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24 marzo 2014

Werner Bischof – After the War

«Jede Begegnung mit dem Tod muss bezahlt werden»
Da Reporter als Kampfgenossen – Ingrid Kolb


Berlin, 1946 ©
 La sagoma del Reichstag sventrato naviga sullo sfondo di una Berlino divenuta spettrale cornice della distruzione.

Desideriamo tornare su un tema che ci appassiona molto, ossia il fotoreportage dalle zone di guerra. Abbiamo già avuto modo di spendere qualche parola sull’ascesa della fotografia nel corso del Novecento quale supporto di straordinaria efficacia per raccontare la storia ma anche e soprattutto come strumento in grado di sollecitare, come mai prima, una riflessione attorno a eventi di portata così devastante, quali ad esempio le due guerre mondiali.
È proprio con la Grande Guerra che il documento fotografico conosce un’inedita affermazione. Molti furono infatti gli ufficiali che partirono per il fronte con tanto di macchina portatile al seguito. I loro scatti segnarono una decisiva svolta nell’utilizzo dell’immagine, che venne allora svincolandosi dalle sue funzioni tecnico-scientifiche, e si impose come mezzo narrativo di sconvolgente immediatezza.
Il documento fotografico avrebbe dunque contribuito a sviluppare un importante dibattito sulle atrocità commesse nei territori di guerra e, preservando la memoria di fatti che per la prima volta con tanta veemenza scuotevano le coscienze, a creare un ampio fronte di consapevolezza verso tali avvenimenti.


Brandenburger Tor, Berlin, 1946 ©

Warsaw, 1948 ©

Werner Bischof (Zurigo, 1916 – Perù, 1954) è uno dei nomi di maggior rilievo a livello internazionale nel campo del fotoreportage del dopoguerra. Dal 1932 al 1936 studia alla Scuola di arti applicate di Zurigo con il fotografo Hans Finsler legato al movimento Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit). In un primo tempo, quindi,  percorrendo con grande precisione e perfezione la strada della fotografia realistica e di moda. Qualcosa di simile agli inizi di carriera di molti autori, (ad esempio August Sander, del quale abbiamo parlato) incentrati sulla ritrattistica, il che consentiva di esercitarsi avendo garantiti i proventi necessari a coltivare la professione. Nel 1942 entra a far parte, come collaboratore fisso, della redazione della rivista svizzera «Du» per la quale svolge principalmente l'attività di fotografo di moda. Durante la seconda guerra mondiale non si muove dalla Svizzera. Resiste nell’ “occhio del ciclone”. Quando la tempesta si placa, Bischof si mette in cammino per documentare i disastri della guerra. Parte nel settembre 1945 diretto nella Germania sud-occidentale, nella zona controllata dai francesi, con una bicicletta, zaino, rullino e fotocamera Leica. Nel suo diario annota questo suo primo incontro con la devastazione, dà conto di come in preda allo stordimento barcollasse in mezzo a un paesaggio di rovine, crateri di esplosioni, montagne di mattoni, sotto cui i corpi seguitavano a imputridire. Di questa esperienza chiave in seguito ha scritto: «Poi venne la guerra e da ciò la distruzione della mia torre d’avorio. Il volto dell’umanità sofferente divenne il punto centrale». E lui si trasforma in fotoreporter. Dedicandosi al fotoreportage ha dovuto modificare il suo modo di lavorare – non conta più infatti l'immagine preparata e elaborata in studio, bensì il momento reale, che è impossibile programmare. Dal 1949 inizia a lavorare per la stampa internazionale e entra nel gruppo Magnum.

(Di Claudia Ciardi)


A man looking at the ruined city, Frankfurt, 1946 ©

«Während der sechs Kriegsjahre verließ Bischof die Schweiz kein einziges Mal mehr, blieb, wie sein Vaterland, unversehrt von den kriegerischen Wirren, die ringsherum in Europa tobten. Er harrete aus im Auge des Sturms. Als dieser sich gelegt hatte, brach Bischof auf. Im September 1945 fuhr er – mit Fahrad, Rucksack, einer Rollei und einer Leica – nach Südwestdeutschland, in die französisch besetzte Zone. Im Tagebuch notierte er, dies sei seine erste Begegnung mit der vollkommenen Verwüstung. Wie benommen taumelte er durch eine Landschaft aus Ruinen, Bombenkratern, Bergen von Backsteinen, unter denen noch immer Leichen rotteten. Später schrieb er über dieses Schlüsserlebnis: «Dann kam der Krieg und damit die Zerstörung meines “Elfenbeinturms”. Das Gesicht des leidenden Menschen wurde zum Mittelpunkt». Er wurde zum Reportagefotografen. Die Nähe zur Malerei und die künstlerischen Kompositionen, mit denen Bischof sich als Werbefotograf einen Name gemacht hatte, blieben auch für seine journalistischen Bilder stilbildend: In ihnen zeigt sich ein außergewöhnlicher Instinkt für Augenblicke, in denen die Zeit innezuhalten scheint. Viele der Fotos, auch traurige, auch tragische, sind von kontemplativer Schönheit. Manche, wie das des halbzerstörten Berliner Reichstags, vor dessen in Nebel gehüllter Silhouette ein Soldatenhelm und die Sonne sich im Wasser einer Pfütze spiegeln, wirken wie aufwendig arrangierte Stillleben, in denen sich Licht, Schatten, Formen, Proportionen zu einem durchkomponierten Ganzen verdichten».

Abstract from Wunden der Welt – Der zweite Weltkrieg, Zeitenspiegel-Reportageschule, Günther Dahl


A mother breastfeeding her child, Bonn ©
Bibliography:

After the war

Werner Bischof, Werner Adalbert Bischof
Smithsonian Institution Press, 1997 - 39 pagine


Smithsonian Institution Press is pleased to join Motta Fotografia, one of Europe's foremost publishers of photography, in presenting a series showcasing the work of postwar masters. Each book includes more than forty duotone or color images and represents an original approach to a particular theme by one of the century's finest documentary or fine-art photographers.This extraordinary portrait of Europe's slow emergence from the rubble of World War ll documents in luminous images Werner Bischof's travels through Germany France, Hungary, Greece, and Italy during a time of profound transition in both countryside and city.

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Questions To My Father: A Tribute to Werner Bischof

Werner Bischof, Marco Bischof (Werner's son)
Phaidon Press, 2004 - 160 pagine

In 1916, with the Great War reducing northern Europe to a treeless, shattered void, a boy was born to the prosperous director of a pharmaceutical firm in Zurich. He was named Werner. It was not an auspicious time to be born and, indeed, his mother died soon after. As a child, young Werner sought order in his life by dissecting snails and photographing, in the limpid light of his creation, the elegant whorls revealed. He did not become the physical training instructor his father wanted him to be. He did not become the painter he had once wanted to be in Paris in 1939, on the brink of another devastating conflict. He became Werner Bischof, the man, and a photographer of incalculable artistry who found in both order and the chaos he confronted and experienced a sublime beauty, a humanity that was singularly his own. His photographs of a post-war Europe in poverty and despair expressed infinite hope for the human condtion, yet he was only 29. Less than 10 years later he was dead, leaving behind among his last photographs that of a Peruvian child playing his flute on the edge of a ravine. It is now an iconic photograph with a fatal allure. Bischof himself died when his jeep plunged over a ravine in the Andes on a quest for the faces, the lives, of harmony there. Fifty years later his son Marco has gathered together 70 previously unpublished photographs by Werner Bischof. They powerfully reiterate the man his father was, the nature of his humanity and his search for a benign and beautiful cognisance of the brief and terrifying world he lived in.

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Wunden der Welt - Ferite del mondo
Zeitenspiegel-Reportageschule, Günther Dahl und Magnum Photos

Da una guerra all’altra, cambiano i luoghi e le persone ma la miseria umana si ripete e la riflessione che ne scaturisce è sempre la stessa: di fronte alla violenza, nessun argine tiene. Gli uomini che si aggirano in queste prese ci inchiodano senza scampo alle contraddizioni del Novecento, secolo del progresso scientifico, delle grandi ratifiche in materia di diritti e ambiente, e al contempo fabbrica di sconvolgenti catastrofi.


Portrait
Werner Bischof - offizielle Website

Magnum Photos - Portfolio

16 giugno 2013

Ro-Ro-Ro

Ro-Ro-Ro
Rowohlt-Rotations-Roman


Ernst Rowohlt è una pietra miliare nell’editoria tedesca. Fra gli scrittori da lui pubblicati si contano Franz Blei, Alfons Goldschmidt, Heinrich Eduard Jacob, Kurt Pinthus, Alfred Polgar, Robert Musil, conosciuto a Berlino nel ’20, del quale dieci anni dopo inizierà a dare alle stampe L’uomo senza qualità, Hans Fallada, massimo autore del cosiddetto neorealismo weimariano, di cui nel ’32 pubblicherà E adesso pover’uomo? Ma vanno anche ricordati i romanzi di Balzac, Fiesta di Hemingway, e altri americani come Thomas Wolfe e Sinclair Lewis. 
Rowohlt è inoltre l’ideatore, insieme al figlio Heinrich, di quei giornali venduti a un prezzo più che popolare (50 pfennig) sui quali si pubblicavano i grandi classici della letteratura che nella Germania distrutta del dopoguerra (’46) permettevano alle persone di continuare a coltivare il piacere della lettura. Il progetto ci insegna che pure in momenti economicamente difficili è importante salvaguardare la circolazione della cultura. Una bella lezione, di straordinaria attualità, visti i nostri tempi. 
Recentemente le Edizioni Clichy di Firenze hanno riproposto questa idea, stampando su fogli di giornale celebri opere di narrativa al prezzo di 1 euro. Questa versione italiana dei Ro-Ro-Ro (Rowohlt-Rotations-Roman, romanzo Rowohlt stampato in rotativa) è la migliore risposta a chi vive gli investimenti a sostegno della cultura e delle iniziative legate alla sua diffusione come un peso e uno spreco di risorse. Una società colta sarà una società meglio attrezzata ad affrontare i problemi e a mettere in campo gli strumenti necessari per uscire dalle difficoltà.

Ulteriori informazioni nel sito delle Edizioni Clichy


Originally, RO-RO-RO stood for ‘Rowohlt Rotations Romane’: large-format novels printed on cheap newspaper stock and sold at no more than 50 pfennig apiece. In June 1950 their format shrank, as did the letters in the logo: Rowohlt published the first paperback novels on the German market. They were affordable – mainly because they would contain full-page ads for petrol, cars, perfume or cigarettes – and for many, rororos became the first books they could afford to buy with their pocket money. And yet they weren’t just pulp fiction. The first four rororos were by first-class writers of international renown: Hans Fallada, Graham Greene, Rudyard Kipling and Kurt Tucholsky. Rororo told the young Germany of the post-war generation good stories, but it also taught them something about the world.

In 2008, the year of Rowohlt’s hundredth birthday, the rororo paperback ethos still sums up the ideals and ambitions that the publishing house believes in. As Thomas Überhoff, Rowohlt’s fiction editor-in-chief, puts it: ‘We all believe that our books have something to say – they have an aufklärerischer Gestus – but that doesn’t mean they shouldn’t be fun to read. For us, there’s no necessary contradiction between intellect and entertainment, not even between schlock and avant garde.’

ROWOHLT CELEBRATES 100 YEARS (Abstract)
A Profile by Philip Oltermann (2008)


Rowohlts Rotationsromane



Um der steigenden Nachfrage nach billigen Büchern in Deutschland nach dem 2. Weltkrieg und der Währungsreform von 1948 nachzukommen, entwickelte Ernst Rowohlt zusammen mit seinem Stiefsohn Heinrich Maria Ledig-Rowohlt die sog. "Rowohlts-Rotations-Romane". Ihr Ziel war es, möglichst viel Text auf möglichst wenig Papier für möglichst wenig Geld zu verkaufen. So wurden die großen Romane der Weltliteratur im Rotationsverfahren (beim Zeitungsdruck angewandtes Rolldruckverfahren) auf stark holzhaltigem Papier gedruckt und als ungebundene und ungeheftete Hefte in Zeitungsformat zu 50 Pfennig das Stück verkauft. Auf diesen Heften wurden in den 50er-Jahren die ersten Taschenbücher des Rowohlt Verlags, die sich noch heute unter dem Namen ro-ro-ro einer großen Beliebtheit erfreuen.

Rororo war die erste Taschenbuch-Reihe in Deutschland. Im Juni 1950 erschien im Rowohlt Verlag mit Hans Falladas «Kleiner Mann - was nun?» der Starttitel in ein neues Buchzeitalter. Heinrich Maria Ledig-Rowohlt hatte die Idee preisgünstiger Paperbacks aus Amerika mitgebracht und revolutionierte damit den deutschen Buchmarkt. Nach einem Jahr waren bereits mehr als eine Million rororo Taschenbücher gedruckt. Werke, die noch heute zur Weltliteratur zählen, schmückten von Beginn an das Programm: Graham Greene, Albert Camus, Rudyard Kipling, Kurt Tucholsky, Ernest Hemingway - um nur einige der berühmtesten und erfolgreichsten Autoren der ersten Stunde zu nennen.

Seither sind rund 16 000 rororo Bände erschienen, in einer Gesamtauflage von nahezu 600 Millionen Exemplaren. Die erfolgreichsten Bücher waren Friedrich Dürrenmatts «Der Richter und sein Henker» und Wolfgang Borcherts «Draußen vor der Tür», beide mit Auflagen von mehr als zweieinhalb Millionen Exemplaren. Allein zwölf Literaturnobelpreisträger finden sich in der Geschichte von rororo. 

Aber auch Sachbücher prägten und prägen das Gesicht des Rowohlt Taschenbuch Verlags. 1955 wurde mit rowohlts deutscher enzyklopädie unter dem Motto «Das Wissen des 20. Jahrhunderts» die erste Sachbuch-Reihe gegründet, 1958 die berühmten monographien, auch heute noch ebenso populär wie nützlich. 1961 erschien der von Martin Walser herausgegebene erste Band der aktuell-Reihe, die seither mit über 700 Publikationen das politische Zeitgeschen kritisch begleitete.

Um die programmatische Vielfalt und das expandierende Titelvolumen übersichtlich zu gestalten, kam es immer wieder zu Neugründungen von Reihen. Ob Belletristik, Sachbuch oder Ratgeber - die Geschichte von rororo ist auch die Geschichte ständiger Programminnovationen. Zuletzt kam 1998 das Wunderlich Taschenbuch hinzu mit rund sechzig Unterhaltungstiteln jährlich. 

Zu allen Neuerscheinungen im Rowohlt Taschenbuchverlag

Rowohlt Taschenbuch Verlag 
Hamburger Straße 17
21465 Reinbek

See also:

Die Rotationsromane des Rowohlt-Verlags






Auch Kurt Tucholsky gehörte zu den Rowohlt-Autoren. Er starb 1935 in der Emigration
*****
Ringrazio Radio Città futura nelle persone di Alberto Gaffi, Fabrizio Patriarca e Gabriele Sabatini per aver dedicato questa mattina uno spazio della trasmissione Carta Vetrata al volumetto di Robert Musil, Narra un soldato, edito da Via del Vento edizioni.

Abstract

«L’immaginario musiliano ruota attorno all’impero austro-ungarico votato alla fine. Risente della problematica coesistenza dei diversi popoli che articolano il concetto di Mitteleuropa, un mosaico complesso, segnato da convivenze difficili. Nella vita di Musil, come dei suoi contemporanei, l’evento della guerra rappresenta un punto di rottura, una lacerazione e uno sradicamento dei quali si fa fatica a parlare.
La guerra segna la disgregazione dell’impero austro-ungarico e orienta profondamente la poetica musiliana che registra il trauma e quindi il crollo epocale del mondo di cui è figlia. Dopo il primo conflitto mondiale l’Europa acquista la sconvolgente consapevolezza della mutilazione che si è autoinflitta. Nelle coscienze restano solo dei frammenti, dei lacerti che sono come ciò che affiora del sartiame di una nave dopo il naufragio.
La forma del frammento diviene anche una metafora narrativa della dissoluzione, del dramma che l’ha causata e del recupero di ciò che è stato disperso. È l’affannosa ricerca di un senso che gli eventi hanno rovinosamente distrutto, polverizzato.
Si spiega allora l’attenzione dedicata dallo stesso Musil alla figura di Osiride. Ma si spiega pure come questa immagine riaffiori nei poeti anglosassoni, il corpo lacerato di Osiride è uno dei simulacri che ispirano il viaggio poundiano, e si può dire che alimenta, nascostamente ma neppure tanto, anche l’epica del The Waste Land.  
Pare, dunque, che il mito di Osiride presieda a una elaborazione sincronica del lutto collettivo generato dalla guerra». 

(di Claudia Ciardi)
See also:

Carta Vetrata  (in diretta da Roma)

Su Walter Benjamin e Robert Musil - I dilemmi della traduzione - Claudia Ciardi e Paolo Zignani, «Quaderni corsari», 3 giugno 2013

30 luglio 2012

Generazioni e conflitti


Generazioni e conflitti
Generationen und Konflikte


Disoccupati e quadri superiori, commercianti e insegnanti: i manifestanti contro Vladimir Putin
non possono essere racchiusi in una sola categoria
(di Alexander Bikbov)

«In un prossimo futuro, la classe media dovrà diventare una maggioranza sociale», preannunciava Vladimir Putin il 29 febbraio 2012, poco prima di essere rieletto alla presidenza della Russia, mentre da tre mesi gli oppositori manifestavano in strada per denunciare elezioni segnate dalle frodi.

Tra la nomenklatura onnipotente e il proletariato marginalizzato, la classe media si è rivelata una clientela fondamentale per le riforme politiche. Fin dagli anni 1992-1993, nell’immaginario dei sostenitori di una transizione all’eden post sovietico, essa ha assunto la doppia valenza di classe stabilizzatrice, in grado di impedire i conflitti tra gruppi sociali antagonisti, e di principale sostegno al nuovo regime politico.

Da allora, un dibattito ricorrente circa la sua importanza o la sua esistenza scandisce la storia della Russia, almeno sui settimanali e alla televisione. Così, la crisi finanziaria del 1998 avrebbe ipoteticamente soppresso questa ipotetica classe, prima che l’ascesa al potere di Putin, nel 2000, ravvivasse le speranze di uno sviluppo – speranze che la crisi economica del 2008-2009 ha di nuovo rimesso in discussione. La caccia alla classe media costituisce ormai una vera passione per i media.

Le recenti mobilitazioni contro il governo le hanno dato nuovo vigore. Solo a Mosca, diverse manifestazioni hanno raccolto decine di migliaia di persone dietro a slogan come «Non ho votato per queste carogne, ho votato per altre carogne» oppure «La frode è andata bene, nessun incidente.» Le interviste fatte ai manifestanti, in generale presentati come appartenenti alle classi medie, mostrano l’estrema diversità del modo di intendere questa identità. Durante la grande manifestazione del 4 febbraio 2012 a Mosca, ad esempio, un professionista delle pubbliche relazioni dichiarava: «Spero di appartenere alla classe media, ma, francamente, ho idee molto vaghe in proposito.» Un giornalista aggiungeva: «Non so…[faccio parte di] la classe media. Ma è tanto per dire.» «È possibile, a livello puramente teorico, che noi si sia la classe media», si arrischiava, da parte sua, un traduttore, mentre un imprenditore rivendicava fermamente la sua appartenenza alla «classe media, colta, creatrice.»

Il ventaglio delle posizioni sociali di coloro che dicono di comporre questa classe sembra molto ampio. Vi si trovano quadri superiori del settore bancario, con stipendi mensili di molte decine di migliaia di euro, giornalisti e traduttori precari, insegnanti che guadagnano da 300 a 600 euro al mese, o anche il caporeparto di una fabbrica di provincia che ne guadagna appena 500. Come è possibile che individui dagli status così diversi possano riconoscersi in una stessa categoria?

L’opposizione politica definita «liberale» non è né la sola né la prima a usare la nozione di classe media, anche per definire se stessa. Il governo se ne serve nei momenti critici, o per insistere sul ruolo «stabilizzatore», o per opporla al «popolo» fedele, come nel dicembre 2011, quando i contestatori vennero ridotti a «gente col visone». Ma, fin dai primi momenti delle mobilitazioni, sono i grandi media che spiegano chi sono a dei manifestanti visibilmente perplessi per come li si definisce. «Basta: la classe media è scesa in strada», proclama Zagolovki il 7 dicembre 2011. «Gli indignati sono la nostra nuova classe media», rincara tre giorni più tardi Kosmolskaya Pravda. Nei tre mesi successivi alle elezioni legislative del dicembre 2011, il numero di articolo sulla stampa scritta russa a proposito di questa famosa «classe», è quasi raddoppiato rispetto ai tre mesi precedenti. La stampa internazionale non è da meno: «Benché sostenuta da Putin, la classe media russa si è rivolta contro di lui», scrive The New York Times (11 dicembre 2011); «Il Cremlino ha un grosso problema quando i giovani russi della classe media si impegnano in politica», osserva The Indipendent (Londra, 12 dicembre 2011).
Secondo i primi risultati della nostra inchiesta, sembrerebbe che col succedersi delle manifestazioni le persone intervistate si riconoscano sempre più in questa definizione. L’operazione mediatica ha quindi avuto successo. «Dicono che qui è la classe media che manifesta. Allora siamo noi», riflette un’impiegata del settore privato. Assistiti da esperti di ogni genere, i giornalisti hanno creato di classe che i manifestanti possono prendere in prestito per affermarsi come comunità che prende posizione pubblicamente. È una dimensione che a volte si dichiara esplicitamente: «Appartengo a una frazione inferiore della classe media – spiega una rivenditrice di prodotti elettronici, demografa di formazione. Vivo abbastanza bene, continuo a lavorare come impiegata e sono di origine molto modesta. Ma ho ricevuto un’ottima formazione, ho esigenze culturali, opinioni politiche.» «Siamo la classe media, perché qui esprimiamo liberamente le nostre posizioni», riassume un’impiegata di banca.

Ma sono soprattutto i giornalisti mobilitati, a trovare nelle manifestazioni la conferma di una realtà che loro stessi hanno prefabbricato, ignorando la diversità di condizione sociale di coloro che prendono parte ai cortei. «Classe media» diventa così una nozione che nasce da un «prêt-à-penser (pensiero pronto all’uso)» comodo per un movimento che evita di approfondire questioni sociali potenzialmente conflittuali, come l’istruzione o la sanità pubblica. Una nozione, la cui magia politica si basa sia sul potenziale di mobilitazione che sulla capacità di dissimulare differenze sociali fondamentali. Vera profezia che si autoavvera, essa rappresenta oggi la sola identità capace di far uscire i proprietari di iPad dai caffè e spingerli in strada…. 
Le Monde diplomatique – maggio 2012


                                                    Sotterranei ©
                                    Fortezza Santa Barbara - Pistoia

«Giungono donne tra le rotaie,
giù nei detriti dove non c’è esistenza
ma uno stare colpiti da ogni luogo,
davanti al ferro della casa,
un buio nel cuore dei morti
che faranno il miracolo,
che hanno voce nell’estremo vento
e chi attende è sorvegliato,
il lume che sbrana i volti
appena acceso nelle stanze.»

Roberto Carifi, Morgue



Stig Dagerman
Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario
Traduzione di Massimo Ciaravolo
A cura di Fulvio Ferrari
Titolo originale: Tysk Höst!
Casa editrice: Lindau, 2007


[Deutscher Herbst
Reiseschilderung
Suhrkamp Verlag
Erscheinungsjahr: 1987
Seiten: 119]


From the book:
«A questo mondo può essere abbastanza facile constatare convergenze di opinioni che, simili ad autostrade, attraversano tutte le classi sociali, così come da noi, in Svezia, è facile constatare la mancanza di divergenze per quanto riguarda la poesia d’avanguardia o certi problemi fiscali. Quello che conta, però, è che questa identità di vedute non contribuisce in alcun modo a cancellare le frontiere d’odio che dividono i gruppi rivali. Si è detto prima dell’odio tra contadini e abitanti delle città e dell’odio ancora più grande tra chi è stato evacuato dalla città – gente povera quanto gli abitanti delle città – e i contadini, che lo scorso autunno scambiavano ancora generi alimentari per vestiti e biancheria ma che ora, con la progressiva inflazione di vestiti che si è verificata in campagna, pretendono oro, argento e orologi in cambio di patate, uova e burro. Si è pure parlato delle differenze di classe tra i poveri e i meno poveri, delle crescenti frizioni tra profughi e residenti, e della spietata rivalità tra partiti concorrenti.
Esiste però un’ulteriore contrapposizione, forse più nefasta di ogni altra: lo scontro generazionale, il disprezzo reciproco tra giovani e persone di mezza età che precludono ai giovani l’accesso ai quadri dirigenziali dei sindacati, alla direzione dei partiti e ai corpi di funzionari nelle istituzioni democratiche.
L’assenza dei giovani dalla vita politica, sindacale e culturale non dipende solo dal fatto che chi è stato educato durante il nazismo non può essere indotto a interessarsi di compiti democratici. Nei partiti e nei sindacati i giovani si scontrano con i più anziani in un’inutile lotta per il potere, potere che i più anziani non vogliono lasciare nelle mani di quella gioventù che, dicono, è cresciuta all’ombra della svastica, e che i giovani a loro volta non desiderano affidare a una generazione considerata responsabile del crollo della vecchia democrazia. Conseguenze della sconfitta dei giovani sono la delusione e una nefasta prevenzione verso tutto quello che è attività politica democratica, sempre più giudicata una questione che riguarda i vecchi. L’aspetto più singolare di questo conflitto è tuttavia che i rappresentanti della generazione anziana sono veramente vecchi e i giovani, in molti casi, non sono più tanto giovani. Nei sindacati si assiste a una lotta senza prospettive dei trentacinquenni contro i sessantenni; gli uomini che prima del 1933 erano giovani radicali, e che non hanno cambiato opinione durante il nazismo, trovano altrettanta difficoltà a far valere le proprie idee quanto quei giovani che non hanno mai conosciuto altro che il nazismo. Non è completamente ingiustificato, almeno per certe parti della Germania, parlare di crisi dei partiti e dei sindacati, e una delle ragioni principali di questa crisi è che gli uomini del disastro del 1933 sono stati troppo veloci a prendere il timone nelle loro tremanti mani di vecchi.
La cosa più tragica durante il grande raduno nel tendone di Francoforte sul Meno, al quale ho assistito poco prima di Natale, allorché il vecchio presidente del Parlamento, il socialdemocratico Paul Löbe, ha parlato, non era dopotutto che tra le mille persone del pubblico non si riuscisse a scoprire un solo giovane; la cosa veramente tragica e spaventosa era che gli ascoltatori fossero così avanti negli anni. L’ottanta per cento dei presenti era formato da vecchi con i volti segnati dalle preoccupazioni e i sorrisi irrigiditi, venuti lì per ricordare più che per dare impulso alla battaglia per una democrazia appena nata. Questo ottanta per cento stava lì, attorno all’arena, nel rimbombo della musica della banda, e mormorava l’Internazionale; nel muto gelo che circondava le loro voci rinsecchite da un silenzio durato tredici anni, si aveva la penosa sensazione di trovarsi nel museo di una rivoluzione perduta e di una generazione altrettanto perduta. E fuori dalla tenda c’erano giovani che indicavano la strada con una frase sarcastica: Hier geht alles nach rechts! Qui si va sempre a destra.
La gioventù tedesca si trova in una situazione tragica. Va in scuole dove sono inchiodate lavagne al posto delle finestre, scuole dove non c’è niente per potere leggere o scrivere. Questa gioventù diventerà la più ignorante del mondo, ha detto il giovane dottore di Essen. Nei cortili delle scuole si contempla un panorama formato da una massa enorme di rovine, che nel peggiore dei casi devono essere utilizzate come toilettes. Gli insegnanti fanno ogni giorno prediche sull’immoralità del mercato nero, ma quando i ragazzi tornano a casa da scuola sono obbligati dalla fame propria e da quella dei genitori a uscire per le strade e cercare qualcosa da mangiare. Ne esce un tremendo conflitto, la cui irresolubilità non contribuisce certo a colmare l’abisso tra le generazioni. […]
La Germania non ha solo una generazione perduta, ne ha diverse. Si può discutere su quale sia la più perduta, ma non su quale sia la più degna di compianto. I ventenni vanno a zonzo nelle stazioni delle piccole città fino a quando fa buio, senza avere un treno o qualcos’altro da aspettare. Qui si assiste a piccoli, disperati tentativi di furto da parte di adolescenti nervosi che buttano fieramente all’indietro il ciuffo con un colpo di testa quando vengono presi, si vedono ragazzine brille che si attaccano al collo dei soldati alleati e se ne stanno quasi sdraiate sui divani delle sale d’aspetto, in compagnia di negri ubriachi. Nessuna gioventù ha mai vissuto un simile destino, dice un famoso editore tedesco in un libro scritto su questi giovani e per questi giovani. Hanno conquistato il mondo a diciotto anni, e a ventidue hanno perso tutto.
[…] L’intero popolo tedesco è malato, non solo i giovani: si è ammalato per l’inflazione, per il risarcimento dei danni di guerra, per la disoccupazione e per l’hitlerismo. È troppo per un popolo in soli venticinque anni. Noi giuristi non abbiamo ricette per la guarigione. Possiamo fare una cosa sola: cercare di applicare le attenuanti che la legge prevede, tentare di fare cadere le accuse più gravi. E siate pur convinti, signori, che noi facciamo il possibile, tutto il possibile per i giovani, ma siamo in primo luogo giuristi e secondo le condizioni della resa non possiamo rifiutarci di occuparci della denazificazione. […] E con questa intricata professione di scuse il vecchio avvocato smise di parlare. Avrebbe dovuto tenere un discorso introduttivo che, senza suscitare discussioni, lo conducesse fino a questo punto, ma non era stato capace di tenere testa all’accesa opposizione che si era abbattuta sul suo ragionamento ben costruito e l’aveva fatto a pezzi. Era affascinante osservare quell’uomo compito e raffinato che semplicemente non riusciva a opporre un normale dissenso democratico a quella gioventù esagitata. In realtà si riscontra spesso nelle generazioni più adulte un vero e proprio timore fisico dei giovani, e anche questo spiega perché gli anziani della politica trattino le nuove leve con tanta prudenza, come per mantenere una distanza di sicurezza».
1946 macht sich der junge schwedische Schriftsteller und Dichter Stig Dagerman in das vom Krieg zerstörte Deutschland auf. Seine Eindrücke und Erlebnisse hält er in Reportagen fest, die er später als "Deutscher Herbst" veröffentlicht.
Auf einer Reise durch das Deutschland der Nachkriegszeit dokumentierte der junge schwedische Schriftsteller Stig Dagerman den Alltag der Menschen in einem von Zerstörung, Hunger, Hass und Niedergeschlagenheit gezeichnetem Land. Der Dokumentarfilm "1946, Herbst in Deutschland" von Michael Gaumnitz stützt sich auf den so entstandenen Reportageband "Deutscher Herbst", den Stig Dagerman nach seiner Reise veröffentlicht hatte.
Historische Archivaufnahmen aus dem Jahr 1946 und elektronisch-grafisch bearbeitete Originalbilder zeigen die zerstörten deutschen Städte und das Elend hungernder Menschen in kalten Kellern. "Das geschieht ihnen recht!", kommentierten die Sieger. Stig Dagerman, der den Nationalsozialismus von der ersten Stunde an verurteilt hatte, sah die Dinge anders. Er prangerte die Politik der Alliierten an und verurteilte die Unmenschlichkeit unterschiedslos zugefügten Leides und die Heuchelei einer demokratischen Schocktherapie, bei der die größten nationalsozialistischen Verbrecher doch noch mit heiler Haut davonkamen.

Links:

Europa in Trümmern / Europa in Ruinen - bibliography


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