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14 maggio 2016

Metropole Berlin (II)



La copertina del bel volume dell’editrice Schacht, che Walter mi ha venduto a prezzo irrisorio, e il mio taccuino dei disegni made in Via del Vento. 



La commistione etnica, se da una parte è il carattere principale delle metropoli, negli ultimi anni ha assunto a Berlino, porta di molti orienti, nuove cadenze, e in alcune rughe della città rivela ora il vero volto di quell’esotismo tedesco vagheggiato da poeti e studiosi all’inizio del Novecento.
Tra le strade di Gesundbrunnen, nel contrasto delle sue geometrie irregolari livellate dai grandi boulevard liberty, tra la nota fisionomia dei chioschi e l’indolente trascuratezza delle pollerie arabe, cresce questo doppio sogno, riflesso di due personalità parallele. Una collisione che va saturando rapidamente ogni zona franca del luogo, o che si illude di essere stata tale. Perché a Berlino, più di altrove, pochissimo, quasi nulla è rimasto fermo, e anche la memoria si è dovuta adattare alla continua metamorfosi. 
Da un po’ di tempo tutto sembra sotto assedio, le periferie si espandono ma spingono anche sul cuore della città, ognuno sembra impegnato a difendere la propria idea di spazio percorrendo un’estrema quanto improbabile via di riscatto. Del resto, questa convivenza di uomini e cose sbattuti in mezzo al traffico e al cemento, le più volte esita in conflitto ma può anche spiazzare per le sue insospettabili alleanze. L’aggirarsi di una simile tensione forgia i caratteri e raddoppia gli orizzonti del fare quotidiano. Forse, anzi,  è l’attrattiva maggiore dei contesti metropolitani, che sono in prima battuta degli enormi accumulatori di energia, e perciò possono permettersi di dissiparla con altrettanta, se non più disinvolta leggerezza.
C’è dunque da un lato il dinamismo berlinese e dall’altro la sua fatiscenza da ghetto. Di tanto in tanto si notano portoni sistemati alla buona, catene che hanno fatto la ruggine, fil di ferro, chiodi piantati su tavolacci sconnessi, baluardi che con le loro cicatrici si sono battuti per difendere il diritto di un passato, incline ancora a raccontarsi. Qui si impara che la vera incuria, talvolta, non è l’abbandono ma un accanimento, assai più selvaggio, a regolare e uniformare lo spazio.
Capita di scendere nelle braccia di Caronte come nella pace dei boschi. E anche l’umanità che vi si aggira riflette questa stessa condizione indecifrabile e sospesa. S’incontrano tipi bardati di fez, signorine che alle otto di mattina salgono in treno e lì finiscono di truccarsi, sbandati, vecchiette che masticano acciacchi e bestemmie. Anche quando ci si crede al sicuro per aver scelto un cammino che senza devianze ci porti al lavoro, non è mai detta l’ultima parola. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo, questione di attimi.  
È su simili scivolosi tracciati che la libreria di Walter mi apparve anni fa come un’insenatura gentile, un occhio sonnolento che di tanto in tanto si apriva nel ritmo vorticante di Schöneberg. Da allora, ogni volta che mi si è presentata l’occasione, non ho smesso di fargli visita. Ecco, se siete stanchi del lungo girovagare in metropoli, il mio invito è a entrare in una di queste oasi della carta stampata e riprendere fiato. Non resterete delusi, in quanto il libraio a Berlino è un’istituzione, al pari degli autisti dei treni o dei panettieri. Come in un romanzo, si tratta di quei personaggi chiave che accompagnano la trama e fanno sentire meno soli i protagonisti, non di rado finendo per rubare loro la scena. 
Un carrettino dipinto di bianco, parcheggiato sul marciapiede, un’insegna all’antica, una vetrina dimessa da cui si invitano i passanti a gettare uno sguardo sulle rarità. Walter è un uomo mingherlino sulla cinquantina, dai modi educati ma senza affettazione. Sta sempre seduto dietro il suo bancone-scrivania a leggere o catalogare i nuovi arrivi. Ha una spiccata passione per la fotografia in bianco e nero, motivo delle mie assidue peregrinazioni; ritengo infatti possa vantare alcuni degli album più belli dedicati alla città prima della distruzione nella seconda guerra mondiale. 
Quando ci si chiude alle spalle la porta a vetri, il caos scompare e s’infrange nell’ambiente ovattato delle scaffalature, immerso in una semioscurità rotta soltanto dalla lampada da tavolo del proprietario. Che fuori ci sia il sole o piova a dirotto, lì dentro la luce non cambia mai. È un tempo fisso quello che Walter offre a chi lo cerca. Il suo stesso modo di parlare ne è una prova tangibile. Una soccorrevole sorpresa per il visitatore che intenda affacciarsi su un’altra città, distanziandosi per qualche momento da quel martellare seducente della superficie che tanto ha da narrare ma dove non è escluso che ci si smarrisca. 

(Di Claudia Ciardi)
  

30 aprile 2016

Metropole Berlin (I)





Circumnavigando l’uscita secondaria della stazione di Schöneberg, ingentilita dai tavolini all’aperto del ristorante italiano che invadono prontamente il piccolo slargo nelle giornate di sole, si risale per una stradina all’apparenza tranquilla dove un calzolaio, sempre in pieno sole, lavora su un panchetto tra la soglia del suo negozio e il marciapiede. E se si alza lo sguardo capita di vedere un paio di piedi spuntare da un davanzale, forse qualcuno che si gode la siesta ai primi caldi. Io mi immagino già un lettore incallito o un musicista con qualche tic. Sotto un palo della luce una piantina, imbracata con mezzi di fortuna, veglia i passanti. Sul vaso si legge, non senza sforzo, l’invito a dedicarle qualche cura. E come si fa, là sopra? Opera di un briccone, il tipo del davanzale? Ormai lo penso come un paio di piedi che trafficando in completa autonomia hanno provveduto a tutto. Non ci sarebbe da stupirsi.
Un altro slargo con panchine, e la musica cambia. Addio, caro artigiano, apparizione fuori tempo di una via laterale, addio alla tua testa china di radi capelli rossicci che ti incoronano morbidamente la nuca. Addio a quel silenzioso compare, che con l’altera devozione di un rabbino, in piedi davanti a te, non stacca lo sguardo dalle tue mani. Ora è tutto un corteo di vecchi, faccia scavata e fronte bassa, che scrutano astiosi chi gli sfila di fronte e con avida curiosità le minigonne delle ragazze. Qualcuno si lascia scappare un grugnito, più per quel che vorrebbe avvistare e che con altrettanta inesorabile pervicacia gli si sottrae. Le belle passanti navigano veloci, troppo veloci perché le loro voglie tarde riescano a andare a segno. È gente povera del quartiere e raramente sembra aver visto cose diverse da questo incrocio di strade. Se ne rimangono lì per ore, simili a statue di sale, si tollerano poco perfino tra loro, infastiditi dalla reciproca esibizione delle proprie miserie. C’è una chiara impudenza che accompagna il loro vivere quotidiano e li accomuna, ma ognuno vorrebbe esserne il detentore indiscusso. Ognuno al centro di un suo regno, tiranno e schiavo del proprio temperamento bilioso, allora sì riuscirebbe a compiacersi di ciò che è, non visto, non esautorato, per dire, dagli altri. Così in mezzo all’asfalto, invece, il singolo appare interamente condannato. 
Intorno guizzano senza posa i bottegai turchi. Alcuni salmodiando sul marciapiede il nome delle loro mercanzie, altri agitandosi furtivi dietro i banconi, ombre taciturne e quasi inavvicinabili. Superate le botteghe-bazar, sulla prima grande arteria a scorrimento veloce, s’incontra la Hauptstraße, altra affollata patria mediorientale. Una vecchia, con un turbante scolorito in testa, trascina un carrello pieno di lattine. Cerca qualcuno che le paghi il giusto per quella paccottiglia e nel frattempo impreca in un tono sordo che scade nel lugubre. Dice qualcosa riguardo suo figlio, a quanto pare non se la passa niente bene, e spera così di procurarsi più in fretta un acquirente. L’alternanza tra cantilena pietosa e bestemmie è un contrasto troppo singolare per non restarne scossi. Man mano che la donna viene avanti, l’oscillare pauroso del turbante sembra un monito a farsi da parte. Un occhio saettante ripiegato tra i lembi consunti della stoffa, un’animazione pronta a scatenare la tempesta attorno a sé, fendere i marosi, incenerire gli importuni, e far queste e altre cose diaboliche in appena uno schioccare di dita. Quel suo dio ritorto e sonnacchioso come un serpente ne incardina i movimenti, dandole una specie di autorevolezza e gettando su di lei l’inquieto incanto dei derelitti. 
Dietro un banco di frutta un uomo non giovane né vecchio con la barba lunga e un giacchettaccio nero da asceta della metropoli ripete in continuazione “Respekt”. Non si capisce con chi ce l’abbia. Intorno non c’è nessuno, e il banco incagliato sulla via somiglia a un altare miracolosamente scampato alla furia che ha distrutto il suo tempio. Capita di vedere qui ogni genere di commercio, e più che in altri quartieri si assiste a una colorita dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Che per l’appunto è l’arte di maggior successo tra quante si coltivano nelle grandi città. Una volta, a Torino, credo di aver assistito a una delle sue espressioni più bizzarre. Ero in stazione da diverse ore, in attesa di una coincidenza che tardava. Non potendone più di fare la spola tra la caffetteria e la sala d’aspetto, mi accoccolai sulle poltroncine all’aperto nello spazio centrale. Ci misi un po’ a realizzare che intorno a me fioriva uno smercio in grande stile di giornali abbandonati dai viaggiatori. Sulle prime non capii il motivo dei balzi improvvisi di chi mi sedeva intorno. A ogni nuovo arrivo, qualcuno scattava a salutare il capotreno e lestamente prelevava la mercanzia dalle carrozze. Ogni tanto si avvicinava anche qualche pendolare «Come te la passi? Ce l’hai il Corriere di oggi?» ma venivano anche perfetti sconosciuti che subito entravano in confidenza con gli edicolanti improvvisati. Mi sfilò sotto il naso tanta di quella stranezza che ancora non saprei spiegarla. A un certo punto un giovane disteso dietro di me che faceva la guardia ai giornali, si sollevò sui gomiti, e rivolto a un suo chiamiamolo compagno d’avventura: «Tutto è possibile, se quello lassù mi libera dalla pigrizia». Giuro che non ci ho capito nulla. Quando li lasciai seguitavano a impilare i quotidiani che da ogni dove affluivano in stazione. Un rumore continuo di carta strofinata, passata di mano in mano, che a ogni ora serrava le fila. Poi, diciamo così, un cliente, poi una corsa al binario e il capotreno che qualche volta veniva fin lì a dare un’occhiata. Scambio di convenevoli, caffè offerti da una parte e dall’altra. Io che fingevo di leggere ma non mi perdevo neppure una sillaba, né mi facevo scappare il benché minimo gesto. E intanto da quell’andare cadenzato scaturiva una forma di ipnotismo, la più ignobile, perché fondata su un abuso d’incomprensione.  
Nulla di paragonabile però alle stranezze del meticciato berlinese, umanità varia e sfuggente, avvezza a molte e incomprensibili cose e di cui non esiste alcun prototipo – com’è fatto un berlinese, chi ormai può essere considerato, sotto un profilo fisico, l’emblema del prussiano di città? Scrutate le facce della gente in strada e la risposta vi morirà in bocca. [...]

(Di Claudia Ciardi - prima parte)

23 aprile 2014

Lou Reed - Berlin, 1973


«Impossibile immaginare come sarebbe stata la musica rock se i Velvet Underground non fossero mai esistiti. […] Si può affermare in modo piuttosto convincente che l’album di debutto della band, The Velvet Underground & Nico (1967), è stato il più influente della storia del rock. Di sicuro è difficile pensare a un altro disco che abbia alterato il suono e il vocabolario del rock in modo così  forte, spostandone in un solo colpo tutti i parametri. Ampie fasce di musica pop venute dopo esistono solo all’ombra di quel disco: è possibile che il glam rock, il punk e tutto ciò che rientra anche lontanamente nella categoria dell’indie rock e dell’alternative rock sarebbero esistiti anche senza The Velvet Underground & Nico, ma è difficile immaginare in che modo. Di sicuro i Velvet Underground non sono stati l’unica band della fine degli anni sessanta a tentare di colmare il baratro apparentemente sconfinato tra il rock e l’avanguardia, e Lou Reed di sicuro non è stato l’unico autore convinto che i testi delle canzoni potessero avere la stessa dignità e la stessa importanza della letteratura “seria”. Loro però sono stati gli unici a far sembrare il superamento di quel baratro la cosa più naturale del mondo. […] Con l’avanzare della sua carriera, Lou Reed diventava sempre più contraddittorio. Il volto che presentava al mondo, almeno nelle interviste, era incessantemente combattivo, sdegnoso e taciturno, e questo si rifletteva spesso nella sua musica: le quattro faticose canzoni che compongono il lato b del suo concept album del 1973, Berlin, sono espressioni piuttosto straordinarie di freddezza e crudeltà».

Alexis Petridis, The Guardian (November, 2013)



Non basta certamente un solo ascolto per capire il sound di Berlin (1973). L’etichetta di concept album, formula per definire una raccolta le cui canzoni ruotano attorno a un unico tema, di sicuro non basta a contenere tutte le suggestioni di questo lavoro. La prima volta che mi ci sono messa, non troppo tempo fa, non l’ho capito quasi per nulla ma di sicuro posso dire di esserne rimasta affascinata. La crudeltà dei suoni lascia l’ascoltatore spiazzato, costringendolo a prendere a calci i suoi quattro stracci borghesi, nel caso in cui ne sia vestito. E l’elemento che più a suo tempo scatenò la critica è proprio questo schiaffo dato platealmente alle convenzioni borghesi. Il racconto impietoso di una crisi di coppia cozzava con i migliori spot dell’idillio familiare, perfetto, equilibrato e senza macchia. La famiglia descritta da Reed è invece l’anticamera di tutte le ansie e contraddizioni moderne. La musica crea uno spaccato narrativo senza precedenti e Reed sembra voler trascinare il suo pubblico davanti allo specchio per dire a ognuno senza girarci troppo intorno: «Amico, o hai il coraggio di guardarti o hai chiuso». Scelta tematica estremamente coraggiosa perché c’è anche molto di autobiografico, una autoanalisi esibita su un palco.
L’artista lega il suo cinismo, la sua buona dose di umorismo macabro e yiddish, la sua personalità schizofrenica, le sue paranoie, il suo senso di alienazione allo sfondo di una Berlino altrettanto cupa e delirante, che dialoga a meraviglia con la sua personalità. Reed trova una sintonia perfetta proprio con la città del Muro, che lo contamina e finisce per esasperare certi tratti della sua musica: del resto, dove meglio avrebbe potuto essere concepito un disco che parla di una separazione tra due persone, di una rottura che non potrà essere sanata in alcun modo, di un rapporto che va a rotoli in una singolare e deprimente coincidenza tra storia individuale e collettiva?
La relazione tra Jim e Caroline, entrambi tossicodipendenti, corre sul ‘versante selvaggio’ di nichilismo, degrado, meschinità che spesso sfociano in gesti di odio e cattiveria gratuita, concludendosi tragicamente col suicidio di Caroline.
«A film for the ear» lo definì Reed, e in effetti quel pianoforte che affiora dalla buia e fumosa sala di un caffè, tormentato quanto basta per l’atmosfera che si respira attorno al Muro, una volta sentito vi resterà addosso come la più pungente delle ossessioni. Notte  anni ’70,  frontiera gelida e insonne, davanti a questa tastiera scura in volto resterete completamente disarmati: la melodia non vi darà tregua, picchierà dritta sui vostri nervi, che vi piaccia o no scenderà giù come un bicchiere di veleno e si farà ascoltare.
Così Reed firma una delle più dolenti e crude cartoline della metropoli, incrociando spietatamente la Stimmung di quel complicato decennio; questa Berlino triste, introversa, stremante, città simbolo della divisione e della decadenza, narrata sul filo dei riferimenti a Bertolt Brecht e Kurt Weill, finisce per abitare ognuno di noi.
Perfino quando si ascolta un pezzo strumentale come Neuköln (la grafia giusta sarebbe con la doppia “L”), scritto da David Bowie, che a Berlino viveva a Schöneberg sulla Hauptstraße, e Brian Eno nel 1977 per l’album Heroes, si comprende quanto Reed abbia lasciato il segno con la sua Berlin del ’73. Bowie, del resto, non celò mai il grande debito d’ispirazione che lo legava a Reed, tanto da avergli prodotto il suo secondo album di grande successo, Transformer, lavoro che precede proprio Berlin.
«It’s intensely dark in its lyrical content» si legge in un commento della BBC, e questo è infatti il marchio di fabbrica di uno scavo affilatissimo dentro i caratteri umani, un’opera al nero che guarda in faccia le miserie della vita.
Lou Reed, scomparso a 71 anni lo scorso 27 ottobre 2013, vogliamo ricordarlo così, come un interprete assurdo e proprio perciò altrettanto impeccabile di un’epoca. Ribelle, fuori dalle righe, poeta devoto alla sua stagione in inferno, Reed ha scritto a suo modo una parte di storia all’ombra del Muro, e ci pare giusto, tra le tante immagini e testimonianze che vanno avvicendandosi in questo venticinquesimo anniversario della caduta, far rivivere anche un po’ della sua voce.

(Di Claudia Ciardi)




Tracklist
:
Berlin
Lady Day
Man of good fortune
Caroline says I
How do you think it feels?
Oh, Jim
Caroline says II
The kids
The bed
Sad song
Rockol/ review
******


Berlin may be a great album, it's just not an easy one to listen to. It's intensely dark in its lyrical content, charting the doomed relationship of Caroline and Jim following them through drug addiction, domestic violence and suicide. Not the cheeriest of subjects for a concept album.

First released in 1973, it was a commercial failure but became a cult classic. Berlin came hot on the heels of Reed's glam rock masterpiece Transformer. Anyone expecting a commercial follow-up was non-plussed to say the least. But 30 years after its debut, Reed is now touring the album for the first time, hence the re-issue.

Lou Reed has never been the most melodious of singers, but his gravelly, nasal, mumble-y singing suits the subject matter perfectly. His voice sounds like he has been there, done that, and adds an air of jaded, cynical depression to the tracks.

Who else could carry off lyrics like, 'Caroline says as she gets up off the floor/You can hit me all you want to, but I don't love you anymore/ Caroline says while biting her lip/ Life is meant to be more than this, and this is a bum trip'? It's not exactly Kylie Minogue territory.

But doom and gloom aside, musically Berlin is brave, adventurous and keeps on surprising you.

"Caroline Says I'' is a particularly odd track, sounding generally upbeat. Until you listen to the lyrics, that is. More creepily, ''Kids'', about Caroline's children being taken away, features producer Bob Ezrin's children screaming for their mother.

"The Bed'' sounds like a love song, but is instead about Caroline's suicide. The words are filled with regret and the soft acoustic sounds help you picture her drifting into unconsciousness.
Berlin is definitely a challenge, and is about as far away from pop, or dinner party music as you can get. But thanks to Ezrin's production it has a rich, lush sound with the string and horn sections, and backing choir (and occasional cracking guitar solo), showcased best on "Sad Song''. 

This was the sound of Lou trying something new, brave and ambitious at a time before he was in thrall to rock 'n' roll history. As such it's stood the test of time and you won't regret the time you spend listening to it. Just don't expect to be cheered up.

BBC Review by Helen Groom


Lou Reed - portrait
Links:

20 Essential Lou Reed Tracks
A look back at the legendary rocker's best moments from the Velvet Underground and beyond - su Rolling Stone Music

Remembering Lou Reed's Classic Album Berlin  - Ted Drozdowski

Lou Reed - Berlin Album Review - Contact Music

Official Italian Site

Clouds&Clocks di Beppe Colli

Lou Reed: Berlin. La prima tragedia pop postmoderna
Sul blog «Detriti di passaggio», il 21 ottobre 2013

Lou Reed (part two)
Sul blog «Spirito critico»



15 gennaio 2014

Racconto di Berlino - Erzählung aus Berlin #1


Gli incontri a Berlino non sono mai privi di significato. Intendo con ciò che un gesto, un volto in cui ci si imbatte per le strade della metropoli hanno un’implicazione quasi metafisica, un tiro di dadi della sorte che si riserva, con opera infaticabile e cinica, di comporre gli eventi nella più esaltante combinazione. È per questo che quando mi capita di tornare in città dopo un certo periodo, la mia attenzione è quasi interamente catturata dalla gente che mi sfila accanto.
Una volta aveva spiovuto da poco, la sera ormai inoltrata. Io scendevo i viali restando un passo dietro a me stessa, inspiravo l’aria frizzante del temporale che strisciava su alberi e case come un insetto ubriaco, e sembrava che in me si facesse largo una bizzarra creatura impastata di pioggia, posseduta da frettolosa voluttà. Nell’aria serpeggiava un bagliore bluastro, molle e indolente, simile a certe confessioni che sole avvengono nei sogni. Le traiettorie di uomini e cose sbocciavano confusamente, creature soggiogate a un ritmo indecifrabile, oscurità di ingranaggi, anonimi ticchettii di ruote dentate e lancette nelle mani di un sapiente orologiaio, il tempo, che esortava a rallentare e ancor più abdicare. 
Ovattati erano anche i pensieri, fluivano madidi affiancati dall’incespicante e fuligginoso corteo di ombre che sempre scorta i passanti lungo le banchine della ferrovia sotterranea. Anche il treno di città sembrava correre su un binario d’acqua, pauroso anfibio con le fauci protese verso il muro dei pendolari. In precedenza avevo interpellato l’inserviente della stazione – ancora adesso mi chiedo se fosse un uomo o una donna – che in una bizzarra tenuta da casellante, brandendo con la sinistra una bandierina per chissà quali segnalazioni, mi aveva indicato il binario con estrema lentezza, masticando insieme alla parola “Gleis” un che di sconcertante. In compagnia di un simile augurio, alla successiva stazione di cambio, il manico della valigia ha deciso di cedere. Non me ne sono stupita poi tanto. Quindi, sospinta dall’inaudita corrente di maschere e viaggiatori sono saltata a bordo dell’ultimo treno per raggiungere casa. 
Ora il vagone dondolava, spoglio e silenzioso, pareva riconsegnarmi a uno spazio liscio e intatto, esistente da qualche parte nei ricordi come l’interno di un vaso di ceramica, ma forse ben più antico e lontano in un’infanzia che fosse perfino oltre la mia, un identico moto di stagioni che sanno l’una dell’altra senza corrispondersi, uno strascico di sentimenti come sponde in un fiume o cantilene materne. Mentre mi abbandonavo a questa e altre riflessioni, più istintive che logiche, non desistevo dal cercare attorno a me una traccia, un indizio che fosse in grado, se non di spiegare la natura di quel percorso, almeno di farmene comprendere la bontà o comunque di vederci un qualcosa di sensato.
Ed è così che nel riflesso turchese dei vetri del treno, nell’atmosfera morbida e assonnata di quell’insospettabile pomeriggio già pieno di sogni notturni, l’ho finalmente trovato. Era il viso scarno di una donna, sfumato e distante come ogni cosa in quell’ora, un viso meravigliosamente incorniciato dalle luci tenui della carrozza, il che contribuiva all’immobilismo della sua espressione, una posa quasi ieratica che dissuadeva dal soffermarsi sulla natura dei singoli lineamenti. Guardava dritto, senza interessarsi a niente, ma per un attimo – un istante, tanto è durato – ho creduto che fissasse nella mia direzione e che mi avesse riconosciuta. Sì, proprio così, riconosciuta. Come due persone che s’incontrano per strada dopo anni e, prima di proseguire, frastornati fino alla diffidenza, si scambiano un saluto, non più di un cenno in cui sono racchiuse le loro vite, incapaci di parlarsi.
Questa donna, o meglio, questo volto, mi richiamava così singolarmente a sé ma io sapevo che non poteva esserci stata nessuna conoscenza precedente. Vengo da troppo lontano, mi ripetevo, ho pochi amici qui e quei pochi mi appartengono, non può essere che tu li abbia anche per te, che tu sappia… semplicemente non può essere.
Poi il treno è scivolato in galleria. Quando siamo tornati alla luce, nel lampo azzurro e  grifagno che ci scolorava il presente, la donna – il volto – non c’era più. Impossibile. Non ci siamo fermati, non può essere scesa. Magari mi sono distratta, avrà cambiato posto.
Eppure qualcosa in me suggeriva, quasi con prepotenza, che quella nereide bistrata, la vaga indovina di quel giorno, era scomparsa. Sapevo anche che da quell’incontro il mio ritorno aveva avuto la sua benedizione. Tutto quanto non era successo in lunghi mesi, si era rivelato nel breve spazio di un viaggio in treno. Adesso potevo finalmente far pace con la via di casa.

(Foto e testi di Claudia Ciardi ©)


Schöneberg

Am Wannsee

Gesundbrunnen - Hochstraße

Gesundbrunnen - Swinemünder Brücke

Licheni nella Fabeckstraße - Flechten in Fabeckstraße

Friedrichstraße Bahnhof 2:00 a.m.

Schöneberg - Hauptstraße

16 ottobre 2013

Racconto di Berlino - Erzählung aus Berlin #0


Le fotografie qui raccolte sono il frutto di uno dei miei recenti viaggi nella metropoli, scatti letteralmente rubati alla strada che non ambiscono a essere reportage ma hanno solo la pretesa – davvero minima se messa in rapporto con l’ampiezza della materia – di salvare qualche istante di vita in uno dei luoghi forse più narrati degli ultimi due secoli. Quando ripenso alla Stimmung della Berlino dei miei ventisette anni, non posso che prendere atto di un’esperienza irripetibile; le sensazioni e la scrittura di allora erano state il frutto del mio primo sguardo sulla metropoli, il punto zero, l’attimo in cui la città con le sue tante voci e i suoi incredibili richiami, non pochi dei quali destinati a rimanere incompresi, mi era venuta incontro, configurandosi come straordinario centro di attrazione del mio immaginario. Da quel preciso momento Berlino diveniva determinante, avviava in me una nuova ricerca, il peso delle sue tante storie scorreva dai suoi incroci alle periferie della mia volontà di espressione. Avevo come il presentimento di sfidare il tempo, andavo in cerca di narrazioni e puntualmente mi sottraevo a ogni ritratto troppo preciso, respingevo le parallele della storia e aspiravo a una sorta di circolarità fantastica, al recupero – sebbene quasi del tutto inconsapevole – di una dimensione in cui il ‘dimenticato’ dell’infanzia potesse trovare una via per rappresentarsi. Più o meno lo stesso di quanto riferisce Kracauer a proposito dei cortili di Parigi – ma si sa che i suoi cortili, le sue vie sono sempre quelli di Berlino, perché qui ha imparato ad essere flâneur e qui soltanto poteva esserlo completamente; come i Passages di Benjamin provengono dagli alfabeti berlinesi, coordinate mitologiche e caratteri affettivi imparati durante l’infanzia nella metropoli.
In tal senso Berlino è anche una patria sepolta, uno specchio meraviglioso rivolto al passato o almeno a qualcosa di molto somigliante a esso, intendendo qui il vissuto come uno spazio fisico più che concettuale. E tuttavia questo dare appuntamento alla memoria – che io, peccando magari di presunzione, vedevo come la possibilità di ritrovare qualche frammento della mia in un luogo che così tante ne aveva accolte –  era per quanto mi riguarda un esercizio piuttosto maldestro, portato avanti casualmente, dal quale risalivo spossata. A cosa tendevo davvero? In quale parte di me mi dirigevo?
La città ha coltivato in me questa silenziosa regressione, la città-levatrice ha provocato il corpo a riscoprire gesti e rituali delle proprie origini.
Non sono le sue strade, non sono i suoi passanti, questi volti in cui capita di scorgere infinite epoche e mondi, nessuno in particolare nell’istante in cui ci si sofferma a guardarli, eppure presenti tutti insieme in uno sconvolgente unisono; questi passages, più del pensiero che della realtà, eppure di un'intimità così organica, sono le segrete scale da cui io discendo al fondo della mia immaginazione. 
(Foto e testi di Claudia Ciardi ©)
«Smanioso di pervenire al luogo in cui il dimenticato mi sarebbe finalmente sopravvenuto, non potevo rasentare il più modesto vicolo laterale senza infilarlo e senza svoltare all’angolo che si apriva alle sue spalle. […] Nello scrutare, così, da ogni parte – dal sole fino all’ombra e di nuovo, indietro, al giorno – avevo la netta sensazione di non muovermi soltanto nello spazio, ma di varcarne non di rado i limiti e di fare irruzione nel tempo. Una segreta pista di contrabbandieri conduceva nel distretto delle ore e dei decenni, il cui sistema stradale era altrettanto labirintico di quello della città medesima ».
Siegfried Kracauer, Strade di Berlino e altrove 
[Straßen in Berlin und anderswo -  Suhrkamp Verlag, 1964]
«Credo da tempo che, se una speranza ancora esiste per il continente europeo, essa si celi nelle potenzialità, artificialmente inibite, dei paesi compresi tra la Germania e la Russia».
Czeslaw Milosz, La testimonianza della poesia

Botanischer Garten - Bahnhof

 Botanischer Garten - Bahnhof (detail)

 Muro nella Fabeckstraße (Dahlem)

 Hochstraße nei pressi di Gesundbrunnen Bahnhof

 Schöneberg (Bahnhof) - pavimento della stazione

 


















La Marlene di Friedenau (Bahnhof)


Friedenau (Bahnhof - Gestalten)

Nikolassee (Bahnhof - passage)

Un canneto al Wannsee - Schilf am Wannsee

5 febbraio 2013

Franz Hessel-Marlene Dietrich

Cartoline dalla metropoli-Postkarten aus der Metropole



Una deliziosa biografia tascabile inaugura con raffinato gusto la nuova collana “Lampi” di Elliot edizioni, brevi ritratti di epoche e personaggi scaturiti dall’osservazione di interpreti illustri.
Qui è Franz Hessel, colto miniaturista degli umori berlinesi, a raccogliere la voce di una sensuale Marlene Dietrich, astro del cinema americano e mondiale. Sullo sfondo, o per meglio dire, sulla scena, la metropoli, il cui carattere pieno di contrasti e sfumate nostalgie sembra affiorare in ogni gesto dell’attrice, contribuendo alla foggia assolutamente particolare della sua femminilità.

«È cresciuta dove poi sarebbero sorti i quartieri berlinesi occidentali di Wilmersdorf e Westend. Figlia di un ufficiale, si è presto abituata ai trasferimenti legati ai cambiamenti di guarnigione, ma è sempre stata di casa nella città dai sobri e chiari colori del giorno e dai lunghi tramonti, dalle delicate albe invernali e dalle lunghe sere estive, indimenticabili per chiunque sia stato bambino a Berlino».

Il divismo di Marlene è cosa affatto incline e devota alla dimensione spettacolare, il suo successo va rintracciato piuttosto in un fascino erotico e in una carica seducente da cui nasce un’irresistibile empatia verso tutto il suo pubblico, in grado di conquistare indistintamente uomini e donne.
Il rientro dell’artista nella sua città, durante una breve pausa lavorativa, diviene l’occasione di un incontro nel 1931 con Hessel, giornalista e scrittore-flâneur, maestro della kleine Form, la prosa breve elaborata in tedesco sul modello francese del feuilleton, già alla base di esperimenti narrativi nell’Ottocento, come le ‘lettere berlinesi’ di Heine. Il genere raggiunge una piena maturità letteraria, parallelamente a una considerevole fortuna di pubblico, intorno agli anni Venti del Novecento, ed Hessel, cui si affiancano i nomi di Siegfried Kracauer e Joseph Roth, ne è uno dei più abili artigiani. Si tratta, del resto, di un’attitudine alla collezione di ascendenza ellenistico-bizantina (si pensi alle raccolte di glosse e ai lessici come la Suida) che viene a saldarsi su un vero e proprio culto della frammentarietà nel quale il tessuto testuale-archivistico è contaminato da elementi non-testuali, i media e la merce, ad esempio, ossia tutti quei ‘segnacoli’ prodotti dal labirinto della metropoli che non solo alimentano una nuova frontiera di scrittura ma divengono essi stessi soggetti narranti, inserendosi come parte in causa nel dibattito sulla Kulturwissenschaft e orientandolo a sé; basti considerare, al riguardo, le teorizzazioni di Warburg e Benjamin.

Le volte che mi sono ritrovata a camminare per Schöneberg, dall’assiepamento quasi da bazar di negozi e mercati al vecchio gasometro, dalla vegliante malinconia del ‘miglio di Berlino’ a certe stradine laterali che in un improvviso trapasso dal cemento al verde si ridestano ai bordi della ferrovia, ammiccando come in sogno, non mi è mai sfuggita la natura liricamente intima e dimessa di questo quartiere. In ciò che questa zona di Berlino ancora sa offrire al passante, per quanto la scena sia di sicuro diversa da quella vissuta nell’infanzia di Marlene, si coglie tuttavia una carica emotiva del tutto singolare, capace di procurare facilmente l’accesso a una dimensione onirica, che senz’altro circondò l’attrice da bambina.
Alessandra Campo, attenta curatrice del volumetto, regala al lettore italiano la possibilità di avvicinare due grandi personaggi che, pur giocando ruoli diversi ma tra loro complementari, hanno interpretato un momento irripetibile sulla ribalta della nascente metropoli.
(di Claudia Ciardi)

Titolo: Marlene Dietrich. Un ritratto
Autore: Franz Hessel
Curatrice: Alessandra Campo
Casa editrice: Elliot
Collana: Lampi
Anno di pubblicazione: novembre 2012

Titolo originale/ original title: Marlene Dietrich: Ein Porträt
Franz Hessel, 1931, per l’editore Kindt & Bücher

Su Franz Hessel e la flânerie si veda l’articolo di Claudia Ciardi, Fantasticherie berlinesi, pubblicato da La Biblioteca di Israele, a cura di Giusi Meister




Marlene Dietrich/ a biography:

Marlene Dietrich, original name Marie Magdalene Dietrich, also called Marie Magdalene von Losch   (born Dec. 27, 1901, Schöneberg (now in Berlin), Ger.—died May 6, 1992, Paris, France), German American motion-picture actress whose beauty, voice, aura of sophistication, and languid sensuality made her one of the world’s most glamorous film stars.

Dietrich’s father, Ludwig Dietrich, a Royal Prussian police officer, died when she was very young, and her mother remarried a cavalry officer, Edouard von Losch. Marlene, who as a girl adopted the compressed form of her first and middle names, studied at a private school and had learned both English and French by age 12. As a teenager she studied to be a concert violinist, but her initiation into the nightlife of Weimar Berlin—with its cabarets and notorious demimonde—made the life of a classical musician unappealing to her. She pretended to have injured her wrist and was forced to seek other jobs acting and modeling to help make ends meet.

In 1921 Dietrich enrolled in Max Reinhardt’s Deutsche Theaterschule, and she eventually joined Reinhardt’s theatre company. In 1923 she attracted the attention of Rudolf Sieber, a casting director at UFA film studios, who began casting her in small film roles. She and Sieber married the following year, and, after the birth of their daughter, Maria, Dietrich returned to work on the stage and in films. Although they did not divorce for decades, the couple separated in 1929.

That same year, director Josef von Sternberg first laid eyes on Dietrich and cast her as Lola-Lola, the sultry and world-weary female lead in Der blaue Engel (1930; The Blue Angel), Germany’s first talking film. The film’s success catapulted Dietrich to stardom. Von Sternberg took her to the United States and signed her with Paramount Pictures. With von Sternberg’s help, Dietrich began to develop her legend by cultivating a femme fatale film persona in several von Sternberg vehicles that followed — Morocco (1930), Dishonored (1931), Shanghai Express (1932), Blonde Venus (1932), The Scarlet Empress (1934), and The Devil Is a Woman (1935). She showed a lighter side in Desire (1936), directed by Frank Borzage, and Destry Rides Again (1939).
*****
During the Third Reich and despite Adolf Hitler’s personal requests, Dietrich refused to work in Germany, and her films were temporarily banned there. Renouncing Nazism (“Hitler is an idiot,” she stated in one wartime interview), Dietrich was branded a traitor in Germany; she was spat upon by Nazi supporters carrying banners that read “Go home Marlene” during her visit to Berlin in 1960. (In 2001, on the 100th anniversary of her birth, the city issued a formal apology for the incident.) Having become a U.S. citizen in 1937, she made more than 500 personal appearances before Allied troops from 1943 to 1946. She later said, “America took me into her bosom when I no longer had a native country worthy of the name, but in my heart I am German—German in my soul.”

After the war, Dietrich continued to make successful films, such as A Foreign Affair (1948), The Monte Carlo Story (1956), Witness for the Prosecution (1957), Touch of Evil (1958), and Judgment at Nuremberg (1961). She was also a popular nightclub performer and gave her last stage performance in 1974. After a period of retirement from the screen, she appeared in the film Just a Gigolo (1978). The documentary film Marlene, a review of her life and career, which included a voice-over interview of the star by Maximilian Schell, was released in 1986. Her autobiography, Ich bin, Gott sei Dank, Berlinerin (“I Am, Thank God, a Berliner”; Eng. trans. Marlene), was published in 1987. Eight years after her death, a collection of her film costumes, recordings, written documents, photographs, and other personal items was put on permanent display in the Berlin Film Museum (2000).

Dietrich’s persona was carefully crafted, and her films (with few exceptions) were skillfully executed. Although her vocal range was not great, her memorable renditions of songs such as “Falling in Love Again”, “Lili Marleen”, “La Vie en rose” and “Give Me the Man” made them classics of an era. Her many affairs with both men and women were open secrets, but rather than destroying her career they seemed to enhance it. Her adoption of trousers and other mannish clothes made her a trendsetter and helped launch an American fashion style that persisted into the 21st century. In the words of the critic Kenneth Tynan: “She has sex, but no particular gender. She has the bearing of a man; the characters she plays love power and wear trousers. Her masculinity appeals to women and her sexuality to men.” But her personal magnetism went far beyond her masterful androgynous image and her glamour; another of her admirers, the writer Ernest Hemingway, said, “If she had nothing more than her voice, she could break your heart with it.”


Franz Hessel/ notice:
One of the interesting characters from early 20th-Century Schwabing was Franz Hessel, a flaneur and friend of Walter Benjamin's whom Anke Gleber has characterized as 'one of the last representatives of the metropolitan, intellectual bohemian characteristic of the European culture of early modernity.' In his book Weimar Germany: promise and tragedy, Eric D. Weitz quotes extensively from Hessel's writings (and Joseph Roth's) in order to convey a sense of Berlin's street life during the Weimar Republic.

Born in Stettin, Hessel arrived in Munich in 1900 as a law student. He soon changed plans in order to focus on archaeology and philosophy. He also became a poet, a vocation that brought him into contact with Karl Wolfskehl and the members of his circle. (I wonder if he bumped into Frederick Grove.) In this part of Hessel's life, his bohemian credentials were well and truly established by his complicated relationship with Franziska Gräfin zu Reventlow, which began in 1903 when he entered a ménage à trois with her and Bogdan von Suchocki. (Here's a photo of the house in which Reventlow and Suchocki lived at the time; it's in Kaulbachstraße in Munich, and here's a photo in which you can see Hessel with Reventlow's son.) Suchocki seems to have been replaced in this arrangement in 1907 by Henri-Pierre Roché, by which time Hessel had moved to Paris.

Roché and Hessel would later maintain a similar relationship with the German journalist, Helen Grund, whom Hessel married in 1913. This ménage became famous as the centrepiece of Roché's novel, Jules et Jim, which was the basis of Francois Truffaut's film of the same name. The character of Jules was based on Hessel. Roché was the basis of Jim, and Catherine ('Kathe' in the novel) was based on Grund.

Hessel wrote his own novel about this relationship, but it doesn't seem to be available in English. In German it's called Alter Mann, while in French it's Le Dernier Voyage. Hessel wrote it in the 1930's, but it was thought to have been lost until it was recovered in 1984.

It looks like Hessel's most important relationships with women were in the context of a ménage à trois. In this setting, Jean-Michel Palmier writes that Hessel 'becomes [women's] confidant, he loves them and admires them at a distance, preferring the role of friend to that of lover.' (Here's the original, French version of Palmier's essay.) Of his relationship with Roché and Grund, Hessel himself (in Alter Mann) said that it 'expanded the habitual scope of friendship and love.'

Franz Hessel volunteered to fight for Germany in WWI. After the war, he worked in Germany for Rowohlt Verlag. It appears that he and his family fled for France relatively late (1938). In 1940, Hessel suffered a stroke while in a detention camp in France. I believe that he was held in that camp (Camp des Milles) before the Germans had control of it, at a time when the French were using it as an internment camp for any Germans and Austrians who happened to be in France. After his release from the camp, Hessel died in January, 1941.

His and Helen's son, Stéphane, fought for the French resistance and became an accomplished diplomat. Here are brief bios of father and son.
Source:
http://praymont.blogspot.it/2011/10/one-of-interesting-characters-from.html


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