muove un esercito, dalle missioni assegnate ai vari corpi alla straordinaria, e per certi versi eccentrica, attività delle officine di riparazione, sempre sul filo del tempo e dell’inventiva, per rimettere in moto i mezzi danneggiati, fino agli spettacoli portati ovunque dalle unità ricreative per tenere alto l’umore delle truppe, secondo uno spirito di altruismo e solidarietà incarnato magnificamente da alcuni personaggi sopra le righe, come il più che leggendario Bob Hope. È una scrittura che fa largo a diversi toni e che restituisce ogni situazione all’atmosfera da cui è scaturita. Così riaffiora intatta davanti ai nostri sguardi la spettralità di Palermo dopo il bombardamento, un sogno di macerie, buio e spaventoso silenzio, nient’altro che solitudine e deserto dappertutto, che sembrano stringersi intorno al cadavere di una donna, prigioniero tra le acque del porto. Né vi è minore suggestione nella scena notturna cui assistono tre soldati in un convento di frati dominicani, ascoltando i canti del vespro, «quella musica antica, quella musica disincarnata e misurata…». E il sottotenente che dice al capitano: «Ci vuole tempo per abituarsi a una cosa del genere». […] Risposta: «Non c’è stato nessun passaggio, nessun cambiamento. Hai solo visto due lati della stessa cosa. Le tue esperienze non sono isole. Sono collegate esattamente come gli archi di un quartetto. Forse lo capirai tra qualche giorno, al primo scontro col nemico».

Siamo di fronte, per certi versi, a un testo di antropologia e psicologia militare, in cui l’autore non trascura di analizzare fenomeni e costumi che circondano la guerra, studiando da vicino i comportamenti degli uomini, forzati all’obbedienza, coscienti dei pericoli ai quali avevano giurato di andare incontro, sottoposti a una ancor più dura battaglia con se stessi e la propria capacità di resistere. Non mancano momenti scherzosi o alle soglie del paranormale né fatti che rivelano, piuttosto impietosamente, i paradossi annidati nella guerra. Si pensi ad esempio all’impresa di Ventotene, che non a caso chiude la galleria di immagini dal fronte: cinque ufficiali e quaranta paracadutisti fanno arrendere un presidio di ottanta tedeschi con un bluff. Che in guerra vi sia spazio per una dimensione che non pare azzardato definire ludica è la riprova che gli uomini, dentro di sé, rigettano istintivamente l’ostilità: «Il tenente si sentiva un po’ ridicolo, come se fossero quattro ragazzini in marcia per attaccare il capanno della banda nemica».

Steinbeck ci invita a una riflessione che si dimostra preziosissima nella nostra attualità disorientata e contaminata, fino all’inverosimile, dal déima, la paura, quello stesso sentimento di cui Eschilo, il buon padre della tragedia greca, aveva esortato i suoi spettatori a prendere coscienza, per impedire che avesse il sopravvento nell’organizzazione della vita civile: «Certo, gli uomini venivano uccisi, o mutilati, ma chi sopravviveva non portava in dono ai propri figli un seme guasto. Adesso ci siamo nutriti per anni di paura e solo di paura, e la paura non dà buoni frutti. Da essa nascono crudeltà e inganno e sospetto, germogliati nelle nostre tenebre. E così come è certo che stiamo avvelenando l’aria coi nostri esperimenti atomici, è altrettanto certo che abbiamo l’anima avvelenata dalla paura, da un terrore senza volto, stupido e necrotico».
Parole di uomo che dalle asperità del fronte leva uno sguardo preoccupato ma lucido, cercando di risvegliare la nostra piena consapevolezza e partecipazione nell’urgenza creatasi in questo inizio millennio, che ha visto affollarsi scelte economiche e strategie politiche molto spesso contraddittorie e quindi fallimentari, segnando un arretramento morale e materiale che non può essere più taciuto.

(Di Claudia Ciardi)


«Il tetto del cinema saltò in aria e ricadde in un cumulo di macerie. Lo schermo si accartocciò. Il caccia riprese quota, virò, tornò indietro e scaricò i cannoncini sulle macerie fumanti. Poi si infilò nella nuvola grigia e scappò verso la costa. Si lasciò dietro le urla di dolore e paura dei bambini […] Erano le nove del mattino quando finì anche l’ultimo intervento. Nel cinema, i soccorritori sfiniti continuavano a trovare corpi tra le macerie. E nei letti dell’ospedale – grossi involti di bende e grandi occhi sbarrati, increduli e stremati – giacevano i piccoli bersagli, gli obiettivi militari: bambini di sette anni» (da Un pomeriggio al cinema, Londra, 18 luglio 1943).

(From the book)


Alfred Kubin

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Sulle contraddizioni del sogno americano segnaliamo il libro di Aldo Tredici, recentemente edito da Luglio (Trieste):
Il sogno e la realtà. Bruce Springsteen e l’America.
Il libro ripercorre la carriera di Springsteen, dai non facili esordi fino alla fama, analizzandone vita e creatività in un interessante e ben documentato parallelo con la storia americana, dal 1949 al 2012.
Il cantautore di Freehold si caratterizza come voce impegnata all’interno del proprio paese, in prima linea nel denunciare il divario sociale e il fenomeno del razzismo, due tra gli elementi più ostili alla conservazione di una collettività pacifica e coesa.
Ma la musica di Springsteen si spinge anche oltre, divenendo un presidio contro qualsiasi tipo di conflitto, smascherando gli interessi che ruotano attorno alla guerra, criticando l’ostinazione del proprio paese nel perseguire politiche imperialiste, aggressive e violente. Sessant’anni di storia statunitense, cui l’artista non lesina attacchi e dure prese di posizione, spesso molto distanti dallo star system.
Il recente coinvolgimento nella campagna elettorale per la rielezione del presidente Obama ha il sapore di una sfida: dare una mano a consolidare la svolta messa in atto dal primo mandato democratico, allontanando il più possibile il ‘precedente’ dei disastri repubblicani.

Nella mia prefazione al testo, La frontiera in crisi, parlo di un’America che si dibatte tra ansie economiche e volontà di uscire dai numerosi stalli di inizio millennio, un paese sull’orlo del disincanto che tuttavia, nel bene e nel male, non abbandona i simboli e i punti di forza della propria epopea.


                                                  

Aldo Tredici, Il sogno e la realtà. Bruce Springsteen e l’America, Luglio editore (Trieste), 2013, con una prefazione di Claudia Ciardi, La frontiera in crisi. Storie di pionieri e dei loro cantori nella “terra delle possibilità”
* il libro è disponibile nel circuito IBS e presso la Libreria Tra le Righe in Via Corsica, 8 - Pisa


15 settembre 2013

Ghiannis Ritsos e Heinrich Heine – Canto alla notte


Offro volentieri a lettrici e lettori, sebbene con un discreto ritardo rispetto alla data d’uscita, un assaggio di alcune delle voci che si incontrano nel numero 284 (luglio-agosto) di Poesia, la rivista edita da Crocetti. Il ‘paganesimo notturno’ di Ghiannis Ritsos, la tormentata sensibilità di Heinrich Heine, l’omaggio a Sarah Kirsch, scomparsa il 15 maggio scorso, la richiesta di aiuto per Franco Loi. 




«Quali siano la potenza e il significato del simbolo nella poesia di Ghiannis Ritsos, è detto limpidamente nella postfazione di Chrisa Prokopaki al libro Molto tardi nella notte, ultima raccolta di poesie del poeta greco prima della morte, avvenuta nel 1990. Nella Grecia antica, il simbolo (da syn-ballo, “metto insieme, ricompongo”) era un segno di riconoscimento, una tessera di ospitalità. Si spezzava un listello di legno o di avorio, in modo che gli orli si sfrangiassero irregolarmente. A distanza di tempo e di spazio, i due lembi, combaciando perfetti, garantivano l’identità di chi aveva contratto vincoli di amicizia e di alleanza. Nella comunicazione e in poesia, il simbolo è un collante allegorico, tra qualcosa che appare al primo sguardo, e un significato più arcano, profondo, che solo l’occhio del poeta esplora e divulga. Quando i due frammenti si congiungono, la verità esplode».

[…]

«La poesia di Ritsos concede ampio spazio alla notte. E le notti greche offrono lune sgargianti come teglie tirate a lucido. Con le sue ventuno ricorrenze in questo libro, la luna è uno degli oggetti-simbolo più penetranti. Ma non sfoggia più la potenza trionfale di cui godeva in altre occasioni. Il Funambolo e la Luna, monologo drammatico, opera chiave dell’arte di Ritsos, ne è l’apoteosi. L’astro notturno, enorme diamante del cielo, era in questi versi vita, bellezza, verità, poesia: la meta sfavillante verso cui l’acrobata, il poeta, orientava impavido la sua ascensione sulla fune, bilanciandosi con l’asta del canto. Ora si è come inaridita […]».

Di Ezio Savino


Della campagna

Questi volti, sorpresi dallo splendore del sole,
dal fogliame folto, dalle molte cicale,
dalle graziose sconsideratezze dei passeri,
restano immobili, incerti
se cambiare posizione. Perché poco sotto, sul fiume,
i tre vetturini si lavano i piedi, mentre i loro cavalli,
le orecchie tese e le criniere quiete,
guardano il cielo limpido con una suprema erezione. Più tardi
arrivò il postino del villaggio, le vecchie si adunarono sul ponte
e sopra le loro vesti nere si udirono
le campane a lutto di Santa Pelaghìa.

Karlòvasi, 11.7.’87


Vecchiaia

Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie.
Molti avevano preso parte a quella storia –
uomini, animali, bambini, fiumi, alberi,
ragazzi e ragazze con motociclette, due papere bianche,
il matto silenzioso con una cicca e una galletta;
ed era un mezzogiorno estivo d’oro e sventolavano
le piume della gallina sgozzata luccicando in aria,
e la zia Evanghelìa in cucina puliva le bamie,
e una grossa farfalla si posò sulla saliera.
Nessuno, proprio nessuno allora sapeva
che il transitorio passa nel mito. Alla stazione del treno
venne a sedersi su una panchina una vecchia vestita di nero
che teneva sul grembiule un cesto d’uova come se fosse
l’unica cosa che aveva al mondo. Si addormentò lì.
Qualcuno di passaggio le rubò il cesto. E cadde la notte.
Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie e i ricordi degli eroi.

Karlòvasi, 23.7.’87

Traduzione di Nicola Crocetti
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«Cittadino tedesco di famiglia ebraica, inviso alle autorità prussiane per la potenza critica del suo pensiero, costretto dalla necessità di integrazione ad accettare un battesimo protestante che non soltanto gli mutò il nome da Harry in Heinrich, ma che di fatto lo rese “odiato tra i cristiani e gli ebrei” (così Heine in una lettera all’amico Moser) senza tuttavia aprirgli la strada verso l’agognata carriera accademica; esule per propria scelta a Parigi, costretto a letto – paralizzato – negli ultimi otto anni di vita; polemista, giornalista, saggista, autore di liriche tanto belle e conosciute che già nel 1897, a cento anni dalla nascita del poeta, il critico danese Georg Brandes ne contò 3.000 adattamenti musicali (liriche che perfino ai tempi del nazismo non poterono essere escluse dalle antologie scolastiche e vi vennero perciò inserite come ‘anonime’), Heine si percepì effettivamente sempre innanzitutto come ‘poeta’ e come ‘poeta tedesco’».

[…]

«Il poeta, insomma, e soprattutto il poeta descritto da Heine, è un essere dilacerato, zerrissen in tedesco, e come lo stesso Heine afferma in I bagni di Lucca la sua Zerrissenheit, ovvero il suo tormento interiore, racchiude il dolore suo e di tutta la sua epoca: l’epoca della Restaurazione, che abolì le riforme civili introdotte da Napoleone anche in Germania (tra queste, l’editto di emancipazione degli ebrei emanato, nel 1822, reintrodusse il divieto di accedere all’insegnamento scolastico e universitario); l’epoca della transizione dal ricco patrimonio culturale illuministico-romantico all’incipiente rivoluzione industriale (si ricordi che Heine fu in contatto con Marx e a Parigi fu vicino agli ambienti saint-simonisti); l’epoca che in Francia, dopo la Rivoluzione e l’epopea napoleonica, portò alla monarchia di luglio, che tanto incuriosì Heine da indurlo, proprio nel 1831, a trasferirsi a Parigi, dove fu accolto come una personalità di riguardo nei migliori salotti, e dove Luigi Filippo gli concesse un vitalizio; l’epoca che in tutta Europa sfociò nelle rivoluzioni del 1848».

Di Simonetta Carusi


Ein Fichtenbaum steht einsam
Im Norden auf kahler Höh’.
Ihn schläfert; mit weißer Decke
Umhüllen ihn Eis und Schnee.

Er träumt von einer Palme,
Die, fern im Morgenland,
Einsam und schweigend trauert
Auf  brennender Felsenwand.


Un pino solo, al nord,
sta su una vetta brulla.
Ha sonno, e ghiaccio e neve
lo ammantano di bianco.

E sogna di una palma,
nel più remoto Oriente,
che, sola, tace e soffre
su una roccia rovente.

(1822)


An dem stillen Meersstrande
Ist die Nacht heraufgezogen,
Und der Mond bricht aus den Wolken,
Und es flüstert aus den Wogen:

Jener Mensch dort, ist er närrisch,
Oder ist er gar verliebet,
Denn er schaut so trüb und heiter,
Heiter und zugleich betrübet?

Doch der Mond der lacht herunter,
Und mit heller Stimme spricht er:
Jener ist verliebt und närrisch,
Und noch obendrein ein Dichter.


Sulla riva del mare silente
si è levata la notte, e la luna
si fa largo attraverso le nubi,
e si sente sussurrare i flutti:

quell’uomo, laggiù, certo è un pazzo,
o deve essere innamorato,
perché ha l’aria avvilita e contenta,
è contento ed è insieme avvilito?

E la luna guardandolo ride,
e con limpida voce dichiara:
quello è innamorato ed è pazzo,
e per giunta è anche un poeta.

(1833)

Traduzione di Simonetta Carusi


Mann und Frau den Mond betrachtend

Man and Woman contemplating the moon
Date c. 1818/1824

Ricordo di Sarah Kirsch

a cura di Angela Urbano


«Il difficile rapporto con la dirigenza comunista raggiunse il punto di non ritorno quando Sarah Kirsch, come molti intellettuali del suo Paese, firmò la petizione contro l’espulsione della DDR del poeta e cantautore Wolf Biermann. Invitata a lasciare la DDR, nel 1977 si trasferì a Berlino Ovest, anche per ragioni sentimentali. Cominciò a viaggiare: Provenza, Roma (fu borsista a Villa Massimo), Camargue, Stati Uniti. Ne tornò con l’impressione di un Occidente straniante, chiassoso e scollegato dai bisogni più importanti e vitali dell’uomo, e decise di stabilirsi nel piccolo centro di Heide.
La poesia di Sarah Kirsch sembra dotata del potere magico di trovare una modalità esistenziale in una natura piena di elementi fiabeschi, vegetali e animali. Era un mondo che la Kirsch conosceva bene, sia per la sua formazione scientifica sia per le sue origini: la sua regione nativa, l’Harz, è un luogo pieno di foreste, lussureggianti e misteriose, come quelle delle fiabe dei fratelli Grimm. […] Ha scritto racconti, anche autobiografici, e prose liriche, ha tradotto diversi poeti russi (tra cui Anna Achmatova, Bella Achmadulina, Aleksandr Blok) e si è dedicata alla pittura. Numerosi i riconoscimenti che le sono stati assegnati, tra cui il premio Hölderlin».

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Della rubrica curata da Angela Urbano mi colpisce un trafiletto dedicato a Franco Loi, voce antica e preziosa della poesia milanese. Nell’Italia sempre più occupata a tenere a bada gli incubi del collassante debito pubblico e della guerra degli spread, capita che un poeta sia costretto a lasciare la sua casa, perdendo molti dei libri accumulati in anni di studio e profonda devozione per la propria arte ma anche per la propria città. L’amara vicenda che sconvolge la vita di Loi rispecchia la sindrome di un tempo disattento e sconcertante, che ha un rapporto malato con tutto quanto scaturisce dall’interiore: le manifestazioni creative, i sentimenti, la pratica dell’onestà nei confronti del prossimo sono caratteristiche accessorie e, quando esistono, causano perfino qualche imbarazzo. Nella loro spontaneità, del tutto inusitata per questi anni di implosioni umane, si tende quasi sempre a leggere una forma di dolo, un tranello, nella migliore delle ipotesi degli strumenti in grado di servire inconfessabili convenienze personali. Ma, cosa anche peggiore, qualora queste povere e sfilacciate emozioni e gioie individuali abbiano superato l’ordalia, e tocchi decretarne con fastidio l’autenticità, scattano altre e più sconvolgenti misure per reprimerle. Il che non sorprenderà in un occidente così ossessionato dalla possibilità che qualche sentimento vivo, stanco di andarsene ramingo, decida di ricordarci cosa siamo diventati e magari ci “detti dentro” come uscire dalla catastrofe.
Allora immagino l’anziano Loi angosciato dal pensiero del suo trasloco, lo immagino così, accorato e triste nella distratta e anonima estate italiana, un’estate stanca e bugiarda, che parla di ripresine da solstizio d’inverno e ci tiene a dire che i suoi ministri per quest’anno sono “poco abbronzati”.
Sì, è vero, meglio reprimere se questo serve ancora a bearci di qualche illusione e soprattutto a restare indifferenti mentre i poeti, i cassaintegrati, e tante altre persone perbene perdono la loro casa, la loro dignità, la loro vita.
L’importante è che si faccia silenzio.

(Di Claudia Ciardi)


(Scelta del testo a cura di Claudia Ciardi)

Marcanagg i politegh secca ball,
cossa serv tanc descors, tance reson?
Già on bast infin di facc boeugna portall,
e l’è inutel pensà de fà el patron;

e quand sto bast ghe l’emm d’avè suj spall
eternament e senza remission
cossa ne importa a nun ch’el sia d’on gall,
d’on’aquila, d’on’oca, o d’on cappon.

Per mì credi che el mej el possa vess
el partii de fà el quoniam, e pregà
de no barattà tant el bast despess,

se de nò, col postà da on sit all’olter
i durezz di travers, reussirà
on spellament puttasca e nagott olter.

(Carlo Porta, Milano, 15 giugno 1775 – Milano, 5 gennaio 1821)


«Uno dei più importanti poeti italiani viventi, Franco Loi, che dal 1937 risiede a Milano e ha fatto del dialetto milanese la lingua della sua poesia, è in procinto di lasciare la sua casa di viale Misurata perché non riesce a fare fronte ai suoi costi. Nel trasferimento sarà anche costretto a liberarsi di buona parte dei libri della sua biblioteca. È speranza degli amici, dei conoscenti e dei lettori che lo stimano che un’iniziativa privata o pubblica possa porre rimedio a questa mancanza di riconoscimento verso l’opera di un poeta che ha dato tanto in primo luogo alla città di Milano e all’intero Paese, distinguendosi nel panorama letterario e culturale nazionale e internazionale».

(Di Angela Urbano)


Franco Loi 

8 settembre 2013

Inflation


L’analisi economica del periodo weimariano in Germania è un tema stimolante perché ci narra una delle crisi più spaventose vissute nel continente europeo, esplosa non a caso dopo la prima guerra mondiale. Quella che viviamo oggi è una situazione diversa, soprattutto per le cause che l’hanno determinata e per il fatto che il contagio coinvolge quasi tutte le economie del mondo, in un andamento sussultorio di scarse riprese, più annunciate che reali, e immediate ricadute. È chiaro, per quanto riguarda la crisi attuale, che i paesi strutturalmente più deboli manifestino sintomi più acuti. Ma fa comunque impressione leggere di pesanti contraccolpi anche nell’ ‘emergente’ scacchiere asiatico. Si prenda ad esempio il caso dell’India dove negli ultimi tre mesi la rupia si è svalutata del sedici per cento nei confronti del dollaro, uno scenario che fa pensare alla ‘tempesta perfetta’ abbattutasi sui mercati dell’Asia tra il 1997 e il 1998. Il «Tages-Anzeiger» interviene così sull'India: «Un sistema schiacciato dalla burocrazia e dalla corruzione, nel quale brilla ben poco oltre l’informatica. Finora questi problemi erano stati coperti grazie all’afflusso di capitali a basso costo dall’estero. Ma all’improvviso il vento è cambiato».
La micidiale svalutazione del marco tedesco tra il 1921-’23 ricostruita nelle pagine di Fergusson diviene allora una materia in grado di attirare il lettore di oggi, soprattutto in quanto gli viene offerta la possibilità di approfondire dinamiche e ricadute sociali di un fenomeno che sta di nuovo erodendo le certezze di molti paesi, giocando pericolosamente con le aspettative di milioni di persone.

(Di Claudia Ciardi)



Adam Fergusson, Quando la moneta muore. Le conseguenze sociali dell’iperinflazione nella Repubblica di Weimar, introduzione all’edizione italiana di Gian Enrico Rusconi, Il Mulino, 1979

Titolo originale:
When money dies

«In una società industriale moderna l’inflazione, sfuggita al controllo, diventa il fattore più subdolo di sconvolgimento e riclassificazione sociale. Polverizzando le basi di sussistenza di milioni di famiglie di lavoratori salariati, di ceti medi a reddito fisso o della piccola distribuzione, semplifica le divisioni sociali a livello più basso.
Ma le reazioni psicologiche e i comportamenti politici hanno segni contraddittori e rendono infinitamente più difficili i rapporti tra i gruppi sociali. L’inflazione non è mai un evento esclusivamente economico, soprattutto quando supera la soglia entro la quale diviene “iperinflazione”. Incidendo in modo palpabile su quell’arcano quotidiano che è il denaro, con il quale si materializzano non solo le soddisfazioni dei bisogni ma le stesse identità sociali, il processo iperinflazionistico si trasforma in trauma collettivo. La sua portata è incalcolabile e – ciò che più conta – imprevedibile. Non a caso la figura del panico è molto spesso associata ai fenomeni “irrazionali” del denaro. Ma panico, irrazionalità e imprevedibilità dei comportamenti, anonimità dei processi non esauriscono affatto le dimensioni sociali dell’iperinflazione. Al contrario rischiano di nascondere la sua capacità di mettere a nudo il sistema sociale e politico in cui ha luogo. L’iperinflazione è il banco di prova delle qualità reali della classe dirigente, non meno di quella d’opposizione, sia che questa si riconosca nel quadro costituzionale esistente o lo voglia cambiare. Funziona come una radiografia dei reali rapporti di forza tra le parti organizzate, istituzionali ed extraistituzionali – tra esse e potenziali nuovi soggetti collettivi.
Tutto ciò può essere verificato nell’iperinflazione che ha colpito la Germania di Weimar nel 1922-’23 – un caso storico ai limiti del credibile. Adam Fergusson in Quando la moneta muore ha ricostruito quella esperienza con una efficacia e uno stile che a tratti prende il lettore come un thrilling. Ma il crimine di cui si parla è il diluvio di miliardi di cartamoneta che coinvolge banchieri e militari, politici e sindacalisti, travolge nella più cupa disperazione un popolo in una sequenza di situazioni ora crudeli, ora comiche, ora grottesche. L’espressionismo non è più una finzione estetica: è il vissuto quotidiano.
Fergusson ha scritto alcune di queste pagine per il «The Times» tra il 1974 e il 1975; non è uno storico professionale, preoccupato di vagliare le varie ipotesi di spiegazione dell’iperinflazione weimariana, e le sue conseguenze – un nodo storico e politico tutt’altro che sciolto per l’intrico delle sue componenti. L’autore vuol innanzitutto descrivere dal vivo come una popolazione viene colpita e corrotta da quel flagello e come vi reagisce una classe politica. […] La ricostruzione e la valutazione di fondo delle vicende weimariane avviene esplicitamente sulla falsariga dei giudizi di un importante osservatore e protagonista di quei tempi: l’ambasciatore britannico a Berlino Lord D’Abernon. Sappiamo quale ruolo di mediazione e moderazione abbia svolto la diplomazia britannica non solo nella spinosissima questione delle riparazioni, ma in generale per un riassetto politico della Germania su una linea liberal-conservatrice.
Facendo questo punto di vista proprio, Fergusson intende prendere le distanze sia dal rapace capitalismo della grande industria, sia dall’inconcludente, rissoso e diviso movimento operaio. Una posizione di mezzo non priva di ingenuità, dove il sincero sdegno morale e la denuncia della incapacità di una classe politica prendono il posto di una più critica valutazione dei fatti e delle loro connessioni. Questo non impedisce di apprezzare la forma di molte pagine scritte per dimostrare che «se si vuole causare la rovina di una nazione, occorre per prima cosa distruggerne la moneta».
[…] L’opinione della piccola borghesia è tale che nel momento in cui viene “proletarizzata” raddoppia il suo risentimento antioperaio e antisindacale.
A questo proposito è bene ricordare che la ricerca di indicatori materiali della miseria o di criteri oggettivi per il confronto tra gli standard di vita delle varie classi non rende conto delle differenti reciproche percezioni sociali. […] Per la piccola borghesia, invece, che è cresciuta nella identificazione con la Nazione e lo Stato, dei cui simboli e riti è stata la vestale, la polverizzazione dell’ultimo solido simbolo-valore, del denaro, è uno schok senza precedenti. È una esperienza di estraneazione da cui non si libererà più. […]
Ma veniamo alle tesi politiche di Fergusson. Esse si possono riassumere così:
a) le radici del processo inflazionistico dei primi anni della repubblica tedesca sono da riportare indietro alla politica finanziaria del governo imperiale durante la prima guerra mondiale; l’inflazione del 1921-’22 non fu alimentata cinicamente dal governo repubblicano per sottrarsi alle riparazioni di guerra da versare agli ex nemici, ma neppure intenzionalmente per favorire il grande capitalismo industriale o per sostenere l’occupazione e i salari operai;  l’inflazione fu il risultato dell’indolenza e della incapacità della classe dirigente (ivi compresa l’autorità finanziaria della Reichsbank) nel realizzare una riforma fiscale e nel contenere il credito; b) la perdita di controllo dell’iperinflazione del 1923, per quanto accelerata da decisioni contingenti di ordine politico (assunzione da parte dello Stato dei costi della “resistenza passiva” decretata nella Ruhr per protesta contro l’occupazione delle truppe francesi e belghe) era inevitabile. La pretesa di sfuggire alla bancarotta e insieme di evitare la disoccupazione di massa, la pretesa di conciliare due obiettivi contrari, doveva fatalmente portare al disastro dell’autunno 1923. Solo allora a prezzo di una dittatura militare, sia pure legale, e con nuovi sacrifici per la classe operaia (abolizione della giornata di otto ore lavorative) si poté trovare una soluzione quanto meno provvisoria. Le cicatrici dell’iperinflazione infatti rimarranno profonde e ricominceranno a sanguinare con la crisi del ’29, aprendo la strada a Hitler.
«Il punto critico in cui l’inflazione cominciò ad alimentarsi e a divenire politicamente incontrollabile non è possibile trovarlo sul diagramma della svalutazione monetaria, o della velocità di circolazione della moneta o del deficit della bilancia dei pagamenti… Il punto critico lo si deve piuttosto individuare analizzando la curva discendente del potere politico e del coraggio che il governo, pressato da ogni parte, fu in grado di esprimere. A mandare in rovina la Germania fu il fatto di assumere costantemente la linea meno dura quando si trattava di faccende monetarie. Il punto critico, quindi, non era finanziario ma morale.
La chiarezza delle tesi di Fergusson facilita il confronto critico. Se è convincente il modo con il quale, dopo l’esame di tutti i risvolti tecnico-finanziari e le connessioni internazionali della questione, va dritto alla responsabilità del gruppo dirigente weimariano, assai meno convincente è l’imputazione di incompetenza e addirittura codardia. Qui il tono moralistico fa velo alla sostanza politica del problema.
Nella gestione delle finanze dello Stato che nel sistema industriale avanzato deve garantire le condizioni ottimali di riproduzione del capitale, competenza significa capacità di assecondare, se non addirittura di imporre una precisa linea complessiva, tenendo conto dei due partner sociali determinanti – capitali e lavoro organizzato. Lo spazio d’autonomia dell’esecutivo è strettamente condizionato dalle forze politiche che partecipano (o dovrebbero partecipare) a dettare tale linea politica. L’incompetenza è spesso solo sinonimo di assenza di tale linea ovvero incapacità di realizzarla. Questa sembra essere la situazione della Germania tra il 1921 e il 1923. In realtà dietro il paravento nazionale e internazionale delle riparazioni, dietro il comportamento irresponsabile del grande capitale industriale e finanziario (evasione fiscale, speculazione su valute estere, fuga di capitali), dietro l’importanza del governo ad imporre una tassazione efficiente – dietro questa patologia sociale ed economica è trasparente il disegno di liquidare politicamente la rivoluzione del novembre 1918. […]
Il perno di tutta la situazione sociale e politica del triennio 1921-’23 coincide con il ruolo reale e possibile della socialdemocrazia e del sindacato ad essa collegato. Solo in questa prospettiva poteva essere affrontato il problema dell’occupazione. Ma è una prospettiva che non considera l’occupazione una variabile economica dipendente, per la cui manovra basta la competenza e il coraggio dell’esecutivo. La questione dell’occupazione è il punto d’incontro di equilibri sociali e politici per il cui controllo sono necessarie grandi capacità politiche».

(Dall’introduzione)




Adam Fergusson: Inflation lessons for the UK
Adam Fergusson's 1975 book on hyper-inflation in the Weimar, When Money Dies, has become a cult read among Europe's top financiers after the Sage of Omaha Warren Buffet is said to have recommended it. He tells Robert Miller where parallels could occur if inflation were to take hold in Britain.
See the video

Germany in 1914 had one of the world's most prosperous economies. By 1923 its currency, the Mark, was worth next to nothing. When Money Dies tells the story in stark human terms of what happens when a currency and a national economy perishes.
Germany increased the circulation of the Mark to finance a series of staggering war reparations from World War I. The Mark depreciated at an astronomical rate. In November 1921, the Mark was at 250 to the dollar. By the following November, it was at 8,000 to the dollar. By January 1923 it was well over 50,000 to the dollar, and by July of the same year, it was at a whopping 174,000 to the dollar. By the end of 1923, the mark was dead and Germany was in the midst of a raging inflation that was impossible to control.

Social misery and crippling economic instability followed. Citizens watched in horror as their life savings disappeared. It didn't take long for the middle class to be replaced by a new class: the new poor. Many struggled to find even the barest of necessities, and starvation raged. Soon communities printed their own money, based on goods such as potatoes or rye. Shoe factories paid their workers in bonds for shoes which they could exchange at the bakery for bread or the meat market for meat. As Fergusson describes it: "In hyperinflation, a kilo of potatoes was worth, to some, more than the family silver; a side of pork more than the grand piano. A prostitute in the family was better than an infant corpse; theft was preferable to starvation; warmth was finer than honor; clothing more essential than democracy, food more needed than freedom."

People in search of someone to blame picked upon other classes, other races, other political parties, other nations. They were in large measure still blaming not the disease but the symptoms. There was communal hatred, which was new. There was social resentment, which was new. There was bribery and corruption: that was new. This was Germany in 1923: a great power at the height of its ambition that produced the greatest national financial disaster in recent history.

Adam Fergusson was born in Scotland in 1932. He graduated in history at Cambridge, and later became a journalist with the Glasglow Herald, the Statist, and The Times. He has been a Member of the European Parliament, a Special Adviser at the Foreign Office, a consultant on European affairs for international industry and commerce, and political advisor to Geoffrey Howe, Mrs. Thatcher's Chancellor of the Exchequer in 1979. He has written five books. A Fellow of the Royal Society of Literature, he lives in London.


James Ensor, Death and the Masks - La morte e le maschere

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3 settembre 2013

Leggendaria n. 100


Segnaliamo Leggendaria numero 100 
Luglio 2013
Titolo: n. 100
Tema: Generazioni e narrazioni
ISBN: 978 – 88 – 6252 – 217 - 5
Euro: 10, 00
Sito di Leggendaria/ Official site


Grazie a Leggendaria, nella persona della direttrice Anna Maria Crispino, per avermi dedicato un doppio spazio nella rivista.

La recensione a cura di Anna Maria Crispino dedicata alla voce notturna di Catherine Pozzi nella selezione di poesie edita da Via del Vento.


Riproduzione dell'articolo © 



Il libro:
Catherine  Pozzi, Nyx
A cura e traduzione di Claudia Ciardi
Via del Vento edizioni, 2012
pag. 36, ISBN 978-88-6226-068-8


Euro 4,00


Cover, Via del Vento edizioni ©







                  
Più o meno mentre mi aggiravo per le strade di Friedenau, usciva questo mio contributo sulle voci della 'flânerie berlinese'. In certi momenti accadono cose che definirle fatalità soltanto significherebbe sconfessarne la segreta intelligenza con cui si manifestano.

Sinfonia di una metropoli di Claudia Ciardi su La Berlino dell'espressionismo, a cura di Antonella Gargano, Silvy edizioni, 2012 ©


Pagine correlate/ related links:

Archivio ESSPER

Catherine Pozzi, Nyx, a cura di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, dicembre 2012 (post in questo blog)

Walter Benjamin, Liberami dal tempo/ Enthebe mich der Zeit, a cura di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, ottobre 2011 (post in questo blog)
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Georg Heym, Ci invitarono i cortili/ Die Höfe luden uns ein, a cura di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, dicembre 2011 (post nel blog)
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Simonetta Longo su Georg Heym/ La Sfinge senza enigmi 

germanistica.net per Via del Vento edizioni


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