30 luglio 2012

Generazioni e conflitti


Generazioni e conflitti
Generationen und Konflikte


Disoccupati e quadri superiori, commercianti e insegnanti: i manifestanti contro Vladimir Putin
non possono essere racchiusi in una sola categoria
(di Alexander Bikbov)

«In un prossimo futuro, la classe media dovrà diventare una maggioranza sociale», preannunciava Vladimir Putin il 29 febbraio 2012, poco prima di essere rieletto alla presidenza della Russia, mentre da tre mesi gli oppositori manifestavano in strada per denunciare elezioni segnate dalle frodi.

Tra la nomenklatura onnipotente e il proletariato marginalizzato, la classe media si è rivelata una clientela fondamentale per le riforme politiche. Fin dagli anni 1992-1993, nell’immaginario dei sostenitori di una transizione all’eden post sovietico, essa ha assunto la doppia valenza di classe stabilizzatrice, in grado di impedire i conflitti tra gruppi sociali antagonisti, e di principale sostegno al nuovo regime politico.

Da allora, un dibattito ricorrente circa la sua importanza o la sua esistenza scandisce la storia della Russia, almeno sui settimanali e alla televisione. Così, la crisi finanziaria del 1998 avrebbe ipoteticamente soppresso questa ipotetica classe, prima che l’ascesa al potere di Putin, nel 2000, ravvivasse le speranze di uno sviluppo – speranze che la crisi economica del 2008-2009 ha di nuovo rimesso in discussione. La caccia alla classe media costituisce ormai una vera passione per i media.

Le recenti mobilitazioni contro il governo le hanno dato nuovo vigore. Solo a Mosca, diverse manifestazioni hanno raccolto decine di migliaia di persone dietro a slogan come «Non ho votato per queste carogne, ho votato per altre carogne» oppure «La frode è andata bene, nessun incidente.» Le interviste fatte ai manifestanti, in generale presentati come appartenenti alle classi medie, mostrano l’estrema diversità del modo di intendere questa identità. Durante la grande manifestazione del 4 febbraio 2012 a Mosca, ad esempio, un professionista delle pubbliche relazioni dichiarava: «Spero di appartenere alla classe media, ma, francamente, ho idee molto vaghe in proposito.» Un giornalista aggiungeva: «Non so…[faccio parte di] la classe media. Ma è tanto per dire.» «È possibile, a livello puramente teorico, che noi si sia la classe media», si arrischiava, da parte sua, un traduttore, mentre un imprenditore rivendicava fermamente la sua appartenenza alla «classe media, colta, creatrice.»

Il ventaglio delle posizioni sociali di coloro che dicono di comporre questa classe sembra molto ampio. Vi si trovano quadri superiori del settore bancario, con stipendi mensili di molte decine di migliaia di euro, giornalisti e traduttori precari, insegnanti che guadagnano da 300 a 600 euro al mese, o anche il caporeparto di una fabbrica di provincia che ne guadagna appena 500. Come è possibile che individui dagli status così diversi possano riconoscersi in una stessa categoria?

L’opposizione politica definita «liberale» non è né la sola né la prima a usare la nozione di classe media, anche per definire se stessa. Il governo se ne serve nei momenti critici, o per insistere sul ruolo «stabilizzatore», o per opporla al «popolo» fedele, come nel dicembre 2011, quando i contestatori vennero ridotti a «gente col visone». Ma, fin dai primi momenti delle mobilitazioni, sono i grandi media che spiegano chi sono a dei manifestanti visibilmente perplessi per come li si definisce. «Basta: la classe media è scesa in strada», proclama Zagolovki il 7 dicembre 2011. «Gli indignati sono la nostra nuova classe media», rincara tre giorni più tardi Kosmolskaya Pravda. Nei tre mesi successivi alle elezioni legislative del dicembre 2011, il numero di articolo sulla stampa scritta russa a proposito di questa famosa «classe», è quasi raddoppiato rispetto ai tre mesi precedenti. La stampa internazionale non è da meno: «Benché sostenuta da Putin, la classe media russa si è rivolta contro di lui», scrive The New York Times (11 dicembre 2011); «Il Cremlino ha un grosso problema quando i giovani russi della classe media si impegnano in politica», osserva The Indipendent (Londra, 12 dicembre 2011).
Secondo i primi risultati della nostra inchiesta, sembrerebbe che col succedersi delle manifestazioni le persone intervistate si riconoscano sempre più in questa definizione. L’operazione mediatica ha quindi avuto successo. «Dicono che qui è la classe media che manifesta. Allora siamo noi», riflette un’impiegata del settore privato. Assistiti da esperti di ogni genere, i giornalisti hanno creato di classe che i manifestanti possono prendere in prestito per affermarsi come comunità che prende posizione pubblicamente. È una dimensione che a volte si dichiara esplicitamente: «Appartengo a una frazione inferiore della classe media – spiega una rivenditrice di prodotti elettronici, demografa di formazione. Vivo abbastanza bene, continuo a lavorare come impiegata e sono di origine molto modesta. Ma ho ricevuto un’ottima formazione, ho esigenze culturali, opinioni politiche.» «Siamo la classe media, perché qui esprimiamo liberamente le nostre posizioni», riassume un’impiegata di banca.

Ma sono soprattutto i giornalisti mobilitati, a trovare nelle manifestazioni la conferma di una realtà che loro stessi hanno prefabbricato, ignorando la diversità di condizione sociale di coloro che prendono parte ai cortei. «Classe media» diventa così una nozione che nasce da un «prêt-à-penser (pensiero pronto all’uso)» comodo per un movimento che evita di approfondire questioni sociali potenzialmente conflittuali, come l’istruzione o la sanità pubblica. Una nozione, la cui magia politica si basa sia sul potenziale di mobilitazione che sulla capacità di dissimulare differenze sociali fondamentali. Vera profezia che si autoavvera, essa rappresenta oggi la sola identità capace di far uscire i proprietari di iPad dai caffè e spingerli in strada…. 
Le Monde diplomatique – maggio 2012


                                                    Sotterranei ©
                                    Fortezza Santa Barbara - Pistoia

«Giungono donne tra le rotaie,
giù nei detriti dove non c’è esistenza
ma uno stare colpiti da ogni luogo,
davanti al ferro della casa,
un buio nel cuore dei morti
che faranno il miracolo,
che hanno voce nell’estremo vento
e chi attende è sorvegliato,
il lume che sbrana i volti
appena acceso nelle stanze.»

Roberto Carifi, Morgue



Stig Dagerman
Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario
Traduzione di Massimo Ciaravolo
A cura di Fulvio Ferrari
Titolo originale: Tysk Höst!
Casa editrice: Lindau, 2007


[Deutscher Herbst
Reiseschilderung
Suhrkamp Verlag
Erscheinungsjahr: 1987
Seiten: 119]


From the book:
«A questo mondo può essere abbastanza facile constatare convergenze di opinioni che, simili ad autostrade, attraversano tutte le classi sociali, così come da noi, in Svezia, è facile constatare la mancanza di divergenze per quanto riguarda la poesia d’avanguardia o certi problemi fiscali. Quello che conta, però, è che questa identità di vedute non contribuisce in alcun modo a cancellare le frontiere d’odio che dividono i gruppi rivali. Si è detto prima dell’odio tra contadini e abitanti delle città e dell’odio ancora più grande tra chi è stato evacuato dalla città – gente povera quanto gli abitanti delle città – e i contadini, che lo scorso autunno scambiavano ancora generi alimentari per vestiti e biancheria ma che ora, con la progressiva inflazione di vestiti che si è verificata in campagna, pretendono oro, argento e orologi in cambio di patate, uova e burro. Si è pure parlato delle differenze di classe tra i poveri e i meno poveri, delle crescenti frizioni tra profughi e residenti, e della spietata rivalità tra partiti concorrenti.
Esiste però un’ulteriore contrapposizione, forse più nefasta di ogni altra: lo scontro generazionale, il disprezzo reciproco tra giovani e persone di mezza età che precludono ai giovani l’accesso ai quadri dirigenziali dei sindacati, alla direzione dei partiti e ai corpi di funzionari nelle istituzioni democratiche.
L’assenza dei giovani dalla vita politica, sindacale e culturale non dipende solo dal fatto che chi è stato educato durante il nazismo non può essere indotto a interessarsi di compiti democratici. Nei partiti e nei sindacati i giovani si scontrano con i più anziani in un’inutile lotta per il potere, potere che i più anziani non vogliono lasciare nelle mani di quella gioventù che, dicono, è cresciuta all’ombra della svastica, e che i giovani a loro volta non desiderano affidare a una generazione considerata responsabile del crollo della vecchia democrazia. Conseguenze della sconfitta dei giovani sono la delusione e una nefasta prevenzione verso tutto quello che è attività politica democratica, sempre più giudicata una questione che riguarda i vecchi. L’aspetto più singolare di questo conflitto è tuttavia che i rappresentanti della generazione anziana sono veramente vecchi e i giovani, in molti casi, non sono più tanto giovani. Nei sindacati si assiste a una lotta senza prospettive dei trentacinquenni contro i sessantenni; gli uomini che prima del 1933 erano giovani radicali, e che non hanno cambiato opinione durante il nazismo, trovano altrettanta difficoltà a far valere le proprie idee quanto quei giovani che non hanno mai conosciuto altro che il nazismo. Non è completamente ingiustificato, almeno per certe parti della Germania, parlare di crisi dei partiti e dei sindacati, e una delle ragioni principali di questa crisi è che gli uomini del disastro del 1933 sono stati troppo veloci a prendere il timone nelle loro tremanti mani di vecchi.
La cosa più tragica durante il grande raduno nel tendone di Francoforte sul Meno, al quale ho assistito poco prima di Natale, allorché il vecchio presidente del Parlamento, il socialdemocratico Paul Löbe, ha parlato, non era dopotutto che tra le mille persone del pubblico non si riuscisse a scoprire un solo giovane; la cosa veramente tragica e spaventosa era che gli ascoltatori fossero così avanti negli anni. L’ottanta per cento dei presenti era formato da vecchi con i volti segnati dalle preoccupazioni e i sorrisi irrigiditi, venuti lì per ricordare più che per dare impulso alla battaglia per una democrazia appena nata. Questo ottanta per cento stava lì, attorno all’arena, nel rimbombo della musica della banda, e mormorava l’Internazionale; nel muto gelo che circondava le loro voci rinsecchite da un silenzio durato tredici anni, si aveva la penosa sensazione di trovarsi nel museo di una rivoluzione perduta e di una generazione altrettanto perduta. E fuori dalla tenda c’erano giovani che indicavano la strada con una frase sarcastica: Hier geht alles nach rechts! Qui si va sempre a destra.
La gioventù tedesca si trova in una situazione tragica. Va in scuole dove sono inchiodate lavagne al posto delle finestre, scuole dove non c’è niente per potere leggere o scrivere. Questa gioventù diventerà la più ignorante del mondo, ha detto il giovane dottore di Essen. Nei cortili delle scuole si contempla un panorama formato da una massa enorme di rovine, che nel peggiore dei casi devono essere utilizzate come toilettes. Gli insegnanti fanno ogni giorno prediche sull’immoralità del mercato nero, ma quando i ragazzi tornano a casa da scuola sono obbligati dalla fame propria e da quella dei genitori a uscire per le strade e cercare qualcosa da mangiare. Ne esce un tremendo conflitto, la cui irresolubilità non contribuisce certo a colmare l’abisso tra le generazioni. […]
La Germania non ha solo una generazione perduta, ne ha diverse. Si può discutere su quale sia la più perduta, ma non su quale sia la più degna di compianto. I ventenni vanno a zonzo nelle stazioni delle piccole città fino a quando fa buio, senza avere un treno o qualcos’altro da aspettare. Qui si assiste a piccoli, disperati tentativi di furto da parte di adolescenti nervosi che buttano fieramente all’indietro il ciuffo con un colpo di testa quando vengono presi, si vedono ragazzine brille che si attaccano al collo dei soldati alleati e se ne stanno quasi sdraiate sui divani delle sale d’aspetto, in compagnia di negri ubriachi. Nessuna gioventù ha mai vissuto un simile destino, dice un famoso editore tedesco in un libro scritto su questi giovani e per questi giovani. Hanno conquistato il mondo a diciotto anni, e a ventidue hanno perso tutto.
[…] L’intero popolo tedesco è malato, non solo i giovani: si è ammalato per l’inflazione, per il risarcimento dei danni di guerra, per la disoccupazione e per l’hitlerismo. È troppo per un popolo in soli venticinque anni. Noi giuristi non abbiamo ricette per la guarigione. Possiamo fare una cosa sola: cercare di applicare le attenuanti che la legge prevede, tentare di fare cadere le accuse più gravi. E siate pur convinti, signori, che noi facciamo il possibile, tutto il possibile per i giovani, ma siamo in primo luogo giuristi e secondo le condizioni della resa non possiamo rifiutarci di occuparci della denazificazione. […] E con questa intricata professione di scuse il vecchio avvocato smise di parlare. Avrebbe dovuto tenere un discorso introduttivo che, senza suscitare discussioni, lo conducesse fino a questo punto, ma non era stato capace di tenere testa all’accesa opposizione che si era abbattuta sul suo ragionamento ben costruito e l’aveva fatto a pezzi. Era affascinante osservare quell’uomo compito e raffinato che semplicemente non riusciva a opporre un normale dissenso democratico a quella gioventù esagitata. In realtà si riscontra spesso nelle generazioni più adulte un vero e proprio timore fisico dei giovani, e anche questo spiega perché gli anziani della politica trattino le nuove leve con tanta prudenza, come per mantenere una distanza di sicurezza».
1946 macht sich der junge schwedische Schriftsteller und Dichter Stig Dagerman in das vom Krieg zerstörte Deutschland auf. Seine Eindrücke und Erlebnisse hält er in Reportagen fest, die er später als "Deutscher Herbst" veröffentlicht.
Auf einer Reise durch das Deutschland der Nachkriegszeit dokumentierte der junge schwedische Schriftsteller Stig Dagerman den Alltag der Menschen in einem von Zerstörung, Hunger, Hass und Niedergeschlagenheit gezeichnetem Land. Der Dokumentarfilm "1946, Herbst in Deutschland" von Michael Gaumnitz stützt sich auf den so entstandenen Reportageband "Deutscher Herbst", den Stig Dagerman nach seiner Reise veröffentlicht hatte.
Historische Archivaufnahmen aus dem Jahr 1946 und elektronisch-grafisch bearbeitete Originalbilder zeigen die zerstörten deutschen Städte und das Elend hungernder Menschen in kalten Kellern. "Das geschieht ihnen recht!", kommentierten die Sieger. Stig Dagerman, der den Nationalsozialismus von der ersten Stunde an verurteilt hatte, sah die Dinge anders. Er prangerte die Politik der Alliierten an und verurteilte die Unmenschlichkeit unterschiedslos zugefügten Leides und die Heuchelei einer demokratischen Schocktherapie, bei der die größten nationalsozialistischen Verbrecher doch noch mit heiler Haut davonkamen.

Links:

Europa in Trümmern / Europa in Ruinen - bibliography


27 luglio 2012

Nikolaj Leskov e Walter Benjamin


Il viaggiatore incantato
Nikolaj Leskov
traduzione: Tommaso Landolfi
introduzione: Walter Benjamin
Einaudi, 1967 (1978)



Si è detto, è una riflessione di Alberto Arbasino, che il romanzo, e dunque la letteratura occidentale moderna, finisce sul corpo morto dello starec Zosima nei Fratelli Karamazov. Altri hanno parlato di una notte di ottobre ad Arzamas dove il conte Tolstoj descrive la paura di morire come “l’orrore bianco” dentro una stanza quadrata.
Nel 1873, l’anno in cui esce Il viaggiatore incantato di Nikolaj Leskov, l’arte del narrare sembra godere ancora di ottima salute. Walter Benjamin, la cui voce non casualmente viene ad avviarci alla lettura di questa storia tradotta per Einaudi con piglio vivace e ironico da Tommaso Landolfi, scrive un’apologia dell’epica del racconto ispirandosi proprio al métier di Leskov. Questo russo dalla vita e dalla penna itineranti sa raccontare in modo da non immobilizzare la spontaneità dell’actio nella forma di romanzo né impegolarla nella sua tormentata anamnesi interamente orientata dall’individualismo psicologico. Piuttosto è perfettamente in grado di restituire la semplice leggerezza della fiaba, l’improvvisazione fantastica che innesca i suoi innumerevoli cambi di scena, le sue improbabili allusioni in grado di esercitare un richiamo irresistibile sull’immaginario degli ascoltatori; come non manca di osservare il protagonista, “dopo questo tutto da noi andò in fretta come in una favola.” Ciò suggerisce qualcosa anche riguardo al ritmo della narrazione. Sulla corrente del Ladoga, vicino a S. Pietroburgo, il narratore si manifesta ai passeggeri e inizia così una fluente cronaca di viaggio e di vita, incalzata dalla curiosità dei suoi uditori.
Questo asciutto resoconto articolato tra fantasticherie e stralci di un’ipotetica realtà corre veloce come le acque di un fiume, fatalmente il señal del passaggio degli anni che si gettano all’inseguimento del giovane Ivan Fljagin fino all’inesorabile farsi largo dell’ultima stazione del cammino, o per meglio dire rêverie. Il costante avanzare del nostro perfetto novellatore che si sente dominato da una forza a lui estranea, la quale assume diverse forme, dalle visioni del monaco ucciso quando era adolescente, al potere del magnetizzatore, all’amore di Gruška, scaturisce dalla profezia annunciata all’inizio della storia, secondo cui “dovrà molte volte perire e mai perirà”.
E ogni accadimento si assimila mutevole dei fiumi o nell’impeto forsennato dei cavalli, perché proprio in questi animali è riposta la più intima e particolare comunione sensibile e visionaria del narratore incantato. Le folle selvatiche reali o sognate che scuotono la trama, simili alle genti della Scizia descritte da Erodoto o, a detta dello stesso Leskov, a quelle che popolano le favole di Eruslan e Bova Korolevič, con un richiamo scoperto ai suoi probabili modelli fantastici, le personae mythicae che non appartengono a nessun tempo e luogo ma sono ovunque e si danno dappertutto come forze motrici del racconto, ci riportano agli antichi cicli narrativi, alla peregrinatio della parola che nel passaggio dall’uno all’altro episodio è essa stessa materia dinamica, corrente che attraversa veloce le diverse sponde dell’immaginazione, e nel suo costante cambiarsi tesse le innumerevoli possibilità di un viaggio letterario altrettanto infinito.
Le affascinanti serie combinatorie che giocano la tragicommedia di Ivan Sever’janyč Fljagin sul filo del grottesco, talora affidandosi ai toni dell’elegia, come nel caso delle considerazioni sulla “malinconia senza fondo” della steppa o l’invocazione alla bella e infelice Gruška sulla riva del fiume immerso nel tramonto, rivelano la loro essenza nei contrasti visionari e paradossali che ne alimentano il vorticoso alternarsi sulla scena.
Al suono di un «pti-com-pe» un guaritore esorcizza la notte di Kursk, e Ivan scivola attratto dal magnetismo e non può arrestarsi, va via trascinato dalle formule incantatorie che il suo tempus mirabile gli recita attorno, ritualmente abbandonandosi al flusso. Così il viaggio approda all’agnizione finale, che coincide con il compiersi della profezia, nella quale non è solo il risveglio cosciente di Fljagin ma anche l’emergere di un’intelligenza ossessionata e acuta che fa presagire la perdita del mondo.
La fine dello smarrimento comporta per il viaggiatore incantato la chiarezza. Vede il suo popolo vacillare e piange, Ivan-Fljagin-Ismail, l’uomo dall’identità viandante, che sulla pace appena conquistata sente insistere nuove visioni e farsi largo la minaccia della guerra. La leggerezza e la fluida grazia che sostengono la dizione epica di Leskov improvvisamente si trovano smorzate dal confronto con una labilità ineludibile. Proprio qui, nella chiusa, si affacciano le lunghe ombre del tramonto in cui Benjamin ha visto aggirarsi il narratore. Nello stesso istante in cui l’autore solleva il velo scoprendo che pure la realtà ha un volto ostile e incerto, il racconto entra in affanno.
Dieci anni dopo, dalla bianca stanza delle Memorie di un pazzo Tolstoj sembra voler recuperare a una concretezza visionaria le angosce del Signor Fljagin. Forse Leskov non sentiva già scricchiolare qualcosa nella Grande Russia?
Il vagare senza posa del suo protagonista trova la principale sponda in un amaro sconcerto profetico, in parte riflettendo i rovesci di sorte dei singoli o di intere nazioni che al lettore più tardo non possono non evocare la prima guerra mondiale, il cui spettro pare nutrire come falda sotterranea il nero disincanto col quale si chiude il secolo del progresso.
(di Claudia Ciardi/ giugno 2010)


Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows
In: Walter Benjamin: Illuminationen. Ausgewählte Schriften 1. Frankfurt/M. 1977, S. 385-410

I. Der Erzähler - so vertraut uns der Name klingt - ist uns in seiner lebendigen Wirksamkeit keineswegs durchaus gegenwärtig. Er ist uns etwas bereits Entferntes und weiter noch sich Entfernendes. Einen Lesskow als Erzähler darstellen heißt nicht, ihn uns näher bringen, heißt vielmehr den Abstand zu ihm vergrößern. Aus einer gewissen Entfernung betrachtet gewinnen die großen einfachen Züge, die den Erzähler ausmachen, in ihm die Oberhand. Besser gesagt, sie treten an ihm in Erscheinung, wie in einem Felsen für den Beschauer, der den rechten Abstand hat und den richtigen Blickwinkel, ein Menschenhaupt oder ein Tierleib erscheinen mag. Diesen Abstand und diesen Blickwinkel schreibt uns eine Erfahrung vor, zu der wir fast täglich Gelegenheit haben. Sie sagt uns, daß es mit der Kunst des Erzählens zu Ende geht. Immer seltener wird die Begegnung mit Leuten, welche rechtschaffen etwas erzählen können. Immer häufiger verbreitet sich Verlegenheit in der Runde, wenn der Wunsch nach einer Geschichte laut wird. Es ist, als wenn ein Vermögen, das uns unveräußerlich schien, das Gesichertste unter dem Sicheren, von uns genommen würde. Nämlich das Vermögen, Erfahrungen auszutauschen. Eine Ursache dieser Erscheinung liegt auf der Hand: die Erfahrung ist im Kurse gefallen. Und es sieht aus, als fiele sie weiter ins Bodenlose. Jeder Blick in die Zeitung erweist, daß sie einen neuen Tiefstand erreicht hat, daß nicht nur das Bild der äußern, sondern auch das Bild der sittlichen Welt über Nacht Veränderungen erlitten hat, die man niemals für möglich hielt. Mit dem Weltkrieg begann ein Vorgang offenkundig zu werden, der seither nicht zum Stillstand gekommen ist. Hatte man nicht bei Kriegsende bemerkt, daß die Leute verstummt aus dem Felde kamen? Nicht reicher - ärmer an mitteilbarer Erfahrung. Was sich dann zehn Jahre später in der Flut der Kriegsbücher ergossen hatte, war alles andere als Erfahrung gewesen, die von Mund zu Mund geht. Und das war nicht merkwürdig. Denn nie sind Erfahrungen gründlicher Lügen gestraft worden als die strategischen durch den Stellungskrieg, die wirtschaftlichen durch die Inflation, die körperlichen durch die Materialschlacht, die sittlichen durch die Machthaber. Eine Generation, die noch mit der Pferdebahn zur Schule gefahren war, stand unter freiem Himmel in einer Landschaft, in der nichts unverändet geblieben war als die Wolken und unter ihnen, in einem Kraftfeld zerstörender Ströme und Explosionen, der winzige, gebrechliche Menschenkörper.

IV. [...] Die Kunst des Erzählens neigt ihrem Ende zu, weil die epische Seite der Wahrheit, die Weisheit, ausstirbt. Das aber ist ein Vorgang, der von weither kommt. Und nichts wäre törichter, als in ihm lediglich eine "Verfallserscheinung", geschweige denn eine "moderne", erblicken zu wollen. Vielmehr ist es nur eine Begleiterscheinung säkularer geschichtlicher Produktivkräfte, die die Erzählung ganz allmählich aus dem Bereich der lebendigen Rede entrückt hat und zugleich eine neue Schönheit in dem Entschwindenden fühlbar macht.

V. Das früheste Anzeichen eines Prozesses, an dessen Abschluß der Niedergang der Erzählung steht, ist das Aufkommen des Romans zu Beginn der Neuzeit. Was den Roman von der Erzählung (und vom Epischen im engeren Sinne) trennt, ist sein wesentliches Angewiesensein auf das Buch. Die Ausbreitung des Romans wird erst mit Erfindung der Buchdruckerkunst möglich. Das mündlich Tradierbare, das Gut der Epik, ist von anderer Beschaffenheit als das, was den Bestand des Romans ausmacht. Es hebt den Roman gegen alle übrigen Formen der Prosadichtung - Märchen, Sage, ja selbst Novelle - ab, daß er aus mündlicher Tradition weder kommt noch in sie eingeht. Vor allem aber gegen das Erzählen. Der Erzähler nimmt, was er erzählt, aus der Erfahrung; aus der eigenen oder berichteten. Und er macht es wiederum zur Erfahrung derer, die seiner Geschichte zuhören. Der Romanicer hat sich abgeschieden. Die Geburtskammer des Romans ist das Individuum in seiner Einsamkeit, das sich über seine wichtigsten Anliegen nicht mehr exemplarisch auszusprechen vermag, selbst unberaten ist und keinen Rat geben kann. Einen Roman schreiben heißt, in der Darstellung des menschlichen Lebens das Inkommensurable auf die Spitze treiben. Mitten in der Fülle des Lebens und durch die Darstellung dieser Fülle bekundet der Roman die tiefe Ratlosigkeit des Lebenden. Das erste große Buch der Gattung, der Don Quichote, lehrt sogleich, wie die Seelengröße, die Kühnheit, die Hilfsbereitschaft eines der Edelsten - eben des Don Quichote - von Rat gänzlich verlassen sind und nicht den kleinsten Funken Weisheit enthalten. [...]



                                        Portrait of Nikolaj Leskov

Links:

Some Russian works by Nikolaj Leskov

Walter Benjamin über Nikolai Semjonowitsch Leskow
Der Erzähler/ Il narratore

Walter Benjamin - Liberami dal tempo/ Enthebe mich der Zeit - Via del Vento edizioni

12 luglio 2012

Robert Walser e Winfried Georg Sebald


Il passeggiatore solitario (in ricordo di Robert Walser)
Le promeneur solitaire. Zur Erinnerung an Robert Walser
W. G. Sebald
Adelphi
2006

                                               

«Inverno solitario –
nel mondo d’un solo colore
il suono del vento»

Basho Matsuo (1644-1694)


Il passeggiatore solitario di W. G. Sebald

Robert Walser, svizzero di Berna, nato nel 1878, è stato un autore schivo, fuori dai canoni e dalle mode, la cui vita può rappresentarsi come una parabola che nel suo ramo discendente ha visto il progressivo venir meno degli affetti e delle motivazioni, se mai si possano così definire, che lo hanno spinto a praticare il mestiere di scrittore.
Un distacco cui lo ha avviato la scrittura stessa e che, essendo egli giunto ormai allo stremo delle energie, lo porterà ad allontanarsi anche da questa. È il congedo annunciato nel Brigante, il «romanzo postumo, scritto per così dire già dall’aldilà», una sorta di ritratto dell’artista al tramonto. E, del resto, proprio il viaggio di tutta la sua vita, la sua Wanderung solitaria e senza meta, lo porta progressivamente a una sorta di dissoluzione del sé, che rende anche la parola sempre più inafferrabile e sfuggente.
Nella sua stessa biografia i dettagli sono completamente sfumati. Difficile tentare una ricostruzione che si spinga oltre la labilità delle notizie, occasionalmente disseminate nei suoi frammenti, accidenti marginali che sembrano affiorare qua e là più per distrazione che per desiderio di rendere partecipe il lettore agli eventi della propria vita. L’intima confessione esce come inavvertitamente dal flusso del racconto ed è raro che si presenti come elemento isolato e con una precisa caratterizzazione biografica.
Vissuto a lungo tra Berlino e Zurigo, ebbe un’esistenza irregolare, fatta di isolamento e condizioni economiche difficili. Sarebbe stato impiegato di una banca, assistente di un ingegnere, cameriere in un castello, militare a puntate, «e sempre e comunque scrittore in camere ammobiliate».
A metà della sua vita, che coincide con il rientro in Svizzera, l’energia viene meno e la scrittura si trascina sempre più faticosamente. L’esaurirsi delle sue risorse mentali non è tuttavia un fenomeno che ha origine soltanto nella sua personalità. Si lega piuttosto all’inaridimento del clima culturale, che dalla metà degli anni Venti guadagna terreno con progressiva rapidità, insidia colta da Walser con straordinaria lungimirante intuizione. Nell’incipiente rivelarsi al mondo del nazionalsocialismo e del costituirsi di una letteratura patriottica e moralistica, sente che la possibilità di scrivere viene meno. «Oggi, più che mai, so come negli ambienti delle persone colte abbondi il filisteismo, intendo il pusillanimeierismo, in senso morale ed estetico» (p. 43).
Walser tra i primi ha capito che la parola si sarebbe trasformata in qualcosa di mercenario e dunque inservibile a un nobile esercizio di sentimenti. Il secessus ex civitate è provocato in lui non dalla consapevolezza che lo slancio emotivo non possa trovare alcuno spazio ma dalla convinzione che è irrimediabilmente morto. Tuttavia non si immolerà romanticamente come il Viandante sul mare di nebbia. Il suo sguardo resta disincantato, e proprio nella sobrietà della sua vita, che rifiuta ogni propensione al possesso, riesce a conservare “l’animo perturbato e commosso” con cui continuare a sentire il mondo.
L’omaggio conciso e toccante reso da W. G. Sebald a Robert Walser, uscito in Italia nel 2006, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte dello scrittore svizzero, con la stessa leggerezza discreta e frammentaria propria del suo stile, ripercorre le tappe di una vita trascorsa in punta di piedi dagli esordi letterari all’inarrestabile declino che lo porterà nel 1929 nella clinica di Waldau a Berna, e quattro anni dopo nel ricovero di Herisau.
Questo scrittore viandante che ha percorso da un capo all’altro il suo paese, spesso in lunghe marce notturne, non può dirsi dominato dall’inquietudine né spinto a liberare la mente. Da una parte si potrebbe pensare che volesse raggiungere attraverso questa strada la riconciliazione con la vita, dall’altra che fosse il miglior esercizio per la conquista di quella leggerezza che con tanta ostinazione praticava nella scrittura.
Il volo notturno in mongolfiera da Bitterfeld alle spiagge del Baltico, compiuto da Walser durante gli anni berlinesi, che chiude il saggio di Sebald, è senz’altro la realizzazione più completa di queste due intime volontà: «Tre persone, il capitano, un signore e una ragazzina salgono nella navicella, i cavi che la trattenevano vengono sciolti e quella strana casa se ne vola verso l’alto, lenta, come se le venisse in mente ancora qualcosa … La bella notte di luna sembra accogliere fra le sue braccia invisibili il meraviglioso pallone. Tacito e lieve, il corpo tondeggiante vola via … e … quasi non ci si accorge che viene spinto verso nord da venti leggeri».

Links:


Il passeggiatore solitario - sololibri.net

La passeggiata - Robert Walser - sololibri.net

Appunti sulla teoria della distruzione - Claudia Ciardi per Helios Mag. 2010



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