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1 febbraio 2018

Le nuove frontiere della pittura





Che buona parte delle proposte artistiche contemporanee si sia indirizzata a una rimessa in discussione formale, e in larga parte iperconcettuale, delle avanguardie storiche è un dato acquisito. Mi torna in mente una mostra poco pubblicizzata di qualche anno fa a Palazzo Sozzifanti (Pistoia), assai esemplificativa per questi temi, in cui vennero esposte alcune tra le opere di maggiore richiamo nell’ambito della piccola scultura da Fortunato Depero a Beverly Pepper, una carrellata densissima tra avanguardia e postavanguardia. Ricordo con chiarezza la sensazione di una ripetitività, che rasentava il fastidio, il tono autoreferenziale di un esercizio volutamente ostentato, non appena usciti dagli spazi delle avanguardie storiche, con un picco nelle espressioni prodotte tra i Settanta e gli Ottanta. Messaggio: è già stato detto tutto, non resta che la citazione della citazione. Da dopo la metà del Novecento s’impone una sorta di logaritmo dell’arte in base astratta, capace di dare risultati simili se non uguali. Ora, la mia suona forse come una semplificazione eccessiva, ma credo non sia esagerato ravvisare in molte di queste opere una pratica fine a se stessa, lontana se non antitetica alle istanze di rottura delle prime avanguardie.  
Discorso ad ampio raggio che coinvolge non solo le arti plastiche ma latamente ogni manifestazione creativa, e in particolare la letteratura, con cui l’avanguardia pittorica del primo Novecento ha stretto un dialogo serrato, tra contaminazioni, prese di distanza e ricongiungimenti. Si consideri, ad esempio, l’espressionismo, nato in pittura e quindi approdato alla poesia. Quando nelle sue proposte letterarie può dirsi già esaurito – più o meno intorno al 1920 – persiste la sua vitalità artistica, almeno per un altro quinquennio, sebbene anche qui con evidente esaurimento della sua carica iniziale.
Dagli anni Quaranta ha inizio quel processo di invecchiamento dell’avanguardia innescato dal capillare afflusso della cultura americana nell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale. Dal vecchio continente la modernità si trasferisce oltreoceano e diviene postmodernità, oggetto di studio, materia d’archivio sviscerata dalla critica, voce addomesticata a cui torna a guardare proprio quella borghesia elitaria, scossa un ventennio prima dall’irruzione dei suoi figli più indisciplinati e geniali sul palcoscenico delle arti. Scrive Alfonso Berardinelli nel saggio Poesia non poesia, dedicato agli sconfinamenti e alle declinazioni del moderno: «La continuità si era interrotta. Non si poteva credere di continuare esperienze primo-novecentesche. Sarebbero state comunque  trapiantate e riusate accademicamente, in un contesto ormai mutato nel quale il “pubblico borghese” classico, scandalizzato e oltraggiato dalle avanguardie storiche, era stato addestrato dalla critica e si era trasformato  nel pubblico neoborghese avanzato e consenziente che considerava la trasgressione avanguardistica come il primo comandamento culturale. L’avanguardia si insegnava nelle accademie. E questo ha determinato negli anni Sessanta la nascita di quella postmodernità matura che trasferiva lo shock moderno in un aldilà pacificato». Dunque, si è ripetutamente spacciato per contestazione ciò che in realtà nasceva in seno al mare tranquillitatis di élites politicamente e culturalmente promosse dal sistema; e questo spiega anche perché molte delle opere scaturite in tale contesto non hanno aggiunto nulla al nostro senso critico né hanno saputo spingere verso una qualche forma di rinnovamento. Una promessa mancata – e non poteva essere altrimenti – in quanto stravolta all’origine dalla sua filiazione: il nuovo conservatorismo politico non poteva produrre un’arte nuova.
In tutto ciò il figurativo è rimasto un mondo a parte, un cenacolo di pochi e per altrettanti nostalgici, confinato in una sorta di limbo delle arti e tacciato di mancanza di originalità.
Il curatore di Le nuove frontiere della pittura, allestita alla Fondazione Stelline (Milano), Demetrio Paparoni, nella sua articolata presentazione della mostra insiste su un doppio binario politico, analizzando la rinascita figurativa da un lato come una risposta culturale alta allo spaesamento globale, che ha sovvertito l’idea tradizionale di spazio-tempo, perlomeno così com’era veicolata in occidente. Dall’altro isolandone l’autentico gesto di ribellione alle chiusure critiche, dettate da una contrapposizione ideologica esasperata perdurante fino a prima della caduta del muro di Berlino. La postavanguardia a rilettura americana implicava un accantonamento del figurativo quale puro esercizio ornamentale svincolato dagli orientamenti di potere. «In sostanza, quella parte della critica ideologizzata attiva sulla scena degli anni Settanta e Ottanta», scrive Demetrio Paparoni, «ha fatto muro contro la pittura figurativa perché convinta che cambiare la struttura del linguaggio equivalesse a portare avanti una sorta di rivoluzione politica».
E su tale fronte è di estremo interesse osservare come negli stessi Stati Uniti non sia venuta meno una corrente figurativa che nell’ultimo trentennio ha mantenuto un suo vitalismo, ancora una volta influenzando ex contrario le tendenze dell’arte, stavolta in concomitanza con esiti similari in altre parti del mondo, soprattutto asiatico. Inka Essenhigh, Dana Schutz e gli italiani Alessandro Pessoli e Nicola Verlato, americani d’adozione, nomi che non a caso trovano spazio nella rassegna milanese, sono esempi di quello che potremmo definire un antiavanguardismo militante.
L’intreccio con la grafica e la fotografia nella trentina di tele in grande formato esposte al Palazzo delle Stelline è palese. Nel caso degli artisti del sud-est asiatico (sono esposti Li Songsong, Liu Xiandong, Nguyen Thai Tuan, Natee Utarit, Wang Guangyi, Yue Minjun, Zhang Huan) si aggiunga la riflessione del fatto storico – il recente passato coloniale, la guerra – riletto e calato nell’attualità attraverso volute distonie, quando non si tratta di aperti contrasti tesi a generare stalli e interruzioni nel fatto narrato. Tutto è compenetrante e vivo ma anche sfuggente, sempre ai limiti dell’incomprensione: giocare a sovrapporre memorie e immaginazione, momenti del reale e dell’irreale, sogni e storia è un modo comune per ammonirci sulle sirene del nostro tempo. Ma anche per lasciarci la massima libertà di movimento nel percorrere le nuove coordinate disegnate dall’epoca globale, consapevoli che l’impostazione narrativa stessa non può non risentire del cambiamento.
E proprio la presenza per certi versi deformante ma anche imprescindibile della grafica alla base di queste creazioni denota come la pittura figurativa, data per morta più e più volte, sappia ancora autoprodursi in una sfera rappresentativa indipendente, autonoma e capace di raccontare il mondo da un punto di vista originale e, soprattutto, attraente per chi vi si affaccia.


Catalogo:

Le nuove frontiere della pittura,
a cura di Demetrio Paparoni,
16 novembre 2017 - 25 febbraio 2018, Fondazione Stelline, Milano,
Edizioni Skira


Ultimi giorni per visitare Dentro Caravaggio, la mostra che vede presenti a Palazzo Reale (Milano) più di venti capolavori di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610).
Iniziativa di ampissima risonanza, grazie all’approfondita introspezione nel modus operandi dell’artista milanese. Evento basato su un progetto di divulgazione multimediale in linea con le più recenti tendenze negli allestimenti espositivi. Le tecnologie ormai sempre più sofisticate al servizio della cosiddetta diagnostica artistica permettono di catturare le fasi di realizzazione di un’opera, analizzando al dettaglio il lavoro compiuto dal pittore in ognuna delle sue parti. Si entra, dunque, nel laboratorio caravaggesco come mai prima era stato possibile. Strati di pittura, sfondi, riposizionamento dei soggetti vengono ora svelati al largo pubblico.
Caravaggio può essere considerato il padre della fotografia in pittura. Quelle che ci regala nei suoi dipinti sono vere e proprie istantanee. L’uscita dal manierismo ne fa un innovatore assoluto e per certi versi “precognitivo”, discorso che va ben al di là delle tecniche da lui messe a punto nel suo percorso artistico. Per quanto possano sembrare mondi lontani, le frontiere della pittura, rassegna che porta per la prima volta in Italia più di trenta opere di arte figurativa contemporanea da tutto il mondo, e Caravaggio hanno un filo conduttore. Il figurativo dalla modernità in avanti non ha mai smesso di innovarsi e innovare. La pittura ha “inventato” la fotografia e quando la fotografia l’ha data per morta ha dimostrato di saper restare sul campo senza pericolo di essere superata.


(Di Claudia Ciardi)





8 novembre 2017

Il movimento giovanile tedesco




Paul Ranson, Strega con gatto e corvi, 1893 



È un argomento complesso, esteso quanto poco studiato in Italia. Sebbene le fonti non manchino, di monografie storiche finora prodotte nella nostra lingua se ne contano in numero davvero esiguo, una lacuna ancor più evidente considerando che si tratta di un tema dalle vaste implicazioni culturali e politiche, con il coinvolgimento di migliaia di persone in Germania, in un’epoca che fu di rottura e profondi rivolgimenti sociali – l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, fase di turbolenze anche nel resto d’Europa. Non solo, ma la Jugendbewegung (Movimento giovanile), nel corso della sua crescita e del suo consolidamento territoriale, coinvolse alcune tra le figure più carismatiche e note dell’intellighenzia tedesca, che proprio allora iniziavano a farsi conoscere.
A uno scarso approfondimento di questo fenomeno corrisponde non a caso una certa fretta nel liquidare gli esordi di tali personaggi, vuoti che tuttavia pesano perché la loro adesione alle istanze movimentiste fu in molti casi tutt’altro che superficiale. Questa scelta si accompagnò infatti a svolte decise nei loro interessi di studio, nell’appoggio o meno alla guerra, nei modi in cui le proposte dell’avanguardia avrebbero trovato uno spazio di rappresentanza più o meno rilevante nella loro opera.
Valgano a titolo d’esempio due personaggi alquanto diversi fra loro, Walter Benjamin e Ernst Jünger. Entrambi si unirono alle file del movimento intorno agli anni Dieci del Novecento, quando la militanza nei gruppi giovanili aveva già subito una mutazione rispetto all’idealismo delle origini, allontanandosene. Per Benjamin fu principalmente la molla dell’interesse letterario che avrebbe voluto saldare a un preciso impegno sociale; è così spiegata la sua freddezza nei confronti dell’uso delle arti come proscenio avanguardista fine a se stesso, e dunque una presa di distanza dalla rumorosa, quanto a suo parere effimera, bohème berlinese. Ciò tuttavia non gli impedì di far parte della rivista «Der Aktion» di Franz Pfemfert, che di quel mondo sommerso era espressione, nello stesso periodo in cui scriveva anche sulle pagine di «Der Anfang», il periodico della Jugendbewengung allineato alle posizioni del suo carismatico presidente, Gustav Wyneken.
Per Ernst Jünger era questione di partecipare allo svecchiamento del mondo monarchico, ma nell’ottica di un attivismo che non avrebbe disdegnato l’entrata in guerra, unico viatico, soprattutto per la generazione più giovane, attraverso cui innescare un rovesciamento di potere. Prima che molti constatassero l’inganno, ossia pretendere di voltare le spalle al vecchio mondo senza rendersi conto che si stavano abbracciando le soluzioni più reazionarie al problema, fra le quali la guerra fu di certo la più estrema, il disastro si era già consumato. Il dopoguerra portò in Germania una repubblica istituzionalmente fragile, che non seppe e non volle consolidarsi, perché troppe porte vennero lasciate socchiuse a invito del conservatorismo ottocentesco, uomini della passata classe dirigente costretti a fare i conti col proprio arretramento e perciò ispirati da veleni revanscisti. 
Se all’inizio il Movimento giovanile esprimeva una generica insofferenza per l’irruzione del capitalismo in una società a basi contadine, in un sistema di vita sorretto da strutture ancora marcatamente rurali investite dai moti convettivi della fabbrica e dell’occupazione in città, luogo eletto all’anonimato della massa e alla metamorfosi espansiva della metropoli, se cioè all’inizio la protesta fu impulsiva e pressoché apolitica, con il suo radicamento territoriale assunse un carattere più vicino agli apparati di potere e, dunque, una sua collocazione politica, pur permanendo al suo interno una pluralità di registri.
Anche in questo la Grande Guerra irruppe come uno spartiacque, avviando il Movimento a una sempre più marcata degenerazione di stampo nazionalista conservatrice, portandolo gradualmente a corteggiare gli ambienti dell’estremismo di destra. Mentre Jünger si arruolò volontario in fanteria, per Benjamin lo scoppio della guerra significò schierarsi su posizioni apertamente antimilitariste. Ne scaturirono lettere infuocate all’indirizzo di Gustav Wyneken con l’accusa di “tradimento della gioventù”, sull’onda anche del suicidio del ventenne poeta Heinle, imputabile forse ad una crisi di coscienza tra alcuni dei militanti e la rottura che si sarebbe consumata di lì a poco. L’esperienza dello Sprechsaal berlinese in cui studenti e simpatizzanti si riunivano per enunciare e discutere i principi del movimento, così come quella delle case in condivisione affittate dagli attivisti, chiuse i battenti di lì a poco. Più o meno mentre ancora la comunità studentesca si rivolgeva alla chiesa evangelica per ottenere un lotto di terra consacrata in cui seppellire Heinle e la compagna, incontrando secchi dinieghi – i due si erano suicidati e il moralismo di targa aristocratica ed evangelista non ammetteva deroghe.
Quando la Jugendbewegung organizzò il grande raduno nazionale sul Monte Meissner in Assia, nel 1913, in occasione del centenario della battaglia di Lipsia, patriottismo, revanscismo e ossessioni belliche già da un po’ di tempo avevano cominciato a infiltrare lo spazio della protesta e ad appiattire il dibattito culturale al suo interno. La scelta significativa dell’anniversario della prima seria sconfitta napoleonica, che segnò la sua disfatta nella campagna di Germania, innescando il crollo del sistema di alleanze francesi in Europa fino all’esito di Waterloo, non era semplice folclore storico ma evidenziava una precisa presa di posizione politica.
Era la fine di quella stessa spensieratezza liceale, tra scampagnata e scapigliatura, in mezzo a cui il Movimento era nato e cresciuto. Lo spirito ludico, provocatorio, a tratti perfino nichilista, lo rende in qualche misura assimilabile a un certo mondo culturale legato al crepuscolo ottocentesco, anti-sistema e inquieto, orientato nell’arte al superamento del simbolismo e incline a presentarsi svincolato da ragioni etiche o da obiettivi definiti. Degna di nota, per la similitudine con lo statuto inziale della Jugendbegung, è quella bizzarra fucina che amalgamava una concezione naturalista e anarchica a forme di spiritualità e di creatività fuori dal coro che aveva preso forma nella colonia artistica di Monte Verità, presso Ascona (1914-’15), dagli studiosi collocata in un frastagliato e sfuggente firmamento pre-dadaista.
Di certo, se vogliamo acquisire altri elementi sui rapporti storici fra arte, avanguardia e politica d’inizio Novecento, non solo nel cosmo tedesco ma in generale all’interno del vecchio continente, e se da questi rapporti vogliamo dedurre qualcosa in più sul postmoderno e la destinazione museale della proposta d’avanguardia, in un’ulteriore lettura politica consegnata alle tante attuali piccole e grandi deflagrazioni, questo capitolo, affatto minoritario, merita senz’altro di essere approfondito.      


(Di Claudia Ciardi)



Copertina storica della pubblicazione uscita nel 1913 per celebrare l’anniversario della Libera gioventù tedesca












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7 ottobre 2017

Ernst Ludwig Kirchner - Rinascita sui monti



E. L. Kirchner, Davos in estate, 1925


Ultimi giorni per poter visitare la mostra “Kirchner a Davos” presso i raffinati locali della Fondazione Hermann Geiger di Cecina (Livorno). Un’interessante esposizione volta ad approfondire il periodo svizzero del celebre artista tedesco, Ernst Ludwig Kirchner (Aschaffenburg in Baviera, 1880 – Davos, 1938), fondatore della Brücke, tassello essenziale dell’espressionismo, organizzata grazie al sostegno del Kirchner Museum di Davos.
Architetto di formazione a Dresda, poi frequentatore per un semestre della classe di pittura a Monaco di Baviera (1903-1904), Kirchner volle da subito inseguire il proprio sogno di artista libero e fuori dagli schemi. La prima guerra mondiale determinò una brusca interruzione alle sue aspettative e anche alla pulsante idea di bellezza e riscatto con cui aveva guardato la vita fino ad allora. Partito volontario per il fronte, nel settembre 1915 venne mandato in congedo temporaneo per malattia mentale, quindi ricoverato nel sanatorio di Königstein im Taunus con una diagnosi di alcolismo e assuefazione a sonniferi e morfina. Dal gennaio 1917 ebbe inizio il suo soggiorno a Davos. Pensando di restarvi solo il tempo necessario per recuperare la propria condizione psico-fisica, così fortemente compromessa dai traumi subiti al fronte, vi si trattenne per un ventennio, inaugurando una fase alquanto diversa ma non meno feconda nella propria ricerca artistica. Il critico olandese Herman Poort definì non a caso la presenza di Kirchner sulle Alpi svizzere «il miracolo della rinascita», tanto la vicinanza al paesaggio di montagna e i ritmi della vita contadina in valle giovarono alla riconciliazione del pittore con se stesso e il mondo. Fu un equilibrio fragilissimo che tuttavia gli permise di esprimere il suo talento ancora a lungo, nonostante non potesse lasciarsi completamente alle spalle le difficoltà e, nell’ultimo scorcio della sua esistenza, i foschi rovesci della madrepatria.
Nell’idillio di Davos, stazione turistica tra le più ambite negli anni Venti del Novecento, scelta da Thomas Mann per ambientarvi il suo capolavoro La montagna incantata, dove peraltro non vengono lesinate critiche alle consuetudini del sanatorio, tra cime statuarie e avveniristiche costruzioni firmate dall’architetto Rudolf Gaberel, innamorato degli spazi inondati dalla luce diurna, Kirchner si aggirava come una presenza sui generis, registrando tutto ma anche mettendo tutto in discussione, come aveva sempre fatto fin dai tempi della vita in metropoli.
Le tele e le xilografie esposte in questa preziosa rassegna toscana sono percorse da un simile contrasto che però non sfocia in dissonanze né smarrisce in nessun momento la chiarezza della propria formula narrativa. Da una parte l’atmosfera frivola e consumistica del turismo invernale, dall’altra il silenzio delle valli col le cuspidi alpine eternamente veglianti sul tempo e lo spazio. Anche quando Kirchner procede a una resa se vogliamo più quotidiana e consueta dei luoghi – il paese, la strada di valle, la passeggiata dei villeggianti – non viene meno il riferimento al primitivismo di natura verso cui così tanto si era sentito trascinato negli anni spesi nel Cantone dei Grigioni; il Tinzenhorn, ad esempio, è sempre là in fondo, ammiccante, onirico, fatato. Anche in una tela di orientalismo spiazzante e quasi astratto come la Scena del balcone (1935).
Per l’importanza dei pezzi esposti e la cura mostrata nella loro presentazione, questo evento si candida a essere uno dei migliori su Kirchner organizzati a livello nazionale.


(Di Claudia Ciardi) 



   
 E. L. Kirchner, Balkonszene, 1935



La mostra:


Aperto tutti i giorni fino al 15 ottobre
dalle 16:00 alle 20:00

Ingresso libero

24 settembre 2017

Hokusai - La pittura fluttuante



Hokusai - Un’improvvisa raffica di vento 



La Nexo Digital distribuisce per tre giorni nelle sale italiane il film evento sul genio artistico di Hokusai (1760-1849), maestro per eccellenza dall’Ukiyoe, la pittura del mondo fluttuante. Celebrato recentemente nella grande mostra milanese di Palazzo Reale, in occasione dei centocinquant’anni dei rapporti culturali tra Italia e Giappone, questa proiezione torna adesso a omaggiare uno dei nomi indiscussi della storia dell’arte mondiale. Il documentario prende le mosse dalla retrospettiva inaugurata al British Museum nel corso di quest’anno, per una presentazione esclusiva di tale allestimento. E tuttavia è solo il punto di partenza per approfondire temi e luoghi dell’arte di uno spirito eccentrico e inquieto della cultura orientale che tanto ha influito soprattutto sulla pittura francese di avanguardia, ma non solo quella, da Degas a Monet, da Seurat a Toulouse-Lautrec, da van Gogh a Gauguin. Adoratore di scene di paesaggio, senza però mai trascurare la rappresentazione dello sguardo umano immerso nei rivolgimenti del mondo – che si tratti di un quadro di vita campestre, dove intende soffermarsi sul ciclico passaggio delle stagioni, o dell’atmosfera incline al cataclisma come in La grande onda sulla costa di Kanagawa. Sui suoi ponti sospesi nel vuoto, nel mare ribollente davanti al Fuji, nei cortili delle case, ci sono sempre contadini e pescatori ritratti nel bel mezzo delle loro attività quotidiane. Panismo e intimismo di natura sono le costanti dell’intera produzione di questo straordinario ingegno, devoto ad ogni singolo aspetto della cultura del proprio paese che si prodigò a rendere nei suoi corposi cicli. Il suo nome, legato principalmente alle Cento vedute del Monte Fuji, produsse anche numerosi altri cataloghi d’immagini non meno incisivi e ricercati, quanto a temi e virtuosismo del segno. Ne sono un chiaro esempio i Cento racconti di fantasmi e Lo specchio dei poeti cinesi e giapponesi.
La ricca parabola creativa dell’uomo, durata circa settant’anni, ha consolidato attorno a lui un’aura leggendaria, grazie anche ad alcune incredibili performance di cui si rese protagonista, come l’esecuzione in pubblico di un manifesto raffigurante il volto di un Bodhidarma gigante (duecento metri quadrati di carta dipinta con un pennello fabbricato con cinque balle di riso). Scavare nel cammino artistico di Hokusai significa avvicinare un pezzo importantissimo dell’anima giapponese elaborato da una tra le personalità più prolifiche ed esorbitanti che si siano affacciate in quel panorama culturale.





Hokusai dal British Museum - Nexo Digital

Quando: dal 25 al 27 settembre nelle sale italiane


Save the 
date! 

















Mostra di Palazzo Reale, Milano, 
settembre 2016 - gennaio 2017


(Di Claudia Ciardi)


Segnalazioni:



Una scuola di memoria attiva.














Festival delle culture di montagna presso Borgata Paraloup (Cuneo), con la Fondazione Nuto Revelli.
Dal 29 all1 ottobre. Dibattiti su arte e architettura. Inaugurazione delle mostre darte venerdì 29 settembre. 
Incontro-dibattito  sulla genesi dei miei disegni delle Alpi Apuane e la composizione dei cosiddetti Taccuini giapponesi, accompagnato da una lettura in anteprima del mio poema inedito 
Un nodo infinito
domenica 1 ottobre.  

     

6 settembre 2017

Lenbachhaus



All'ingresso del Lenbachhaus


In una tappa a Monaco di Baviera non si può omettere una visita al Lenbachhaus in Luisenstraße, uno dei santuari dell’arte contemporanea tedesca. Luogo che racchiude una memoria storica della vita culturale monacense, la sua origine si deve al pittore Franz von Lenbach (1836-1904), cui è intitolato. Sua residenza, questa graziosa villa è stata donata alla città di Monaco dalla moglie Lola nel 1924, insieme agli arredi e alle opere che vi erano state raccolte nel corso della fruttuosa carriera del marito. Dopo un lungo soggiorno in Italia e lo studio approfondito della tecnica di Tiziano, Rubens e Rembrandt, Lenbach si impose come ritrattista della borghesia cittadina del proprio tempo, ricevendo committenze importanti. A sua firma, tra gli altri, un bel quadro che cattura una Katia Pringsheim, la futura moglie di Thomas Mann, ancora bambina (1892). Aperta al pubblico nel 1929, la villa-museo subì danni piuttosto ingenti nel corso delle offensive della seconda guerra mondiale. Tuttavia, i quadri messi in salvo precedentemente furono risparmiati e il complesso, ristrutturato e ammodernato, venne riaperto nel ’47, imponendosi da quel momento in poi, grazie alle successive acquisizioni, come centro di rilevanza internazionale – fondamentale il fondo messo a disposizione nel ’57 da Gabriele Münter (1867-1962), prima compagna di Kandinskij.  
Di recente la galleria è stata nuovamente oggetto di restauri a cura dell’architetto Norman Foster, dal 2009 al 2013, periodo di forzata chiusura, ritrovando quindi il suo splendore e la completezza delle sue collezioni. Le opere del Blaue Reiter, nucleo vitale di questo polo espositivo, date in prestito per una grande mostra su Klee e Kandinskij organizzata in Svizzera, sono infatti rientrate nella sede originaria all’inizio di quest’anno. L’evento è stato festeggiato da una serie di iniziative a tema, tra cui la grande mostra Ansichten des 19. Jahrhunderts, celebrazione del ritratto umano e paesaggistico in quello strano scorcio di fine Ottocento che avrebbe voluto svincolarsi dai canoni classici, dalla “maniera impressionista” e dal realismo, ma ancora frenato da non pochi scrupoli in materia di rottura d’avanguardia. Quest’arte in bilico, che alterna vedute mozzafiato delle Alpi bavaresi, angoli cittadini e immagini sfuocate, perfino torbide, rubate all’interno degli studi pittorici tra voyerismo e mistero, è tutta volta a un dialogo ideale con le opere dell’avanguardia pura qui presenti, da Delaunay a Jawlensky, Kubin, Macke, von Verefkin, all’epoca già sdoganate e determinate a ritagliarsi un posto nella nuova storia dell’arte.
In queste stanze si ha l’occasione di passare in rassegna i bei paesaggi montani di un giovane Kandiskij, annegati in un blu visionario e sognante, perle rare di cui sfugge ogni traccia o quasi perfino nei cataloghi più blasonati, in accompagnamento alle sottigliezze di Klee, tra arabeschi acquarellati e prime virate nel suo ossessivo geometrismo astratto, fino agli esperimenti d’altri compagni di strada che aderirono alla rivoluzione annunciata da Franz Marc. Per quanto piccola, tale rassegna costituisce uno spaccato fondamentale se si vuole capire cos’è stato il Cavaliere azzurro a Monaco e per cogliere i diversi sentieri creativi imboccati dai giovanissimi ingegni che vi aderirono.
In preparazione per ottobre, con l’intento di celebrare i sessant’anni dall’importante lascito di Gabriele Münter al museo, figura centralissima, come già detto, della stagione inaugurata da Marc e compagnia, un’altra grande mostra che vuol rendere omaggio a una tra le più eclettiche e originali sibille dell’arte di allora.     

(Di Claudia Ciardi)


Catalogo:

Hajo Düchting, Der Blaue Reiter, Taschen Verlag, 2016












Ritratto di Katia Pringsheim ad opera di Franz von Lenbach



Il Lenbachhaus



Il biglietto celebrativo del "ritorno" del Cavaliere Azzurro (2017)



La mostra di prossima inaugurazione sull'opera di Gabriele Münter


* Fotografie di Claudia Ciardi ©
 
 

19 agosto 2017

Max Klinger - L'incanto della vita






Segnalo il volumetto, a mia cura, edito da Via del Vento, che racchiude alcuni pensieri salienti di Max Klinger, uno dei massimi incisori di fine Ottocento e, in generale, dell’arte moderna. Ingegno eclettico e particolarmente fecondo – nel 1893, a neppure quarant’anni, aveva già portato a termine dodici tra le sue principali raccolte grafiche – Klinger fu non solo maestro indiscusso dell’incisione, ma anche pittore, scultore, pianista, compositore. Ispiratore di Käthe Kollwitz, profondamente ammirato da un Wassily Kandinskij in cerca della sua strada nei giorni tempestosi del periodo monacense, amico di Arnold Böcklin, celebre pittore simbolista con cui condivise larga parte del proprio immaginario e del percorso artistico ad esso legato, sposato alla fascinosa Elsa Asenijeff, modella, musa, poetessa, madre della sua unica figlia, la figura di Klinger sfugge all’avanguardia storica ma deve ritenersi rispetto a questa una pietra angolare, il punto di congiunzione e rottura che ha convogliato i nuovi semi creativi verso la loro prodigiosa fioritura novecentesca.
Pur aggirandosi sulla riva selvaggia del sogno, dell’erotismo e dell’archetipo mitologico, il narrare klingeriano non si veste di fraseggi eruditi né scivola in astrattismi apodittici. Come già ebbe a dire Giorgio de Chirico, altro grande adepto, tutto in lui è estremamente chiaro, tangibile, reale.
Le fantasticherie, gli adattamenti delle storie mitiche spesso discordi, quando non apertamente anarchici, rispetto alla tradizione, peraltro scoprendo un culto spropositato per Ovidio, precorrono la via surrealista senza tuttavia fare atto di fede. Klinger presiede a una vasta porzione di quelli che saranno gli sviluppi dell’arte nel primo Novecento, ma avvicinarlo a una sola di queste correnti sarebbe togliere forza e completezza al suo cosmo creativo.
In un panorama bibliografico piuttosto povero – una traduzione integrale un po’ datata del suo unico trattato, Pittura e disegno, e pochi cataloghi, fra i quali uno molto buono a cura della Triennale Europea dell’Incisione ma funestato da troppi errori di stampa e di cui sarebbe quindi auspicabile una revisione – l’opera di Via del Vento ha il merito di raccogliere i passaggi che più illuminano la visione artistica di questo interprete, in un volumetto che si offre come pratica e agile introduzione a un personaggio sorprendente.


a cura e con traduzione di Claudia Ciardi,
Via del Vento edizioni, 2016


Tra le raffinate spigolature bibliografiche di Giorgio Bonomi nella rivista d’arte contemporanea «Titolo», edita da Rubbettino, la segnalazione del mio Max Klinger (numero 14, estate-autunno 2017). 






Su «Libero» una bella recensione uscita il 5 febbraio 2017 a firma Mario Bernardi Guardi.

Sul sito «Toscana, Eventi & News» un bellarticolo di approfondimento su questa pubblicazione. 







20 marzo 2017

Letture di marzo


Proposte di lettura a partire dallIndice dei libri di marzo




In apertura una riflessione sui tre livelli dell’editoria. Il cartaceo, che qualcuno dava per morto e sepolto già anni fa, è ormai obbligato a dialogare strettamente tra digitale e social (dagli estratti postati su facebook all’esperienza di microblogging di twitter, passando per instagram ecc…). Un ruolo che si configura sempre più come subalterno. Ma non è detto: la partita è ancora aperta. Di certo però la convivenza non è proprio pacifica, specie riguardo le regole circa la diffusione e la censura dei materiali. Se a dettar legge in materia diventa uno dei boss dei maggiori social network, il mercato editoriale rischia di tirare laddove il social decide, magari in rapporto alle sue campagne di marketing. Si pone inoltre un problema per così dire filosofico. La fruizione del testo, che nelle stanze di internet procede inevitabilmente per estratti, sunti, passi salienti commentati a grandi linee o più spesso incollati in citazioni veloci, rischia non solo la deportazione forzata del senso e dei singoli contesti ma anche l’appiattimento in una dimensione temporale scandita dalla fretta. E ciò poco e nulla ha a che fare con la natura posata, profonda, cronologicamente estesa della letterarietà. Vale la pena tornare a un celebre passo di Todorov, all’interno del suo saggio La letteratura in pericolo, in cui si delinea la lentezza con la quale ciò che è scrittura, creatività letteraria – e per la parola poetica il discorso è ancor più refrattario alle fughe odierne – penetra lo spirito umano, affermando la propria verità in scia al consenso che le diverse generazioni le accordano.



Todorov, La letteratura in pericolo

  
La casa editrice L’Orma ripropone una cronaca dell’esperienza del festival dei poeti a Castelporziano nel giugno ’79, tra letture in versi e invasioni del palco da parte del pubblico. Esperimento della performance poetica portato alle estreme conseguenze, con qualche strascico molesto – in peggio e di molto rispetto a quella serata – che tuttora permane. Per quanto mi riguarda non sono una grande ammiratrice di azioni gestuali (e che vuol dire, poi?), mimesi letterarie con improbabili maddalene che dovrebbero inscenare non si sa bene quale provocazione artistica, in generale blandi scampoli di postavanguardia che contribuiscono soltanto allo sterminio verbale e forse anche del corpo, qui chiamato in causa quasi sempre a sproposito. E si torna al buon vecchio Todorov, al compito quasi sacrale di spender tempo sui testi, girando al largo da imbarazzanti surrogati e abbattendo le inutili impalcature che anziché sorreggere, accompagnarne il senso, lo nascondono alla vista. 
A Castelporziano il sovvertimento fu unico e forse spontaneo fino in fondo, non mediato da quella volontà di rappresentare a tutti i costi qualcosa, che principalmente guasta un certo tipo di esperienze. Basti mettere in campo due del calibro di William Burroughs e Allen Ginsberg, tra le voci sul palco di allora, per fugare ogni dubbio di inautenticità.




Il genio di Johann Joachim Winckelmann fotografato nella monumentale pubblicazione delle sue lettere romane, edite dallIstituto italiano di studi germanici. Personaggio chiave all’interno di quel filone che vede il tedesco colto trasferirsi per un periodo più o meno lungo della sua vita nella capitale italiana, Winckelmann diviene qui protagonista di una stagione turbolenta e affascinante, tra sogni piranesiani e spionaggio antiquario. Gli scavi illegali erano all’ordine del giorno, così come i tentativi di trafugare pezzi rari e unici dai siti. Winckelmann fu guida turistica, archivista, prefetto delle antichità di Roma, pupillo prediletto del Cardinal Albani che gli schiuse la sua preziosa collezione. Grazie ad Albani poté ritagliarsi quegli spazi di libertà intellettuale necessari al suo ingegno, insofferente agli incarichi che lo sottraevano allo studio e alla ricerca. Nell’epistolario rivive non solo il grande intellettuale ma anche l’affresco di un’epoca.




Le lettere e i saggi di Louis-Ferdinand Céline, genio indiscusso della letteratura francese insieme a Proust, l’unico verso cui si sbilanciò. Non lo fece con nessun’altro. Pezzi di assoluta avventatezza caustica, tra ironia e fosco disincanto. Secondo Céline gli editori sarebbero in sostanza degli sfruttatori, “ruffiani delle meningi”, coadiuvati da una pletora di incapaci e vacanzieri. Emerge tutta la sua burrascosa amarezza per l’imbarbarimento dettato dal consumismo, lo stupro della letteratura incapace di innovarsi senza svendersi, la crescente pesantezza degli esseri umani.
Gli interventi di Pound, Miller, Borroughs che ricorda la visita a Meudon insieme a Ginsberg nel 1958, configurano l’accettazione americana senza riserve dell’autore francese.





(Selezione e commenti di Claudia Ciardi)


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