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21 dicembre 2022

Guardare la Gorgone

 


Gustav Klimt - Il fregio di Beethoven (Le Gorgoni) / Ricostruzione
(Milano, 2014)



Uno sguardo sul mito e sulle sue interpretazioni. Questo studio dedicato alla Gorgone da Angelo Tonelli, fine classicista e interprete notevole della religiosità greca, il cui interesse particolare è riservato ai culti misterici, coniuga chiarezza divulgativa e terapia analitica, con cenni ai fondamenti freudiani, al metodo junghiano, al buddhismo.
Porfirio definisce bene la natura della Medusa pietrificante, la più nota delle tre Gorgoni. Si tratta di un fantasma in cui non v’è traccia alcuna dei sensi. Se Medusa si manifesta ai dannati come terrore, panico che afferra questi spiriti negletti, può tuttavia, nel corso della vita dell’uomo, prendere altre forme. È il pericolo insito in qualsiasi attività psichica svincolata dalla riflessione, quindi conseguentemente insensata. E aver dunque a che fare con le false rivelazioni. Questo mostro, senza ossa né carne, è come Proteo che assume tutti gli aspetti e non ne ritiene alcuno. Ma la Gorgone è anche l’unica delle tre figlie di Forco ad essere mortale, a condividere dunque nella mortalità il destino degli umani; cioè dà la morte, pietrificando, ma può a sua volta soccombere. Ed è materna, diviene madre proprio nella morte. È forse la più liminale, incerta, conturbante fra le creature demoniache della mitologia ellenica.
E troneggia in mezzo alle presenze infernali dalla letteratura antica a quella moderna, che a simili immaginari attinge. Una popolarità che va di pari passo nei testi scritti e nelle arti figurative. Si pensi alla nèkyia (XI dell’Odissea) ossia l’esorcismo magico, di natura orfica, che permette a Ulisse d’incontrare le anime dei morti: «Mi sentii verde d’orrore al pensiero che dall’abisso dell’Ade la nobile [luminosa] Persefone potesse inviarci la testa di Gorgo, mostro terribile». (XI, 634) Così nella Commedia, ai piedi della città di Dite, lo spauracchio della Gorgone viene agitato davanti al poeta, che rischierebbe di non uscire più dagli inferi: «Volgiti ’ndietro, e tien lo viso chiuso; // ché se ’l Gorgón si mostra, e tu ’l vedessi, // nulla sarebbe di tornar mai suso». (Inferno, IX, 55-58). Virgilio ammonisce Dante a proteggersi per non incrociare lo sguardo che potrebbe immobilizzarlo per sempre. Il volgersi indietro è per non offrire il viso alla Gorgone ma anche un fissare il punto “opposto” in modo da scongiurare il manifestarsi dei demoni; ciò secondo un’interpretazione che si rifà all’ermetismo. Se ci si vuole liberare, uscire dall’atmosfera infera che è senza stelle, se si vuole tornare nel pieno possesso delle proprie facoltà intellettive – corrispondendo la dannazione alla loro negazione – occorre superare la paura, e riconoscendo la sua insidia affrontarla. E poco prima, con espressione coloristica, le Furie-Erinni, in preda al furore, si appellano proprio alla potenza della Gorgone: «Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto» (IX, 52) – Venga Medusa così lo trasformeremo in pietra – e il pensiero va anche al modo di dire “restare di sasso” (impietrire perché colpiti da meraviglia, stupore; in francese il verbo méduser significa “sbalordire”).
Del resto, il controllo di questo intenso turbamento che fa vacillare l’identità acquisita e scuote il thymós – la sede delle emozioni – si configura come una vera e propria discesa agli inferi della psiche individuale. La paura è una delle esperienze fondamentali dell’essere umano ed è solita manifestarsi con più forza nei momenti di trasformazione, segnando il passaggio a una nuova fase della propria esistenza, uno snodo che implica crescita e mutamento nella propria interiorità. Scrive a questo proposito l’autore: «La paura è una realtà della psiche, fin dalla nascita, e anzi, proprio già nell’atto stesso del nascere, in quel passaggio straziato dal regno delle acque e delle oscurità materne alla luce e all’aria, che trafigge i polmoni e fa piangere il nuovo nato.
Ma la paura è presente anche nel fragile ego del neonato, come dice Melanie Klein, quando si rapporta al seno materno, ora buono, quando fornisce alla prima richiesta il nutrimento necessario per sopravvivere, ora cattivo, quando non risponde immediatamente alla domanda del lattante, e lo fa temere per la propria sopravvivenza».
Dunque, un sentimento ancestrale, atavico, che attiene ai primi istinti dell’essere. Nucleo di sconvolgente emotività ispiratore di pratiche catartiche, anche queste radicate nei primordi. Dallo sciamanesimo delle Baccanti alle danze coribantiche fino alla pizzica tarantata nel sud Italia – memorabile al riguardo lo studio di Ernesto De Martino, che ha vergato pagine importantissime sui meccanismi di questa trance collettiva preparata da balli, canti, esercizi di allentamento delle difese dell’ego. Lo strumento fondamentale per aver ragione di Medusa è lo specchio; il mito invita a guardare in faccia questa creatura solo di riflesso, cosicché non possa nuocere. In senso allegorico, il riflesso è riflessione e lo specchio è specchio della mente. Nell’opera mentale di mediazione e catarsi del senso di paura rientrano la filosofia, la psicoanalisi l’arte, che hanno la caratteristica di istituire una mediazione, cioè interpretare e creare. Nello specchio della mente riflessiva la paura genera le arti.
La nostra civiltà tecnorazionalistica ha rimosso gli strumenti cultuali e rituali per onorare e placare le divinità ctonie (i demoni, gli incubi) che popolano la notte – una notte, lo si è detto, che coincide con il nostro inconscio. Le Erinni, le Chere, le Gorgoni vogliono essere contemplate e, quindi, esorcizzate per liberare il loro potere propiziatorio, affinché la negatività, l’incerto, lo sconosciuto trovino un’integrazione armonica negli aspetti positivi, normalizzatori, della vita. E tuttavia tale processo mostra che non si danno norma e normalità – parametri della psiche collettiva e delle istituzioni sociali – non si raggiunge alcun equilibrio – concetto che attiene al senso individuale e che si regge su una palìntonos armonia, “un’armonia di tensioni contrarie” – senza attraversare gli spazi all’apparenza inaccessibili e incontrollabili che siamo chiamati a interpretare.
 

(Di Claudia Ciardi)

 

Edizione commentata:

Angelo Tonelli, Guardare negli occhi la Gorgone. Piccolo vademecum per attraversare le paure, Collana “Lo specchio di Dioniso”, Agorà & Co., 2016

 

Arnold Böcklin, Medusa, 1878

 

13 giugno 2022

Wunderkammer

 



Fate di un museo un reame somigliante a una Wunderkammer e io me ne innamorerò perdutamente. Alla fin fine l’idea di collezionare e conservare è nata in questi luoghi eccentrici, quindi il fatto di riportare qualcosa dalle stanze della meraviglia alle nostre ordinate sale non sarebbe poi così illogico. La passata attitudine a riunire oggetti secondo simbologie estetiche, richiami misterici, puro desiderio di ricerca, in un dialogo serrato fra suggestione magica e inclinazione scientifica, è peraltro di un’attualità stupefacente.
Nel riflettere una caratteristica innata dell’essere umano, vale a dire la curiosità e la voglia di compenetrare ogni ambito del sapere, di cui l’accumulazione degli oggetti è un segno tangibile proprio perché non si esaurisce né soddisfa mai completamente se stessa, la Wunderkammer sembrerebbe oggi riportare in auge il suo messaggio. Tanto più che di uno sguardo meravigliato sulle cose abbiamo davvero un bisogno vitale.
Tessere trame fra culture e immaginari diversi può consegnarci chiavi di lettura inedite. E ancora, può liberarci da una mentalità selettiva e iper specialistica che non raramente ci ha relegati in meccanismi autoreferenziali, dai quali finiamo per guardare con sospetto ogni avvicinamento tra zone del sapere considerate discontinue in modo aprioristico.
Il documentario di Francesco Invernizzi ricostruisce il sentimento della meraviglia nello spazio e nel tempo, e ci offre un filmato che appare come una dimora fatata dove si snodano percorsi quasi impossibili fra antico e moderno. E in una storia ai limiti del possibile (e del pensabile), come avviene ad ogni ingresso che ci si appresta a varcare, non poteva non aspettarci un’epigrafe: «Tutto ciò che è ignoto si immagina pieno di meraviglie» (Tacito). Che bello, la voce di uno storico romano – e non uno a caso, perché Tacito in quanto autore della Germania si era soffermato proprio su quel mondo nordico le cui immaginazioni sono alla base delle meravigliose stanze qui aperte. Una storia che mischia fantasia e visione politica e che irradia dal centro Europa fra XVI e XVII secolo.
Moda, ricerca, fasto, affermazione di potenza; ricordiamo che le Wunderkammern più opulente erano appannaggio dei ceti più che aristocratici, dei reali addirittura. In Italia fra le maggiormente sfarzose si ricordano quelle realizzate dai Medici, collezionisti che non è esagerato definire compulsivi. Poi, sempre in zona podio per estensione e ricchezza, ci sono le collezioni di Alberto di Baviera, di Rodolfo e Ferdinando d’Asburgo, quest
ultima ancora oggi visitabile a Vienna.
Un luogo di piacere che prepara la mente a incontri surreali, con le proprie ombre e le scene d’inconfessabili sogni, quindi anche sede di malintesi e contraddizioni. La mescolanza come vera ratio, come chiave di lettura adattabile, soggetta a continua metamorfosi. L’accostamento fra oggetti di vario tipo, naturali, archeologici, esotici, inventati dà origine a narrazioni del tutto fuori dai canoni, che permette di gettare lo sguardo su mondi altri e lontani, superando il filone unico e limitato del collezionismo di reliquie predominante nel Medioevo. Si tratta anche di un lungo racconto affidato a una fitta selva di cataloghi, perché in moltissimi casi le stanze originali sono andate perdute e l’unico modo per recuperarne una presenza storica è tuffarsi in queste mirabolanti pubblicazioni, fatte di tavole minuziose, disegni raffinati, evocazioni di atmosfere fuggevoli ed effimere presenze.
In questo affascinante resoconto le voci di eccentrici appassionati, moderni realizzatori di Wunderkammern, si alternano a quelle dei curatori museali (dal Mudec al Poldi Pezzoli di Milano, alla Tate Modern di Londra). In aggiunta, mi piace menzionare anche la GAM di Torino, la cui nuova direzione ha rivoluzionato tutto e cambiato gli allestimenti, valorizzando gli splendidi depositi relegati nei magazzini. Il frutto è una sala di mostre temporanee, battezzata in modo emblematico Wunderkammer, che dà spazio a ciò che altrimenti resterebbe confinato nelle segrete. Un
idea espositiva che attinge a un preciso concetto darte: fare largo alla bellezza senza porsi limiti, osare, creare nessi fra cose dimenticate alla vista.
Spunti, temi, diramazioni, deviazioni che scaturiscono da un elemento congenito all’umano, qual è il desiderio di conoscere. Dunque, musei dell’insolito. O non è forse l’insolito a costituire la vera ossatura di un museo? In effetti, non vi è ordine che prima non sia passato per un magnifico disordine, non c’è bellezza che non sia il frutto di un’affollata ricerca tra armonie dissonanti. Le Wunderkammern rovesciano continuamente il gioco dell’arte, spingono le regole fino a farle stridere… ma alla fantasia nulla è proibito.
Meraviglia, performatività, collasso, incredulità e contraddizione, sono questi i punti cardinali in cui nei secoli si sono creati tali ambienti
così nella sintesi di Andrea Lissoni, curatore alla Tate Gallery di Londra. E non sono forse le nostre stesse collezioni digitali, costruite sull’assemblaggio di immagini, una sorta di Wunderkammer ispirata dai cortocircuiti che ci mette davanti la navigazione in rete? Un gioco inesauribile, a quanto sembra, perché sta tutto dentro la mente umana e lì si rigenera, traendo nuova linfa, in base ai tempi e alle mode.   


(Di Claudia Ciardi)

 


Francesco Invernizzi, Wunderkammer - Le stanze della meraviglia
Magnitudo film, 2017
Durata 83 minuti









La stanza delle meraviglie - Palermo




Arte sommersa - Dalla mia bacheca
«Vissi darte»
 
 

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