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28 dicembre 2022

L'indispensabile difesa della spiritualità

 



Sono tempi non facili. Siamo in preda a ogni genere di contraddizione, il che in un processo dialettico sano di crescita e confronto andrebbe anche bene, ma nel nostro caso non riusciamo a comporre le opposizioni concettuali che ci investono. Quando si espongono con rigore idee e progetti, pacatamente argomentando punto per punto, e di contro si levano cori scomposti, è evidente la lacerazione che attraversa il nostro tempo. Anche una festività simbolo di amore, unione, affetto diventa terreno di scontro, viene attaccata, strattonata. Povera bellezza, povera arte, povera nascita.

Intanto capita di leggere con sempre più frequenza messaggi di persone disorientate, abbattute, nella migliore delle ipotesi stanche. Rabbia e frustrazione si riversano in sfoghi che molto ci dicono del degrado sociale. Se ci si mette in viaggio, la povertà diviene tangibile, una condizione che si attraversa, si tocca con mano. I tre anni di guerra – dal covid, alle restrizioni senza fine, al conflitto scoppiato lo scorso febbraio – hanno procurato dissesti e aumentato a dismisura il divario. E quanto più responsabilmente occorre allora porci nei confronti di chi si aspetterebbe chiarezza e rassicurazioni dai propri rappresentanti. Ma tant’è. Nonostante ci arrivino avvisi quotidiani su come affrontare la crisi energetica, non abbiamo rimandato il cambio dell’ora e non ci siamo fatti mancare le luminarie (e le ruote panoramiche e le facciate pirotecniche con tanto di proiezioni; allora perché quotidianamente richiamare scenari apocalittici, catastrofi da disconnessione energetica? Delle due l’una).
Festeggiare era giusto, certo ancor più dopo le chiusure. Eppure il luccichio fra un così esteso disagio esistenziale e le bombe che piovono da mesi, somiglia piuttosto a una macumba da idolatri. Questo inabissamento avrà comunque una fine. Il congelamento, la snervante palude che per moltissimi inchioda aspettative e possibilità, muterà in una stagione diversa. Bisogna aver fiducia, tale è l’avvicendarsi delle umane cose. Ecco che indispensabile diviene proprio la difesa della spiritualità in ogni sua forma, nella poesia, nel sentire e sostenere l’altro, nell’aprire vie nuove, veramente inclusive e in grado di riscattare chi è relegato ai margini.

Gli attacchi cui abbiamo assistito negli ultimi giorni, volti a screditare questa intima e sacrosanta tregua, e sistematicamente tutti coloro che se ne fanno difensori, ci attestano lo sbandamento al quale finiamo per soggiacere. Attacchi strumentali e faziosi che nel caso degli enti culturali non tengono conto delle grandi difficoltà in fase pandemica. Mentre si tace di ciò, passa il concetto che l’apertura in un giorno festivo scacci via come per incanto ogni genere di problema strutturale e organizzativo. È la mentalità dei nostri tempi: il sensazionalismo, la polemica continua, il colpo scenico per nascondere la sostanza. Ma noi sappiamo chi ha il cuore dalla parte giusta.

Quanto a questa mia avventura letteraria vorrei dire tante cose. Ci sono certo, prima di tutto, i ringraziamenti a chi mi ha seguita, la gratitudine che mi avete sempre dimostrato con continuità e convinzione, l’affetto che ho percepito attraverso i vostri messaggi, i complimenti che mi avete rivolto negli anni. E poi il pensiero va ai sodalizi inaspettati, alle collaborazioni che si sono avviate, alcune davvero impensabili; incontri proficui per cui posso dire che il dibattito aperto sui nuovi media è solo agli inizi, e sì, questi mezzi sono in grado di produrre ricadute concrete. Almeno nel mio caso, alcune vi sono state.

Tuttavia, è anche importante non porre e proporre tali vie come salvifiche e sostitutive. D’altra parte questi spazi digitali richiedono molto lavoro (e tempo) e una preparazione non improvvisata, se si vogliono davvero produrre contenuti di qualità. E assorbono tante energie. Quindi, certi modelli trionfali elevati a esempi carismatici come fossero sbocciati dal nulla, sono fuorvianti, per i giovani soprattutto. Non si tratta mai di qualcosa che è uscito all’improvviso dal cilindro. Nei casi più eclatanti ci sono a monte campagne pubblicistiche a tappeto e meccanismi che favoriscono la visibilità di certi nomi e contenuti. Lo dico senza intento polemico, solo per riportare le cose alle giuste proporzioni. Per onestà intellettuale, dovuta, lo ripeto, alle generazioni più giovani che rischiano di vivere delle stagioni assai grame, oltretutto infliggendosi sensi di colpa laddove non riusciranno a spiegare i loro insuccessi. (Ragazzi, non datevi colpe: reagite!)

Per quanto mi riguarda sono felice del cammino fatto insieme. «Margini in/versi» raccoglie più di quattrocento articoli scritti nell’arco di dieci anni, in parallelo alle mie attività di studio e ricerca e al lavoro editoriale. L’archivio resta liberamente consultabile e disponibile al pubblico. Non si interromperà inoltre l’aggiornamento delle parti che riguardano la mia scrittura e i progetti avviati nell’ultimo periodo.
Non è per stanchezza che ho maturato tale scelta. Il contrario, semmai. Lo faccio consciamente in un periodo creativo, di apertura, ora che con maggior lucidità riesco a valutare il mio percorso. Le cose che intendevo divulgare sembrano giunte a maturazione. Desiderano adesso traghettarsi altrove, perché quel che si è fatto finora acquisti altra vita, rivelandosi in altre nascite.
Infine, i numeri sono tutti in perfetta armonia – almeno nella mia testa lo sono, anche se non pretendo che questo discorso sia compreso; la mia mente talora divaga in piena estatica contemplazione. Però, ritenendomi una discepola di Leonardo Fibonacci, che con me condivide per l’appunto i natali, la cosa non è di secondaria importanza. L’aurea proporzione che presiede alle idee, ispirando e preparando gli incontri, fa parte di quel sacro che, si diceva all’inizio, è essenziale, ancor più adesso, custodire con ogni energia e coltivare in sé.

Prosegue la manutenzione ordinaria del blog, nonché, come detto, l’inserimento delle nuove pubblicazioni (e degli eventi correlati) nelle rubriche dedicate ai miei libri, oltre alla segnalazione dei rimandi agli studi sui rapporti fra scrittura e linguaggio figurativo.
Qui:

I miei libri

Vissi d'arte

Scrittura e pittura nel segno di Paula Modersohn-Becker

Si procede inoltre sul mio sito:  

https://www.claudiaciardi.net/

 
Richiamo in particolare, per contiguità e filiazione con la rubrica "Vissi d
arte", la pagina interna dedicata al potere curativo della creatività e dei frutti da questa generati:

Arte taumaturga

Quindi la sezione sul valore dei libri negli itinerari
artistici, in quanto strumenti imprescindibili di accompagnamento nella conoscenza delle opere. Il libro come oggetto darte, come "spazio" per larte, ed evidentemente come presenza nella storia editoriale legata a questa materia e ai suoi protagonisti:

*
Ad ogni libro la sua Sibilla. Storie di libri darte e nellarte. To every book its Sibyl. Stories of books about art and in art.

Imago mundi (libri d'arte, libri nell'arte)

Grazie, grazie, grazie di cuore a tutti voi che vi siete soffermati in questo luogo. Mi è capitato di sentirvi mentre leggevate. È stato bello sentirvi. E sarà bello continuare in altre forme.

(Di Claudia Ciardi)



Sacra ora dei monti

 

Musica e navigazione, le due dimensioni che mi hanno accompagnata per tutto il 2022. 
Il libro di Hermann Broch mi è caduto sulle ginocchia alla fine di quest'anno, una sorprendente materializzazione.






 

Serie di Fibonacci - Spirale aurea della conchiglia Nautilus, uno dei pezzi più ricercati per l'allestimento di una Wunderkammer.


10 dicembre 2022

Nuovi affioramenti nel Fayum

 



Quest’ultimo scorcio dell’anno sta regalando tesori affascinanti e inaspettati. Proprio qui si parlava poche settimane fa delle statuette di Tanagra, di come il loro rinvenimento sia stato la conseguenza di un gesto millenario, comunemente ripetuto, un colpo di badile che ha schiuso qualcosa che si credeva sigillato per sempre nella terra. Negli stessi giorni il nome di San Casciano dei Bagni ha fatto il giro del mondo coi suoi straordinari idoli restituiti dal fango; si sono pubblicate foto, scritte poesie, dediche, impressioni a caldo su quello che sotto gli occhi di tutti si è materializzato come un prodigio. E certo sì, l’elemento fortuito può aver giocato un suo ruolo, ma la storia dello scavo si dipana anche nei suoi aspetti di assoluta dedizione per la ricerca, per la volontà di valorizzare un territorio attraverso la scoperta, per la lungimiranza di un investimento, secondo qualcuno magari arrischiato in momenti economici complessi, ma che ha reso frutti meravigliosi.    

Infine all’inizio di dicembre si è saputo che a più di un secolo di distanza dalle vaste campagne archeologiche condotte nell’area del Fayum, si sono trovati nuovi ritratti. Tra le più importanti e meglio conservate testimonianze pittoriche del mondo antico, la scoperta è stata annunciata proprio in questi giorni dal ministero egiziano, sebbene le opere in oggetto non risultino ancora quantificate. Si tratterebbe di una serie di manufatti riconducibili a un enorme edificio funerario di epoca tolemaica e romana situato a Gerza (l’antica Filadelfia, fondata da re Tolomeo II Filadelfo nel III sec. a. C.), ottanta chilometri a sud del Cairo. Tra i ritrovamenti anche una rara statua in terracotta della dea Iside posta all’interno di un sarcofago, oltre ad un gruppo di documenti papiracei, con iscrizioni in caratteri demotici e greci circa le condizioni sociali, economiche e religiose degli abitanti della regione in quel periodo. L’area del Fayum ebbe un ruolo strategico fin dai tempi della sua fondazione, in quanto villaggio centrale all’interno del progetto di bonifica agricola attuato dalla dinastia tolemaica, con l’obiettivo di garantire fonti di cibo per il regno. Patria di egiziani, greci e romani, crocevia culturale in cui si contraevano matrimoni misti per necessità economiche ed amministrative, la sua apertura e mescolanza si riflette ampiamente nella produzione artistica. I coloni greci, la presenza più capillare in questo territorio, erano soprattutto veterani di guerra e ufficiali. Oltre ai greci, come si è detto, vi erano anche egizi, giunti in quella regione per lavorare le terre. Anche dopo la conquista della regione da parte dei romani, la popolazione restò prevalentemente composta da greci ed egizi, quindi da egizi ellenizzati. I ritratti del Fayum non sono quindi altro che i volti dei discendenti dei primi coloni greci che presero in moglie donne locali. Si può quindi affermare che tale ritrattistica, unicum nel mondo antico per la sua peculiarità, sia il risultato di una sintesi tra le usanze egizie (la mummificazione) e quelle greco-romane (il realismo della pittura). Non è un caso, infatti, che la diffusione dei ritratti coincida proprio con la dominazione romana sull’Egitto. Alcuni studiosi pongono l’accento proprio sulla similitudine tra quest’uso e quello romano, basato sulla produzione di maschere in cera dei volti dei propri cari defunti, da conservare nelle abitazioni per ragioni di culto e ornamentali.

I soggetti sono persone morte fra i trenta e i quarant’anni, anche se non mancano icone di bambini. La loro classe sociale era sicuramente elevata, in quanto far eseguire una maschera funebre era una procedura costosa, non alla portata dei ceti più bassi. Le tecniche di pittura di questi ritratti prevedevano spesso l’utilizzo di tempera e cera su assi di legno. La tavola veniva poi inserita tra le bende della mummia o sopra il sarcofago. Il volto era rappresentato frontalmente, lo sfondo monocolore, talvolta arricchito da elementi decorativi. Nel caso delle donne sono riprodotti monili di altissimo pregio (collane, orecchini, diademi).

Nel primo decennio del 2000 i ricercatori del NU-ACCESS (Northwestern University – Art Institute of Chicago Center for Scientific Studies in the Arts), diretti da Marc Walton, hanno analizzato quindici tra pezzi completi e frammenti di cosiddetti ritratti del Fayum conservati presso il Phoebe A. Hearst Museum of Anthropology (PAHMA) della University of California, Berkeley. Si tratta di un campione della serie scoperta tra il 1899 e il 1900 a Tebtunis. Questi dipinti su tavoletta lignea sono caratterizzati da colori come il giallo, il marrone, il rosso, il nero, il bianco e, a quanto pare, anche dal blu, sebbene non visibile a occhio nudo. Si pensava che per il suo altissimo costo il cosiddetto “blu egizio” fosse riservato solo al faraone e ad alti funzionari di corte. Mentre questa scoperta sembra destinata a rivoluzionare alquanto una simile affermazione. Il pigmento, infatti, in sei casi su quindici, è stato utilizzato per disegni preparatori, per modulare le ombreggiature e dare lucentezza all’insieme. Si è arrivati a questa scoperta attraverso indagini non distruttive come la Spettrofotometria XRF, la Reflectance Transformation Imaging (RTI) e la Visible Induced Luminescence (VIL). Lo studio sta proseguendo per ulteriori raffronti e risultati.

Scoperti già dal 1615 durante un viaggio in Egitto da un aristocratico romano, l’esploratore Pietro della Valle, che ne portò con sé alcuni esemplari, oggi i volti del Fayum ci osservano dai maggiori musei del mondo, tra i quali il Museo egizio del Cairo, il British Museum, il Royal Museum of Scotland, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Louvre di Parigi, la Pinacoteca di Brera di Milano, le Staatliche Kunstsammlungen di Dresda (che ospitano i primi ritrovamenti della missione compiuta da Pietro della Valle) il Landesmuseum Württemberg di Stoccarda.


(Di Claudia Ciardi)


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