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10 dicembre 2022

Nuovi affioramenti nel Fayum

 



Quest’ultimo scorcio dell’anno sta regalando tesori affascinanti e inaspettati. Proprio qui si parlava poche settimane fa delle statuette di Tanagra, di come il loro rinvenimento sia stato la conseguenza di un gesto millenario, comunemente ripetuto, un colpo di badile che ha schiuso qualcosa che si credeva sigillato per sempre nella terra. Negli stessi giorni il nome di San Casciano dei Bagni ha fatto il giro del mondo coi suoi straordinari idoli restituiti dal fango; si sono pubblicate foto, scritte poesie, dediche, impressioni a caldo su quello che sotto gli occhi di tutti si è materializzato come un prodigio. E certo sì, l’elemento fortuito può aver giocato un suo ruolo, ma la storia dello scavo si dipana anche nei suoi aspetti di assoluta dedizione per la ricerca, per la volontà di valorizzare un territorio attraverso la scoperta, per la lungimiranza di un investimento, secondo qualcuno magari arrischiato in momenti economici complessi, ma che ha reso frutti meravigliosi.    

Infine all’inizio di dicembre si è saputo che a più di un secolo di distanza dalle vaste campagne archeologiche condotte nell’area del Fayum, si sono trovati nuovi ritratti. Tra le più importanti e meglio conservate testimonianze pittoriche del mondo antico, la scoperta è stata annunciata proprio in questi giorni dal ministero egiziano, sebbene le opere in oggetto non risultino ancora quantificate. Si tratterebbe di una serie di manufatti riconducibili a un enorme edificio funerario di epoca tolemaica e romana situato a Gerza (l’antica Filadelfia, fondata da re Tolomeo II Filadelfo nel III sec. a. C.), ottanta chilometri a sud del Cairo. Tra i ritrovamenti anche una rara statua in terracotta della dea Iside posta all’interno di un sarcofago, oltre ad un gruppo di documenti papiracei, con iscrizioni in caratteri demotici e greci circa le condizioni sociali, economiche e religiose degli abitanti della regione in quel periodo. L’area del Fayum ebbe un ruolo strategico fin dai tempi della sua fondazione, in quanto villaggio centrale all’interno del progetto di bonifica agricola attuato dalla dinastia tolemaica, con l’obiettivo di garantire fonti di cibo per il regno. Patria di egiziani, greci e romani, crocevia culturale in cui si contraevano matrimoni misti per necessità economiche ed amministrative, la sua apertura e mescolanza si riflette ampiamente nella produzione artistica. I coloni greci, la presenza più capillare in questo territorio, erano soprattutto veterani di guerra e ufficiali. Oltre ai greci, come si è detto, vi erano anche egizi, giunti in quella regione per lavorare le terre. Anche dopo la conquista della regione da parte dei romani, la popolazione restò prevalentemente composta da greci ed egizi, quindi da egizi ellenizzati. I ritratti del Fayum non sono quindi altro che i volti dei discendenti dei primi coloni greci che presero in moglie donne locali. Si può quindi affermare che tale ritrattistica, unicum nel mondo antico per la sua peculiarità, sia il risultato di una sintesi tra le usanze egizie (la mummificazione) e quelle greco-romane (il realismo della pittura). Non è un caso, infatti, che la diffusione dei ritratti coincida proprio con la dominazione romana sull’Egitto. Alcuni studiosi pongono l’accento proprio sulla similitudine tra quest’uso e quello romano, basato sulla produzione di maschere in cera dei volti dei propri cari defunti, da conservare nelle abitazioni per ragioni di culto e ornamentali.

I soggetti sono persone morte fra i trenta e i quarant’anni, anche se non mancano icone di bambini. La loro classe sociale era sicuramente elevata, in quanto far eseguire una maschera funebre era una procedura costosa, non alla portata dei ceti più bassi. Le tecniche di pittura di questi ritratti prevedevano spesso l’utilizzo di tempera e cera su assi di legno. La tavola veniva poi inserita tra le bende della mummia o sopra il sarcofago. Il volto era rappresentato frontalmente, lo sfondo monocolore, talvolta arricchito da elementi decorativi. Nel caso delle donne sono riprodotti monili di altissimo pregio (collane, orecchini, diademi).

Nel primo decennio del 2000 i ricercatori del NU-ACCESS (Northwestern University – Art Institute of Chicago Center for Scientific Studies in the Arts), diretti da Marc Walton, hanno analizzato quindici tra pezzi completi e frammenti di cosiddetti ritratti del Fayum conservati presso il Phoebe A. Hearst Museum of Anthropology (PAHMA) della University of California, Berkeley. Si tratta di un campione della serie scoperta tra il 1899 e il 1900 a Tebtunis. Questi dipinti su tavoletta lignea sono caratterizzati da colori come il giallo, il marrone, il rosso, il nero, il bianco e, a quanto pare, anche dal blu, sebbene non visibile a occhio nudo. Si pensava che per il suo altissimo costo il cosiddetto “blu egizio” fosse riservato solo al faraone e ad alti funzionari di corte. Mentre questa scoperta sembra destinata a rivoluzionare alquanto una simile affermazione. Il pigmento, infatti, in sei casi su quindici, è stato utilizzato per disegni preparatori, per modulare le ombreggiature e dare lucentezza all’insieme. Si è arrivati a questa scoperta attraverso indagini non distruttive come la Spettrofotometria XRF, la Reflectance Transformation Imaging (RTI) e la Visible Induced Luminescence (VIL). Lo studio sta proseguendo per ulteriori raffronti e risultati.

Scoperti già dal 1615 durante un viaggio in Egitto da un aristocratico romano, l’esploratore Pietro della Valle, che ne portò con sé alcuni esemplari, oggi i volti del Fayum ci osservano dai maggiori musei del mondo, tra i quali il Museo egizio del Cairo, il British Museum, il Royal Museum of Scotland, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Louvre di Parigi, la Pinacoteca di Brera di Milano, le Staatliche Kunstsammlungen di Dresda (che ospitano i primi ritrovamenti della missione compiuta da Pietro della Valle) il Landesmuseum Württemberg di Stoccarda.


(Di Claudia Ciardi)


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14 luglio 2022

Di foglie, Sibille e arte profetica

 


Giovanni Francesco Barbieri (Guercino), Sibilla Persica, 1647


La Sibilla è una donna affascinante, di status incerto, non immortale ma dotata di poteri straordinari, la cui magnetica avvenenza risiede nell’imponderabile che sprigiona la sua personalità. Donna magica scelta dal dio per avvicinare la sua parola a quella degli esseri umani, donna eletta a presiedere un oracolo, in latino oraculum, ossia il responso uscito dalla bocca della divinità debitamente consultata attraverso i suoi messaggeri, poi anche il luogo dove questo responso viene dato; in greco χρησμός [da χράω “faccio sapere”] per il responso; χρηστήριον o anche μαντεῖον per il luogo.
I metodi della divinazione erano vari, ma per sommi capi si possono così riassumere: fonti sacre che, sgorgando dalle viscere della terra, sono in comunione con il mondo sotterraneo: il loro mormorio, l’effetto su oggetti che vi sono gettati danno il responso; alberi sacri, che “parlano” attraverso il fruscio del fogliame agitato dal vento – celebri a questo proposito le querce del santuario di Dodona nell’Epiro, e ancora la quercia da cui gli antichi lituani traevano responsi per bocca del capo supremo del sacerdozio, situata nel centro di un sacro recinto, e le foglie attraverso le quali si spargeva a Cuma la sentenza della Sibilla (ce lo riferisce anche Dante in una celebre similitudine della Commedia, «così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla», Paradiso, XXXIII, vv. 65-66); caverne sacre, immaginate in comunicazione con il mondo sotterraneo – i luoghi dove per l’appunto solevano esprimersi le profetesse; i dadi gettati sopra una tavola appositamente segnata; il fuoco, a seconda della direzione della fiamma, del fumo, degli effetti su pelli o altri oggetti posti a bruciare; le anime dei morti, evocate con sacrifici speciali presso la loro tomba; l’incubazione, praticata oltre che nei santuari di Esculapio e nei Serapei, anche in alcune sedi oracolari. Le parole stesse dell’indovina volavano come foglie al vento e spesso non erano comprensibili: infatti c’erano sacerdoti preposti alla traduzione del responso (da qui si capisce l’uso dell’aggettivo “sibillino” che allude a qualcosa di criptico).
In un interessante documentario realizzato nel 2018 che ha il suo centro elettivo e sacro nei Monti Sibillini si ricostruisce la storia fra leggenda, arte e letteratura di queste creature. Un gruppo di speleologi dell’università di Camerino ha organizzato una spedizione sulla sommità del monte Sibilla dove si presume abitasse la cosiddetta Sibilla appenninica, la meno nota nel presunto canone delle indovine, ma proprio in virtù della sua “non ufficialità” la più misteriosa e potente.
La squadra ha inteso procedere a una serie di saggi del sito per verificarne le condizioni, che si sono rivelate alquanto compromesse, tra incuria e crolli. E tuttavia, per un’analisi più approfondita e rivelatrice, è stato programmato uno scavo archeologico nell’auspicio che riaffiorino tracce di una frequentazione antropica ad avvalorare il mito.
Da Ovidio (Metamorfosi, libro XIV, vv. 101-154) apprendiamo la storia della Sibilla Cumana, che profetizzava nell’area vulcanica dei Campi Flegrei; pochi versi in cui la donna racconta della sua ingenuità di fanciulla e di come si trovi imprigionata in un ruolo non consapevolmente scelto. L’intento ovidiano non è celebrare Roma attraverso la figura della Sibilla, come invece fa Virgilio nell’Eneide. Il poeta di Sulmona ci parla di una trasformazione umana, pur prendendo le mosse dal medesimo contesto virgiliano: Enea è appena approdato sulle sabbiose spiagge meridionali del golfo di Gaeta, non lontano da Cuma, e si dirige verso l’antro della Sibilla che ha settecento anni. La donna, essendo proprio la sua femminilità che qui si vuole ritrarre, racconta del momento dell
“investitura” quale messaggera dell’oracolo e, da questo ricordo che sfuma nel tempo del mito, si apprende la storia molto singolare di una giovane che rimane intrappolata in una dimensione di vita sospesa tra umano e divino. Apollo la vide e se ne innamorò, ma lei lo rifiutò e il dio, per convincerla a cedere, le chiese di esprimere un desiderio: qualsiasi cosa avesse voluto lui l’avrebbe concessa. E così la giovane raccolse da terra un pugno di sabbia e domandò di poter vivere tanti anni quanti erano i granelli stretti nella mano, dimenticando di chiedere che fossero anni di giovinezza. Fu così imprigionata in una vita da mortale ma allungata a tal punto da divenire insopportabile. La trasfigurazione di una donna così bella da essere amata da Apollo rappresenta per Ovidio il fulcro della vicenda. Una metamorfosi estremamente terrena quanto dolorosa. Perché il corpo della Sibilla non è fatto di essenza divina e lei stessa lo ribadisce a scanso di equivoci o di sacrileghe attribuzioni: non vuole essere venerata come una dea né onorata con incensi. La mutazione sarà completa allorché la Sibilla diventerà invisibile, ma la sua voce continuerà ad essere udita. Il suo aspetto riflette una malinconica sottomissione. Lo sguardo fisso a terra, con il capo reclinato in attesa che il dio Apollo discenda nel suo corpo, è un’immagine che Ovidio riprende dalla divinazione greca e di cui si serve per dipingere con intensità la sua Sibilla. Per quanto scarso sia il materiale iconografico superstite relativo alla Sibilla nel mondo romano, quello di epoca imperiale giunto fino a noi riprende l’immagine offerta da Ovidio di una giovane nel momento in cui si sottomette alla volontà di Apollo per farsi interprete e depositaria del suo oracolo, strumento comunicante del divino col mondo umano. È questa istantanea di una fanciulla seduta con lo sguardo rivolto a terra e con fare dimesso, nel momento che precede il vaticinio, che sembra imporsi nell’iconografia artistica augustea e post-augustea (si veda il celebre affresco di Ercolano); gli artisti accolgono quindi la versione ovidiana del mito, più umana, rispetto a quella trionfale e fiera celebrata da Virgilio e immortalata nei volti incisi sulla numismatica repubblicana.
Tutte le culture antiche hanno sempre attribuito alla donna una innata capacità profetica. Si pensava che per sua natura fosse protesa verso il mistero. Risiedevano in luoghi remoti fra l’Asia minore e le coste del Mediterraneo. Varrone, nel I secolo a. C., stilò un elenco di dieci, delle quali la più famosa era la Pizia, portavoce di Apollo a Delfi. Nel mondo romano la Sibilla tiburtina operante a Tivoli (l’antica Tibur) riscuoteva particolare successo. Da alcuni documenti sembrerebbe collegata a quella appenninica, addirittura una fonte dice che la divinatrice dell’Aniene si sarebbe trasferita sui monti – resta a vedere se si tratti dei vicini Appennini o se sia un riferimento ai rilievi marchigiani. In questo secondo caso si avallerebbe una loro identificazione.
Nel citato documentario vengono mostrati alcuni ambienti straordinari che raccolgono le testimonianze del sacro dalle culture italiche all’epoca romana e medioevale. Il Museo di Gubbio a Palazzo dei Consoli con le sue tavole eugubine contenenti le norme dei rituali pubblici pre-romani (nel filmato il professor Ancillotti ce ne legge un passo in osco-umbro), e che fra le altre meraviglie vanta una spettacolare sala di cosiddetti
Crocifissi blu e una straordinaria collezione di gocciolatoi romani; uno scrigno tra i più luminosi in Italia. Quindi siamo accompagnati all’interno del Duomo di Piacenza, in quello di Spoleto, nella pinacoteca di Ascoli Piceno; luoghi che nella pubblicistica d’arte vengono quasi “dimenticati”, che godono di scarsissima attenzione mediatica. Eppure, quali abbaglianti tesori hanno in serbo.
Purtroppo nel 2016, con il terremoto di Marche, Umbria e Lazio, un enorme patrimonio artistico diffuso sulle pendici appenniniche del versante adriatico e tirrenico è stato distrutto o severamente danneggiato. Molte delle case crollate avevano al loro interno decorazioni, pitture, rilievi, stucchi legati all’immaginario sibillino. Queste testimonianze non esistono più. L’anno precedente sulle montagne era stata avvistata un’ombra, un profilo femminile che sembrava urlasse – a voler credere alla leggenda, e chi si avventura lassù non può astenersi dal farlo, la Sibilla, Musa presaga potentissima, aveva manifestato tutto il suo dolore. I recuperi hanno fatto tornare in vita 16.000 opere fra cui il Santuario della Madonna dell’Ambro, fulcro della comunità sibillina. All’interno sono raffigurate dodici Sibille (lo stesso numero degli Apostoli) ritratte all’inizio del Seicento da Martino Bonfini. La Cappella della Madonna, dove sono effigiati i volti, miracolosamente non ha subito gli effetti del sisma.
Ed è questa anche una storia letteraria e di imprese editoriali, desiderando portare il discorso su un tema che ci è particolarmente caro nel fertile intreccio fra immagine e parola scritta. Dal Guerrin Meschino, vero e proprio bestseller del medioevo, racconto delle imprese cavalleresche di Guerrino che venne accolto nel regno della Sibilla appenninica – la narrazione contribuì a far conoscere universalmente questa figura mitologica – al libro di viaggio del francese Antoine de La Sale, che più o meno nello stesso periodo delle avventure del suo alter ego letterario, si incamminò alla ricerca della grotta profetica.  E non meno rilevante la personalità di Cecco d’Ascoli, poeta, medico, insegnante, alchimista, astrologo, condannato a Firenze dalla Chiesa nel 1327 per la sua frequentazione di Montemonaco e del lago di Pilato nei Sibillini, a quanto sembra prendendo parte in loco a pratiche di negromanzia.
Sibilla è colei che porta il libro sacro. Non è un soggetto facile per i pittori, non esistendo un modello vero e proprio cui ispirarsi. In quanto legata a un immaginario orientale, indossa solitamente dei copricapi simili a turbanti. L’iconografia più diffusa la ritrae un po’ malinconica, secondo lo spunto ovidiano che si diceva all’inizio, nell’atto di scrivere o di stringere a sé il gran tomo delle profezie. Con l’umanesimo si inaugura una stagione all’insegna di una sintesi tra pensiero pagano e cristiano. Il primo ad aver dato forma visiva a questo connubio è stato Michelangelo nella Cappella Sistina, anche in ciò rivoluzionario. Da lui in poi infatti l’associazione Sibille-Profeti viene largamente imitata, in una reinterpretazione cristiana del personaggio mitico in qualità di messaggera che prefigura la venuta di Cristo.
La carica simbolica di questa storia sembra ancora assai vitale. Quando la si avvicina, la corrente di mistero che ne sgorga ha tuttora il potere di affascinare e attrarre. Per incontrarla, perché lei lasci entrare nel suo regno, bisogna avere nobiltà d
animo. Secondo alcuni interpreti il fatto che la grotta sui Sibillini sia al momento rinserrata, sta a significare che la nostra non è unepoca di cavalieri. Eppure fa riflettere che nell’imperante materialismo in cui siamo immersi, questa presenza così umbratile e sfuggente si imponga, anche solo nel suo arcano riflesso, con assai più forza di tante altre patinate e stridule sirene.

(Di Claudia Ciardi)

 

Documentario:

La Sibilla tra leggenda e realtà, Sydonia Production, 2018

Qui il trailer su youtube

 

La Sibilla Delfica di Michelangelo con la sua splendida veste verde acqua-
verde muschio,1508-1510 circa


13 giugno 2022

Wunderkammer

 



Fate di un museo un reame somigliante a una Wunderkammer e io me ne innamorerò perdutamente. Alla fin fine l’idea di collezionare e conservare è nata in questi luoghi eccentrici, quindi il fatto di riportare qualcosa dalle stanze della meraviglia alle nostre ordinate sale non sarebbe poi così illogico. La passata attitudine a riunire oggetti secondo simbologie estetiche, richiami misterici, puro desiderio di ricerca, in un dialogo serrato fra suggestione magica e inclinazione scientifica, è peraltro di un’attualità stupefacente.
Nel riflettere una caratteristica innata dell’essere umano, vale a dire la curiosità e la voglia di compenetrare ogni ambito del sapere, di cui l’accumulazione degli oggetti è un segno tangibile proprio perché non si esaurisce né soddisfa mai completamente se stessa, la Wunderkammer sembrerebbe oggi riportare in auge il suo messaggio. Tanto più che di uno sguardo meravigliato sulle cose abbiamo davvero un bisogno vitale.
Tessere trame fra culture e immaginari diversi può consegnarci chiavi di lettura inedite. E ancora, può liberarci da una mentalità selettiva e iper specialistica che non raramente ci ha relegati in meccanismi autoreferenziali, dai quali finiamo per guardare con sospetto ogni avvicinamento tra zone del sapere considerate discontinue in modo aprioristico.
Il documentario di Francesco Invernizzi ricostruisce il sentimento della meraviglia nello spazio e nel tempo, e ci offre un filmato che appare come una dimora fatata dove si snodano percorsi quasi impossibili fra antico e moderno. E in una storia ai limiti del possibile (e del pensabile), come avviene ad ogni ingresso che ci si appresta a varcare, non poteva non aspettarci un’epigrafe: «Tutto ciò che è ignoto si immagina pieno di meraviglie» (Tacito). Che bello, la voce di uno storico romano – e non uno a caso, perché Tacito in quanto autore della Germania si era soffermato proprio su quel mondo nordico le cui immaginazioni sono alla base delle meravigliose stanze qui aperte. Una storia che mischia fantasia e visione politica e che irradia dal centro Europa fra XVI e XVII secolo.
Moda, ricerca, fasto, affermazione di potenza; ricordiamo che le Wunderkammern più opulente erano appannaggio dei ceti più che aristocratici, dei reali addirittura. In Italia fra le maggiormente sfarzose si ricordano quelle realizzate dai Medici, collezionisti che non è esagerato definire compulsivi. Poi, sempre in zona podio per estensione e ricchezza, ci sono le collezioni di Alberto di Baviera, di Rodolfo e Ferdinando d’Asburgo, quest
ultima ancora oggi visitabile a Vienna.
Un luogo di piacere che prepara la mente a incontri surreali, con le proprie ombre e le scene d’inconfessabili sogni, quindi anche sede di malintesi e contraddizioni. La mescolanza come vera ratio, come chiave di lettura adattabile, soggetta a continua metamorfosi. L’accostamento fra oggetti di vario tipo, naturali, archeologici, esotici, inventati dà origine a narrazioni del tutto fuori dai canoni, che permette di gettare lo sguardo su mondi altri e lontani, superando il filone unico e limitato del collezionismo di reliquie predominante nel Medioevo. Si tratta anche di un lungo racconto affidato a una fitta selva di cataloghi, perché in moltissimi casi le stanze originali sono andate perdute e l’unico modo per recuperarne una presenza storica è tuffarsi in queste mirabolanti pubblicazioni, fatte di tavole minuziose, disegni raffinati, evocazioni di atmosfere fuggevoli ed effimere presenze.
In questo affascinante resoconto le voci di eccentrici appassionati, moderni realizzatori di Wunderkammern, si alternano a quelle dei curatori museali (dal Mudec al Poldi Pezzoli di Milano, alla Tate Modern di Londra). In aggiunta, mi piace menzionare anche la GAM di Torino, la cui nuova direzione ha rivoluzionato tutto e cambiato gli allestimenti, valorizzando gli splendidi depositi relegati nei magazzini. Il frutto è una sala di mostre temporanee, battezzata in modo emblematico Wunderkammer, che dà spazio a ciò che altrimenti resterebbe confinato nelle segrete. Un
idea espositiva che attinge a un preciso concetto darte: fare largo alla bellezza senza porsi limiti, osare, creare nessi fra cose dimenticate alla vista.
Spunti, temi, diramazioni, deviazioni che scaturiscono da un elemento congenito all’umano, qual è il desiderio di conoscere. Dunque, musei dell’insolito. O non è forse l’insolito a costituire la vera ossatura di un museo? In effetti, non vi è ordine che prima non sia passato per un magnifico disordine, non c’è bellezza che non sia il frutto di un’affollata ricerca tra armonie dissonanti. Le Wunderkammern rovesciano continuamente il gioco dell’arte, spingono le regole fino a farle stridere… ma alla fantasia nulla è proibito.
Meraviglia, performatività, collasso, incredulità e contraddizione, sono questi i punti cardinali in cui nei secoli si sono creati tali ambienti
così nella sintesi di Andrea Lissoni, curatore alla Tate Gallery di Londra. E non sono forse le nostre stesse collezioni digitali, costruite sull’assemblaggio di immagini, una sorta di Wunderkammer ispirata dai cortocircuiti che ci mette davanti la navigazione in rete? Un gioco inesauribile, a quanto sembra, perché sta tutto dentro la mente umana e lì si rigenera, traendo nuova linfa, in base ai tempi e alle mode.   


(Di Claudia Ciardi)

 


Francesco Invernizzi, Wunderkammer - Le stanze della meraviglia
Magnitudo film, 2017
Durata 83 minuti









La stanza delle meraviglie - Palermo




Arte sommersa - Dalla mia bacheca
«Vissi darte»
 
 

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