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30 aprile 2016

Metropole Berlin (I)





Circumnavigando l’uscita secondaria della stazione di Schöneberg, ingentilita dai tavolini all’aperto del ristorante italiano che invadono prontamente il piccolo slargo nelle giornate di sole, si risale per una stradina all’apparenza tranquilla dove un calzolaio, sempre in pieno sole, lavora su un panchetto tra la soglia del suo negozio e il marciapiede. E se si alza lo sguardo capita di vedere un paio di piedi spuntare da un davanzale, forse qualcuno che si gode la siesta ai primi caldi. Io mi immagino già un lettore incallito o un musicista con qualche tic. Sotto un palo della luce una piantina, imbracata con mezzi di fortuna, veglia i passanti. Sul vaso si legge, non senza sforzo, l’invito a dedicarle qualche cura. E come si fa, là sopra? Opera di un briccone, il tipo del davanzale? Ormai lo penso come un paio di piedi che trafficando in completa autonomia hanno provveduto a tutto. Non ci sarebbe da stupirsi.
Un altro slargo con panchine, e la musica cambia. Addio, caro artigiano, apparizione fuori tempo di una via laterale, addio alla tua testa china di radi capelli rossicci che ti incoronano morbidamente la nuca. Addio a quel silenzioso compare, che con l’altera devozione di un rabbino, in piedi davanti a te, non stacca lo sguardo dalle tue mani. Ora è tutto un corteo di vecchi, faccia scavata e fronte bassa, che scrutano astiosi chi gli sfila di fronte e con avida curiosità le minigonne delle ragazze. Qualcuno si lascia scappare un grugnito, più per quel che vorrebbe avvistare e che con altrettanta inesorabile pervicacia gli si sottrae. Le belle passanti navigano veloci, troppo veloci perché le loro voglie tarde riescano a andare a segno. È gente povera del quartiere e raramente sembra aver visto cose diverse da questo incrocio di strade. Se ne rimangono lì per ore, simili a statue di sale, si tollerano poco perfino tra loro, infastiditi dalla reciproca esibizione delle proprie miserie. C’è una chiara impudenza che accompagna il loro vivere quotidiano e li accomuna, ma ognuno vorrebbe esserne il detentore indiscusso. Ognuno al centro di un suo regno, tiranno e schiavo del proprio temperamento bilioso, allora sì riuscirebbe a compiacersi di ciò che è, non visto, non esautorato, per dire, dagli altri. Così in mezzo all’asfalto, invece, il singolo appare interamente condannato. 
Intorno guizzano senza posa i bottegai turchi. Alcuni salmodiando sul marciapiede il nome delle loro mercanzie, altri agitandosi furtivi dietro i banconi, ombre taciturne e quasi inavvicinabili. Superate le botteghe-bazar, sulla prima grande arteria a scorrimento veloce, s’incontra la Hauptstraße, altra affollata patria mediorientale. Una vecchia, con un turbante scolorito in testa, trascina un carrello pieno di lattine. Cerca qualcuno che le paghi il giusto per quella paccottiglia e nel frattempo impreca in un tono sordo che scade nel lugubre. Dice qualcosa riguardo suo figlio, a quanto pare non se la passa niente bene, e spera così di procurarsi più in fretta un acquirente. L’alternanza tra cantilena pietosa e bestemmie è un contrasto troppo singolare per non restarne scossi. Man mano che la donna viene avanti, l’oscillare pauroso del turbante sembra un monito a farsi da parte. Un occhio saettante ripiegato tra i lembi consunti della stoffa, un’animazione pronta a scatenare la tempesta attorno a sé, fendere i marosi, incenerire gli importuni, e far queste e altre cose diaboliche in appena uno schioccare di dita. Quel suo dio ritorto e sonnacchioso come un serpente ne incardina i movimenti, dandole una specie di autorevolezza e gettando su di lei l’inquieto incanto dei derelitti. 
Dietro un banco di frutta un uomo non giovane né vecchio con la barba lunga e un giacchettaccio nero da asceta della metropoli ripete in continuazione “Respekt”. Non si capisce con chi ce l’abbia. Intorno non c’è nessuno, e il banco incagliato sulla via somiglia a un altare miracolosamente scampato alla furia che ha distrutto il suo tempio. Capita di vedere qui ogni genere di commercio, e più che in altri quartieri si assiste a una colorita dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Che per l’appunto è l’arte di maggior successo tra quante si coltivano nelle grandi città. Una volta, a Torino, credo di aver assistito a una delle sue espressioni più bizzarre. Ero in stazione da diverse ore, in attesa di una coincidenza che tardava. Non potendone più di fare la spola tra la caffetteria e la sala d’aspetto, mi accoccolai sulle poltroncine all’aperto nello spazio centrale. Ci misi un po’ a realizzare che intorno a me fioriva uno smercio in grande stile di giornali abbandonati dai viaggiatori. Sulle prime non capii il motivo dei balzi improvvisi di chi mi sedeva intorno. A ogni nuovo arrivo, qualcuno scattava a salutare il capotreno e lestamente prelevava la mercanzia dalle carrozze. Ogni tanto si avvicinava anche qualche pendolare «Come te la passi? Ce l’hai il Corriere di oggi?» ma venivano anche perfetti sconosciuti che subito entravano in confidenza con gli edicolanti improvvisati. Mi sfilò sotto il naso tanta di quella stranezza che ancora non saprei spiegarla. A un certo punto un giovane disteso dietro di me che faceva la guardia ai giornali, si sollevò sui gomiti, e rivolto a un suo chiamiamolo compagno d’avventura: «Tutto è possibile, se quello lassù mi libera dalla pigrizia». Giuro che non ci ho capito nulla. Quando li lasciai seguitavano a impilare i quotidiani che da ogni dove affluivano in stazione. Un rumore continuo di carta strofinata, passata di mano in mano, che a ogni ora serrava le fila. Poi, diciamo così, un cliente, poi una corsa al binario e il capotreno che qualche volta veniva fin lì a dare un’occhiata. Scambio di convenevoli, caffè offerti da una parte e dall’altra. Io che fingevo di leggere ma non mi perdevo neppure una sillaba, né mi facevo scappare il benché minimo gesto. E intanto da quell’andare cadenzato scaturiva una forma di ipnotismo, la più ignobile, perché fondata su un abuso d’incomprensione.  
Nulla di paragonabile però alle stranezze del meticciato berlinese, umanità varia e sfuggente, avvezza a molte e incomprensibili cose e di cui non esiste alcun prototipo – com’è fatto un berlinese, chi ormai può essere considerato, sotto un profilo fisico, l’emblema del prussiano di città? Scrutate le facce della gente in strada e la risposta vi morirà in bocca. [...]

(Di Claudia Ciardi - prima parte)

28 aprile 2014

Strade


Foto di Claudia Ciardi ©

Un tempo le strade erano buone amiche e riuscivano pure a dispensare qualche gioia. Ai primi caldi si camminava volentieri tra i vicoli, sotto i muri che con naturalezza sfoggiavano il belletto degli anni. In quel groviglio di crepe e mattoni, da dove l’intonaco era spontaneamente saltato giù, ci si sentiva ospiti desiderati; uno sconforto, una confessione, un amore avrebbero trovato lì un solerte spirito della pietra, disposto quanto mai all’ascolto. Ogni davanzale, ogni scalino, la più insignificante breccia schiusa su una parete, perfino le tristi bocche di lupo, dietro i cui spazi ciechi si smarriva il selciato, accoglievano il cuore del passante e lo stringevano a sé con indulgenza.
Gli scantinati in cui guardavo erano parte dei regni della mia infanzia. Mi donavano le mie prime vertigini, e quando mi lasciavano, non raramente avevo nostalgia di provarle ancora. Capitava così un’altra passeggiata nella via meravigliosa, io stringevo leggermente il corpo a quello di mia madre e facevo domande incomprensibili sulle aperture che bucavano la strada, come altrettanti sentieri che si sarebbero potuti esplorare; l’eco di questa curiosità dura ancora dentro di me.
E mi ricordo anche certe bottegucce di artigiani che lavoravano vicino al fiume, silenziosi occupanti di fondi ai piedi dei palazzi storici, risparmiati alla fredda imponenza dei piani superiori. C’era un orologiaio col pizzetto caprino, una banderuola arruffata sulla scheggia del mento, la pelle scura e rugosa e una lente cerchiata di nero perennemente attaccata all’occhio. Quando arrivava qualcuno le sue mani subito si slanciavano verso il sacchetto che il cliente aveva con sé, mani piccole, bianche e scattanti che con soccorrevole determinazione estraevano l’oggetto bisognoso di cure. Si avvicinava il bottone metallico all’orecchio, dopo averlo ritualmente scosso tra due dita, e per un attimo restava in ascolto, come il medico ascolta il cuore di un paziente. Se il caso era ritenuto grave, allora si poteva vedere un fremito attraversare il corpo dell’anziano, poco prima di emettere la diagnosi. Se invece era di immediata soluzione, armeggiava per qualche momento con pinzette, forcine, soluzioni lubrificanti, spennellava, lucidava, caricava finché la cassa ticchettante faceva ritorno spensierata nella sua custodia. Ogni tanto in vetrina comparivano delle pendole e tutto il vano era improvvisamente soggiogato dal sinistro beccheggiare di quelle arche resuscitate.  
Poco più avanti, il negozio di vernici teneva a bella mostra il catalogo sopra il bancone, la proprietaria lo sfogliava con professionale lentezza, facendone schioccare le pagine, mentre io m’incantavo a ogni rettangolo di colore che per qualche attimo fluttuava nell’aria. Sui barattoli era disegnato un cigno, la mia fantasia lo trasportava in placidi laghetti e giardini proibiti, ma non so perché mi faceva anche ricordare di un povero pavone con la coda spelacchiata, un animale che sotto il peso dei suoi incalcolabili anni si trascinava in un cortile a pochi metri dall’idillio fatato.
Amavo gli angusti quadrati offerti dall’incontro dei vicoli, amavo le storie che vi si raccoglievano come pellegrini intorno a un altare, aspettavo con avidità di sentire il rumore dei portoni spinti sui cardini, per inventare le mie storie. In città questi spazi li chiamano chiostre, ma gli adorati popolani che m’insegnarono la parola adesso non ci sono più; dalla mia infanzia queste sillabe mi si sono strette al collo come il più caro degli abbracci, e se ora mi visitasse una delle voci da cui ascoltavo quella lingua per me straordinaria la riconoscerei senza indugio fra centinaia. Negli angoli delle strade si aprivano antri, dove prendevano campo suppellettili, arnesi, imballaggi, stoffe, mondi prodigiosi legati alle improbabili esistenze che li possedevano. E quando da Battellino si tostava il caffè, l’aroma si spandeva in tutti i vicoli, restandoci per una buona mezz’ora; dalle mie finestre allora vedevo carovane e attendamenti e carichi di spezie, e la bottega diveniva un favoloso suq in mezzo alla città.
Ma più di chiunque altro, inconfessabilmente, tutti aspettavamo una donna vestita di lana nera, il corpo appesantito, le mani tozze, mani da lavorante; così conciata, nella lunga gonna, coi capelli mossi e corvini in dispetto all’età, avrebbe anche potuto essere una zingara o un’indovina. A ogni autunno la caldarrostaia piazzava il robusto paiolo sotto i loggiati, attizzava la brace e girava, girava, incrociando in quel gesto lo sguardo dei passanti che cuoceva là dentro come una luna di pasta messa a lievitare. Anno dopo anno a me sembrava che la vecchia mestasse insieme ai suoi frutti meravigliosi anche un po’ della mia vita, qualcosa di me scivolava via, si ribellava e subito svaniva, al pari delle braci sollevate in aria dai capricci del vento.    
Le strade ora indossano panni diversi ma in realtà sono irrimediabilmente invecchiate. Se torno a visitarle quasi non le riconosco. Qui, come altrove, hanno lavorato di compasso e squadra, tagli e rifiniture che raggelano, il dialetto non suona più come una volta nelle bocche dei nuovi bottegai, pochi, ordinati abitatori di locali alla moda. Anche i vicoli sono vuoti. Appartengo all’ultima generazione di ragazzi che ha saputo giocare, ridere a crepapelle, battersi, correre tra queste pietre, quando ancora se ne stavano al loro posto rotte e magnifiche. Il nostro nascondino copriva tutto il quartiere, il fiato ci mancava, sudavamo, urlavamo, cantavamo sguaiati e di tanto in tanto una mamma avanzava a grandi falcate per riprendersi il figlio, e ci gridava l’irripetibile perché lo avevamo portato sulla cattiva strada. Tutti prima o poi abbiamo rimediato una brutta caduta, ma ci si rialzava sempre fieri e più alti di qualche spanna. E quel senso di assoluta paura e appagamento quando strisciavo a terra per intrufolarmi in un magazzino abbandonato, mi è stato fedele compagno in anni assai più seri e atrocemente uguali. Dopo metri e metri fatti gattonando al buio, col terrore di essere scoperti, sbucavamo nel cortile di un palazzo, allora le nostre mani sporche e doloranti si cercavano, tremavamo frastornati, ubriachi per l’impresa e restavamo così, in silenzio, a cavalcioni di un tempo eterno.

 (Di Claudia Ciardi)



      Genova – Carruggio con vetrata, traversa di Canneto il Curto (zona S. Lorenzo) - Foto di Claudia Ciardi ©

6 marzo 2014

Oh Boy - Un caffè a Berlino




Oh Boy - Un caffè a Berlino 

di Jan Ole Gerster
Germania, 2012, 83’
Cast: Tom Schilling (als Niko Fischer), Friederike Kempter, Marc Hosemann, Katharina Schuttler, Justus Von Dohnanyi, Andreas Schröders, Arnd Klawitter, Martin Brambach, Frederick Lau, Ulrich Noethen, Michael Gwisdek
Fotografia: Philipp Kirsamer
Montaggio: Anja Siemens
Produzione: Schiwago Film, Chromosom Filmproduktion, Hessischer Rundfunk (HR)
Distribuzione: Academy Two


Esordio alla regia per Jan Ole Gerster che presenta un film brillante, leggero solo all’apparenza, disegnato in un bianco e nero asciutto e pulitissimo, dal quale lo sguardo dello spettatore si sente immediatamente catturato. Dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti in patria (ben sei Premi Lola, gli Oscar tedeschi, nel 2013), la pellicola ha trovato un riscontro più che positivo anche tra il pubblico italiano. Gerster si inserisce a pieno titolo tra i grandi narratori della metropoli da Walter Ruttmann, Friedrich Murnau, Fritz Lang, Karl Freund ai contemporanei Wim Wenders e Hannes Stöhr.
Una Berlino straniante, personaggio statuario e immenso, fa da contraltare alla voce del protagonista Niko Fischer, ex studente di giurisprudenza in crisi di identità, inguaribile perdigiorno che non riesce a darsi alcun obiettivo. La macchina da presa nelle mani di Gerster si trasforma in uno scandaglio che va pizzicando miserie e nobiltà della metropoli, pauroso specchio che invece di riflettere contorce, dea bistrata preposta al rito di una sconvolgente quanto esatta autoanalisi.
A partire dal documentario di Ruttmann del 1927, malinconico epos per immagini di quei “dorati anni Venti” scossi in realtà da innumerevoli contraddizioni e difficoltà, Berlino è il fulcro rappresentativo di una urbanitas letteraria la cui origine Joseph Roth fissa proprio nel confronto tra l’immaginario degli scrittori ebrei tedeschi e la realtà della capitale.
Questo film spinge sui tasti della flânerie, unendo agli espedienti tonali del vagabondaggio in strada, l’esplorazione di uomini e donne in cui il carattere della città ha creato bizzarre forme di adattamento, tutte connotate da una patologica insicurezza, una esasperata propensione al fraintendimento dell’altro e all’errore. In questo mulinare di nevrosi grandi e piccole, si può a momenti perfino compatire l’inadatto Niko Fischer. Attraverso i suoi occhi, ci si sveglia in una ordinaria giornata berlinese. Tempo di mollare la ragazza e accendersi una sigaretta nel tostapane di un appartamento, dove si ammassano soltanto scatoloni, gli eventi prendono subito una piega storta. Dopo aver mentito per due anni filati al padre, Niko si trova ad affrontare un genitore che, informato sui fatti, gli volta le spalle senza troppi giri di parole. Mentre procede nel viaggio, ma sarebbe più corretto dire, mentre il protagonista avanza verso se stesso, la spirale di incontri assume connotati sempre più paradossali.
A scandire i suoi brevi istanti di lucidità, il puro e semplice desiderio di farsi servire un caffè che però non arriva. L’impresa infatti si rivela più difficile del previsto, e proprio attorno a questa ricerca sempre più disperatamente allucinata che procede per un intero giorno, incontrando infine la notte della metropoli, con il suo fosco underground di periferia popolato da comparse erratiche e deliranti, prende campo la metamorfosi del protagonista. L’architettura delle stazioni ferroviarie –  luoghi di passaggio, labirinti nel labirinto dell’esistenza – ne veglia il procedere da una meta all’altra, che naturalmente non va secondo un cammino lineare ma avviene in un casuale accostamento di pretesti, i quali alla fine raggiungono un punto critico, spingendolo fuori dall’improvvido e grottesco girovagare. In questi scatti dall’alto, tra binari, scale, pensiline s’intravede una Berlino al rallentatore, molto più pacata e addirittura scarsamente frequentata di come è in realtà. O meglio, vi sono in effetti degli angoli della metropoli in cui ogni presenza pare ritrarsi come un’insolita marea. Gerster lavora esattamente su questi attimi in cui Berlino espira, restando immobile e senza contrazioni. Dalla finestra di casa, Niko osserva il treno, apparizione monitrice del tempo, richiamo al livello della strada, alla discesa nella realtà e quindi, alle scelte che non potranno più essere rimandate. Nessun appiglio si offre per sperare in un riscatto. Niente da fare, Niko non sa andare in fondo alle cose. Nell’angosciante trascinarsi quotidiano mette a segno solo due colpi: un buon tiro al golf, di fronte a un padre in vena di umiliarlo, e una fuga che lo salva da una contravvenzione per non aver timbrato il biglietto. Ma si tratta per l’appunto di due rivincite assolutamente stonate.
L’agognato caffè arriverà in un’alba solitaria, triste e allo stesso tempo liberatoria. La sequenza del risveglio della città è tra le cose più notevoli del film; angoli di strada ancora semideserti, cantieri incustoditi, ammiccanti lanterne che si avviano a spengersi, grattacieli che non suscitano inquietudine ma sprigionano una forza per certi versi rassicurante: la fotografia è essenziale, di un lirismo trascinante proprio per la grazia minimalista che la ispira. Il regista stacca velocemente da una parte all’altra, tentando una rappresentazione corale del respiro della grande città, in cerca di quell’unisono che percorre tutto il racconto e che qui, nell’attimo incantato e ancora incorrotto del nuovo giorno, alla fine riesce a affiorare.  
Niko trema di fronte alla tazza che gli è stata servita. Ha appena saputo della morte del suo ultimo compagno di strada, un vecchio saggio, e forse clochard, un santo bevitore incontrato nel cuore della notte, di cui si trova a ascoltare controvoglia i ricordi di un’infanzia berlinese tutt’altro che serena. Epilogo zen. Si esce dalla notte, gettandosi alle spalle un bel po’ di male di vivere e cortocircuiti generazionali, si prova a far pace coi pensieri e con quel buio insopportabile che viene dal dentro più che dal fuori, si prova a imboccare una strada, pur nel dissacrante rovesciamento del vivere contemporaneo.

(Di Claudia Ciardi)


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Berlin calling – La Recherche/ Icaro a Berlino. Tra catabasi e poesia di Claudia Ciardi




In questo blog:

Stemma di Berlino:
«Tributo fin dal titolo al ciclo di poesie della Kolmar sugli stemmi delle città tedesche, cui lo scrittore dedica l’avvio del suo saggio e il denso capitolo conclusivo, tra i più coinvolgenti dell’intera trattazione, questo volume sulla poesia della metropoli intreccia alcune delle voci più rappresentative dell’umore e della cultura berlinesi alle opere degli artisti contemporanei che le accompagnarono, ponendosi in molti casi come loro fonte d’ispirazione.
Franco Buono conduce la sua ricerca seguendo gli sviluppi contemporanei di due potentissimi archetipi mitologici, che esprimono anche una fatale mescolanza di spazio e di tempo, ossia il labirinto e la metamorfosi, alla quale è soggetto chi abbraccia un percorso la cui destinazione appare a un primo sguardo indecifrabile».

«Estate 1882. Carl e Felicie Bernstein ritornano a Berlino da Parigi con un gruppo di opere pittoriche di impressionisti. I Bernstein, emigrati nella metropoli tedesca dalla Russia, avevano acquistato tele di Manet, Monet, Sisley e Pissarro. Questi lavori formano il cuore della prima collezione di arte impressionista a Berlino. La casa dei Bernstein era il luogo di un salone settimanale, frequentato da artisti quali Adolph Menzel, Max Klinger e Max Liebermann, e da storici e critici come Theodor Mommsen e Georg Brandes. Un anno più tardi, nell’ottobre 1883, l’ampio pubblico ebbe l’opportunità di vedere queste pitture, essendo incluse in un’esposizione di impressionisti alla Galerie Fritz Gurlitt di Berlino».

«Opera del ’74, in questo film Wenders si cimenta in una narrazione doppia. Da una parte c’è il viaggio dei protagonisti che è tuttavia un divagare senza meta, il quale, invece di apportare un progresso, produce perdita e alienazione; dall’altra c’è una scrittura che affiora proprio dalle immagini del movimento di cose e persone, rivelando specularmente la sagoma più intimista del racconto. Falso movimento è l’ars poetica di Wenders, il lavoro dove con la maggiore incisività viene formulata la domanda di fondo che percorre l’intera sua produzione, ossia come possa la tecnica cinematografica definire la falsità caratteriale che ispira il movimento cinema. Ritmicità quasi ossessiva, quella con cui i mezzi di spostamento e comunicazione sono rappresentati sulla scena, già peraltro fotografati nel ruvido espressionismo della metropoli contemporanea in Alice nelle città».
    

10 marzo 2013

Joseph Roth - Viaggio in Russia – Reise nach Russland


Sull’imborghesimento della rivoluzione russa


Francoforte sul Meno, gennaio 1927

«Signori,
questa sera mi sforzerò di dimostrarvi che la borghesia è immortale. La più crudele di tutte le rivoluzioni, la rivoluzione bolscevica, non è stata in grado di annientarla. E non basta: questa crudele rivoluzione bolscevica ha creato il proprio borghese. Voglio confessarvi che il punto interrogativo dopo il titolo della mia conferenza di oggi non stava a significare un mio dubbio sull’esistenza del borghese bolscevico, ma aveva lo scopo di risvegliare la vostra curiosità. Io non volevo dire, insomma: è mai possibile che esista un borghese bolscevico? Volevo dire invece: non è una battuta di spirito che si possa parlare di un borghese bolscevico?»


[…]


«Il marxismo riuscì a portare la rivoluzione in un popolo borghese, qual è ed era ancora di più il popolo tedesco negli anni in cui nasceva la socialdemocrazia. Da veterani che portano il cilindro nel genetliaco dell’imperatore è probabile che l’audacia di un testo come il Manifesto dei comunisti possa far nascere dei rivoluzionari. Ma da un autentico popolo di cavalieri, quale il popolo russo è sempre stato, il marxismo fa nascere, in senso estetico-letterario, dei borghesi. Chi non ha molta dimestichezza con la storia russa degli ultimi decenni è facilmente propenso a confondere i comunisti di oggi con gli attentatori audaci e realmente eroici che cominciarono a scuotere lo zarismo sin dagli ultimi decenni del XIX secolo e che fecero cadere zar e ministri. Eppure quei lanciatori di bombe non erano affatto marxisti, erano socialrivoluzionari, più odiati dai socialisti di quanto lo siano i conservatori borghesi. I comunisti più audaci, Trockij, Radek, Lenin, al confronto dei social rivoluzionari hanno un aspetto molto per bene, molto borghese. Essi, infatti, hanno seguito un principio secondo il quale la passione è dannosa, il temperamento irrilevante, l’entusiasmo sintomo di debolezza. Applicare questo principio significa fare violenza al popolo russo. Ironie della storia ce ne sono sempre state. Ma che la storia del mondo si riveli una beffa è qualcosa che si sperimenta di rado. Ebbene, questo è proprio un caso in cui la beffa della storia è palese. Questa teoria che dovrebbe liberare il proletariato, che ha come scopo la creazione dello Stato e dell’umanità senza classi, questa teoria, là dove viene applicata per la prima volta, fa di tutti gli uomini dei piccolo-borghesi. E per colmo di sfortuna, le sue prime prove le fa proprio in Russia, dove i piccolo-borghesi non sono mai esistiti. In Russia, appunto, il marxismo si presenta soltanto come una componente della civiltà borghese-europea. Anzi, sembra quasi che la civiltà borghese europea abbia affidato al marxismo il compito di farle da battistrada in Russia.
Non so se qualcuno di voi conosca la vecchia Russia. Chi è stato in Russia, anche solo una volta, ha visto quanto era grande la differenza fra la borghesia europea e quella russa. Il mercante russo ha una tradizione cavalleresco-aristocratica. In Russia furono in mercanti a conquistare e colonizzare la Siberia; essi uccidevano ancora con le loro mani gli orsi di cui vendevano le pellicce, erano cacciatori di animali e di uomini, e fondarono in Asia i primi insediamenti. Questa tradizione restò viva fino a pochi anni fa. Il mercante moscovita correva per le vie della città in licia, una carrozza elegante, la più veloce del mondo, e si faceva un punto d’onore di incitare il suo cavallo fino a farlo crollare; era un vero “signore”, nel senso feudale della parola. Secondo la teoria marxista, naturalmente, anche in Russia esistevano i borghesi, e cioè della persone che vivevano di lavoro improduttivo. Ma per mentalità e modo di vivere, per concezione del mondo e consuetudine, questi borghesi erano più aristocratici, per esempio, dei nostri Junker prussiani».


[…]


«Non si balla il charleston perché il mondo è capitalista. Si balla il charleston perché esso è una delle forme di espressione artistica o di espressione della socievolezza della nostra epoca. Un uomo non è piatto o banale solo perché guadagna tanti soldi, come non è profondo e intelligente perché sta vicino a una macchina. Fra il lavoratore e il datore di lavoro, che si fronteggiano con tanta ostilità, ci sono più somiglianze di quel che entrambi non sappiano. Avere in comune il presente è un legame più forte che avere in comune un modo di pensare, e il contemporaneo vivo mi è più vicino del compagno di partito morto. Perciò se il comunismo vuole spingere la Russia che rispetto all’Europa era in ritardo di cento anni, nel cuore del presente, esso non può fare altro che renderla borghese. Il presente, infatti, è borghese. La rivoluzione russa non è affatto una rivoluzione proletaria, come pensano i suoi rappresentanti. È una rivoluzione borghese. La Russia era un paese feudale. Ora comincia a diventare un paese urbano, un paese di cultura cittadina, un paese borghese».


[…]


«Credo che i comunisti stessi si ingannino sul reale atteggiamento della popolazione nei riguardi della loro ideologia. I comunisti che sono oggi al potere, infatti, già da un pezzo non sono più i raffinati dialettici di una volta. Sono dei buoni, coscienziosi, mediocri ottimisti e dogmatici. Altrettanto ingenua come l’idea che essi si fanno del borghese è l’idea che si fanno dell’efficacia della loro ideologia sui non proletari russi. Basta che andiate a vedere un film russo, non uno dei film che vengono esportati nei paesi dell’Europa occidentale, e che per lo più sono dei buoni film, ma uno dei tanti prodotti confezionati per il mercato interno, chiuso e duro d’orecchio, uno di quei film con il borghese cattivo, che porta sempre il cilindro e il pancione. Tiene in mano amorevolmente un orologio costosissimo, e il suo cuore nero è pieno di crudeltà verso il proletario. Tutto questo, del resto, non mi meraviglia affatto. Neppure i dirigenti più assennati del partito comunista, infatti, hanno mai visto da vicino un vero borghese. Certo, hanno abitato in alcune città dell’Europa occidentale, m nei quartieri proletari; non hanno mai avuto occasione, purtroppo, di vedere una casa borghese, e tute le volte che parlano dei borghesi si servono del goffo, piatto cliché che si trovano a disposizione: forse, nel migliore di casi, il borghese svizzero, così come lo ricordano da Zurigo, la località da loro prediletta come luogo d’esilio».


Sul Volga fino ad Astrachan


Frankfurter Zeitung, 5 ottobre 1926

«Il battello a vapore che percorre sul Volga il tratto da Nižnij-Novgorod ad Astrachan galleggia bianco e festoso nel porto. Fa pensare a una domenica. Un uomo scuote una piccola campana, inaspettatamente squillante. I facchini, con addosso soltanto dei pantaloni di maglia e la cinghia da carico, attraversano in fretta la sala di legno. A vederli sembrano dei lottatori. Davanti al botteghino sostano centinaia di persone. Sono le dieci di un limpido mattino. Soffia un vento sereno. È come quando arriva un nuovo circo fuori città».

[…]

«La quarta classe sta giù, molto in basso. I suoi passeggeri trascinano pesanti fagotti, ceste da poco prezzo, strumenti musicali e attrezzi agricoli. Tutte le nazionalità che abitano lungo il Volga e oltre, nella steppa e nel Caucaso, vi sono rappresentate: ciuvasci, ciuvani, zingari, ebrei, tedeschi, polacchi, russi, kazachi, chirghisi. Ci sono cattolici, ortodossi, musulmani, lamaisti, pagani, protestanti. Ci sono vecchi, padri, madri, ragazze, bambini. Ci sono piccoli agricoltori, artigiani poveri, musicanti girovaghi, corsari ciechi, venditori ambulanti, lustrascarpe adolescenti e bambini abbandonati, i besprizornye, che vivono di aria e di sventura. Uomini e donne dormono in cassetti di legno a due piani, gli uni sopra gli altri. Mangiano zucche, cercano pidocchi sulla testa dei bambini, allattano neonati, lavano pannolini, fanno bollire il tè e suonano la balalaika e l’armonica a bocca.
Di giorno questo spazio ristretto è umiliante, rumoroso e indegno. Di notte invece erra su di esso un senso di raccoglimento. La povertà che dorme ha nel suo aspetto qualcosa di sacro. Su tutti i visi è impresso il pathos autentico dell’ingenuità. Tutti i visi sono come porte aperte, attraverso le quali si vede nelle anime bianche, luminose».


[…]

«“Lo vede?” mi disse un americano sul battello. “Che cosa ha ottenuto la rivoluzione? I poveri si pigiano giù in basso e i ricchi giocano a sessantasei!”
“Ma è anche l’unica attività”, dissi io “alla quale possono dedicarsi senza alcuna preoccupazione! Il più povero lustrascarpe della quarta classe oggi è cosciente che potrebbe salire qui da noi se soltanto ne avesse voglia. I ricchi uomini della Nep hanno appunto paura che possa arrivare da un momento all’altro. ‘Alto’ e ‘bass’ sul nostro battello non sono più da un pezzo termini simbolici, sono termini puramente oggettivi. Forse un giorno ridiventeranno simbolici.”
“Lo ridiventeranno” disse l’americano.


Il cielo sul Volga è vicino, piatto e dipinto di nuvole immobili. Dalle due parti, dietro le rive, si vede fino a molto lontano, ogni albero che spunta, ogni uccello che si alza in volo, ogni animale che pascola. Un bosco qui fa l’effetto di una creazione artificiale. Tutto tende ad allargarsi e a disperdersi. Villaggi, città e popoli sono separati da grandi distanze. Si stagliano le fattorie, le capanne, le tende abitate da nomadi, ciascuna è circondata di solitudine. Le molte diverse tribù non si mescolano fra loro. Anche chi ha assunto stabile dimora resta un nomade per tutta la vita. Questa terra dà il senso della libertà, come da noi lo danno soltanto l’acqua e l’aria. Qui anche gli uccelli preferirebbero non volare se potessero spostarsi a piedi. L’uomo invece passa su questa distesa come su un cielo, veloce e senza meta, un uccello terrestre.
Il fiume è come il paese: ampio, infinitamente lungo (da Nižnij-Novgorod fino ad Astrachan ci sono più di duemila chilometri) e lentissimo. Solo dopo molto tempo spuntano lungo le sue rive le “colline del Volga”, come bassi dadi. Il lato interno, spoglio e roccioso, è rivolto verso il fiume. Sono qui soltanto per spezzare la monotonia; quando Dio le creò, era in vena di scherzare. Dietro di esse si estende di nuovo la pianura, davanti alla quale gli orizzonti arretrano sempre più lontano, fino alla steppa e oltre.
La steppa manda il suo vasto respiro sulle colline, sul fiume. Si sente il sapore amaro dell’infinito. Al cospetto delle alte montagne e del mare infinito ci si sente sperduti e minacciati. Di fronte alla vasta pianura l’uomo è sperduto e però si consola. Non è niente di più di un filo d’erba ma non sarà inghiottito: è come un bambino che si sveglia nelle prime ore di un mattino domenicale, quando tutti dormono ancora. È sperduto ma anche protetto nel silenzio sconfinato. Quando ronza una mosca, quando una pendola batte con suono soffocato, c’è in questi rumori la stessa tristezza consolante, perché ultraterrena e senza tempo che c’è in una vasta pianura».


[…]


«Una strada maestra collega il porto di Kazan’. La strada è un fiume, ieri è piovuto. In città gorgogliano stagni silenziosi. Raramente spuntano alla superficie avanzi di selciato. Le targhe delle vie e le insegne dei negozi sono schizzate di fango e illeggibili. Doppiamente illeggibili, del resto, perché in parte scritte nella vecchia grafia turco-tatara. Perciò i tatari preferiscono starsene seduti davanti ai negozi ed enumerare le loro merci a tutti coloro che passano. Sono commercianti avveduti, a quel che si dice. Sul mento portano un pizzo nero. Dopo la rivoluzione la vecchia tradizione popolare dell’analfabetismo è diminuita fra loro del venticinque per cento. Adesso molti sanno leggere e scrivere. Nelle librerie si trovano pubblicazioni in lingua tartara, gli strilloni gridano nomi di giornali tartari».


[…]


«Fra i tartari, come fra la maggior parte dei popoli musulmani della Russia, la religione più che una fede è una pratica consueta. La rivoluzione ha cancellato un’abitudine, più che soffocato un bisogno. I contadini poveri qui sono contenti, come lo sono in tutti i governatorati del Volga. I contadini ricchi, ai quali molto è stato portato via, sono scontenti qui come dovunque, come i tedeschi a Pokrovsk, come i contadini di Stalingrado e quelli di Saratov.
I villaggi sul Volga – con l’eccezione di quelli tedeschi – danno del resto al partito i giovani adepti più devoti. Nelle zone del Volga l’entusiasmo politico proviene più spesso dalla campagna che non dal proletariato cittadino. Molti di questi villaggi erano lontanissimi dalla civiltà. I ciuvasci, per esempio, sono “pagani” ancora oggi, di nascosto. Adorano idoli e offrono ad essi dei sacrifici. Per l’abitante ingenuo e primitivo di un villaggio sul Volga il comunismo si identifica col progresso».


[…]

«Le città lungo il Volga sono le più tristi che io abbia mai visto. Fanno pensare alle città francesi che sono state distrutte nella zona di guerra. Le loro case bruciarono nella guerra civile rossa; le macerie, poi, videro la fame bianca passere al galoppo lungo le strade.
Gli uomini morirono cento volte, mille volte. Mangiarono gatti, cani, corvi, topi e i bambini morti di fame. Si ferirono le mani a morsi per bere il proprio sangue. Rasparono la terra alla ricerca di vermi grassi e di calce bianca, che l’occhio scambiava per formaggio. Due ore dopo aver mangiato, morivano fra dolori atroci. Eppure queste città sono ancora vive! Eppure uomini e donne mercanteggiano e trasportano bagagli e vendono mele, tirano su i bambini e partoriscono! Sta già crescendo una generazione che non conosce l’orrore, stanno già sorgendo impalcature, falegnami e muratori sono già al lavoro per costruire nuove case.
Non mi meraviglio che queste città siano così belle solo dall’alto e da lontano; che a Samara un caprone mi abbia impedito di entrare in albergo; che a Stalingrado mi sia piovuto in camera un acquazzone; che i tovaglioli siano di carta da pacchi colorata. Se si potesse andare a spasso sui tetti, così belli, invece che sulle gobbe del selciato!»


I prodigi di Astrachan


Frankfurter Zeitung, 12 ottobre 1926


«Ad Astrachan c’è un piccolo parco, con un padiglione al centro e una rotonda in un altro. La sera si paga il biglietto e si va nel parco a sentire l’odore dei pesci. Dato che è buio, viene da pensare che i pesci siano appesi agli alberi. Le proiezioni cinematografiche si svolgono all’aperto e così pure i primitivi spettacoli di cabaret. Qualche volta le orchestrine dei cabaret suonano allegre canzoni dei tempi passati. Si beve birra e si mangiano i granchi rosa che mangiano poco. Non passa ora in cui non si senta il desiderio struggente di essere a Baku. Purtroppo il vapore fa servizio solo tre volte la settimana. Per poter pensare più intensamente al vapore, vado a piedi fino al porto. Dalla banchina numero 18 si potrà partire per Baku. Dopodomani. – Come è lontano dopodomani! – I calmucchi remano nelle barche, i chirghisi conducono cammelli in città tirandoli per la solita cavezza, i commercianti di caviale fanno chiasso nell’agenzia, i contadini ignari, in attesa del battello, se ne stanno accampati sull’erba, due giorni e due notti, gli zingari giocano a carte».


[…]


«La gente equipaggiata per Astrachan porta lunghi mantelli antipolvere col cappuccio, proprio come i cavalli. Nelle notte scarsamente illuminata si vedono passare degli spettri, tirati da cavalli spettrali. Nonostante tutto questo, ad Astrachan ci sono un istituto tecnico superiore, delle biblioteche, dei club e dei teatri, dei gelati sotto una lampada ad arco che dondola, frutta e marzapane dietro veli di garza che sembrano veli da sposa. Pregai Dio che fosse alleviato il flagello della polvere. Il giorno seguente Egli mandò una pioggia torrenziale. Il soffitto della mia camera d’albergo, che era stato viziato dalla polvere, dal vento e dalla siccità, atterrito crollò sul pavimento. Non avevo pregato che piovesse tanto. Tuoni e fulmini. La strada era irriconoscibile. Le carrozze avanzavano gemendo, affondando nel fango fino a mezza ruota, i cerchioni grondanti di grigi, pesanti, molli ammassi di mota. Gli spettri gettarono indietro i cappucci e aprirono degli strumenti umani e a me familiari».


[…]


«Senza questa pasticceria non avrei potuto lavorare; per scrivere, la materia prima più importante è il caffè. Le mosche, invece, sono superflue. Eppure erano sempre lì, mattino, mezzogiorno e sera. Le mosche, non i pesci, costituiscono il novantotto per cento della fauna di Astrachan. Non servono poprio a niente, non sono oggetto di traffici, nessuno vive di mosche; ma loro vivono di tutti. In fitti sciami neri ricoprono cibi, zucchero, vetri delle finestre, piatti di porcellana, avanzi, cespugli e alberi, pozzanghere e letamai, e perfino tovaglie del tutto spoglie, sulle quali un occhio umano non riesce a scorgere nutrimento di sorta. La minestra rovesciata che ha impregnato la tovaglia, anche quando è asciugata da un pezzo, le mosche riescono a succhiarla dalle molecole della stoffa da un cucchiaio. Sui camiciotti bianchi indossati qui dalla maggior parte degli uomini le mosche si posano a migliaia, sicure e trasognate, non volano via quando il loro ospite si muove, restano due ore sulle sue spalle, sono esseri senza nervi le mosche di Astrachan, hanno la calma dei grandi mammiferi, o forse dei gatti e dei loro nemici nel mondo degli insetti, i ragni…»


[…]


«La carta moschicida, che è stata inventata da un americano, e che io odiavo più di ogni altra benedizione della civiltà, mi appare ad Astrachan come un prodotto nobile e umanitario. Ma in tutta Astrachan non c’è una sola striscia di questa preziosa materia gialla. Nella pasticceria domando: come mai non avete della carta moschicida! La gente accampa dei pretesti e risponde: Ah, se lei avesse visto Astrachan prima della guerra, solo due mesi prima della rivoluzione! – È l’oste che lo dice, e anche il commerciante. Dare man forte alle mosche reazionarie è il loro modo di opporre resistenza, una resistenza passiva. Un giorno o l’altro questi animaletti divoreranno la grande Astrachan, col suo pesce e il suo caviale.
Alle mosche di Astrachan preferisco i mendicanti, che qui sono più numerosi che in qualsiasi altra città. Singhiozzando forte, cantando, gridando le loro pene, si aggirano lenti per le strade come seguendo il proprio cadavere, si riversano in tutte le birrerie, ricevono un copeco soltanto da me – e di questo copeco vivono! – Di tutti i prodigi di Astrachan è questo il più strabiliante…»

(Traduzione di Andrea Casalegno)




JOSEPH ROTH (1894-1939) was the great elegist of the cosmopolitan, tolerant and doomed Central European culture that flourished in the dying days of the Austro-Hungarian Empire. Born into a Jewish family in Galicia, on the eastern edge of the empire, he was a prolific political journalist and novelist. On Hitler's assumption of power, he was obliged to leave Germany and he died in poverty in Paris.


See also: Joseph Roth in Granta books





Panoptikum am Sonntag
Für Benno Reifenberg



Eines Tages – es war ein Sonntag – wich die Scheu, mit der ich oft an dem Musée Grevin vorbeigegangen war. Es regnete in Abständen. Die Wolken, die aus Schwefel zu sein schienen, strömten ein gelbes Licht aus. Am Nachmittag bekamen die sonntäglich gekleideten Menschen den Ausdruck abgekämpfter, feierlicher und vergeblich auferstandener Schatten. Es war, als ob der Sonntag, zu dem sie ausgezogen waren, ausgefallen sei. An seiner Stelle befand sich eine Art verregneter und trüber Lücke, die den verflossenen Samstag vom künftigen Montag trennte und in der die verlorenen Spaziergänger umherschwankten, geisterhaft und körperlich zugleich und alle wie aus Wachs. Mit ihnen verglichen waren die wächsernen Puppen im Musée Grevin aufrichtigere Imitationen. Das gelbe Licht der Lampen in den fensterlosen Räumen, die niemals den Tag gekannt hatten, vermischte sich so innig mit dem Dämmer, der aus den Winkeln kam, daß beide aus dem gleichen Stoff zu sein schienen und Hell und Dunkel Geschwister. Die Gestalten der Geschichte und die bescheinigte Authentizität ihrer Gesichter, Bratenröcke, Kostüme, Zylinder; die Schatten, die sie wie zum Beweis ihrer Lebendigkeit auf den Fußboden warfen; die wächserne Starrheit ihrer Stellungen; und schließlich die unheimliche Stummheit, die lebende Zeitgenossen und längst Verstorbene gleichmäßig ausströmten: das alles kam mir wie eine angenehmere Fortsetzung und Bestätigung jenes gelben Sonntags vor, den ich eben verlassen hatte. Manche Persönlichkeiten hielten den einen Fuß vorgestreckt, die Hose warf unter dem Knie ebenso lebenswahr unbeabsichtigte Falten wie über dem Hals das Kinn ein Doppelkinn, und hundert kleine Nachlässigkeiten des Schneiders und der Natur waren bemüht, selbst dem verstockten Zweifler die wahre Existenz der Figuren zu beweisen. Ja, der Zuschauer kam oft dazu, mit dem eigenen Wunsch die Absicht des Panoptikums zu unterstützen.

Auf den Gesichtern der lebendigen Besucher wieder lagerte ebenfalls eine Stummheit, die aus Ehrfurcht, Schrecken und Staunen bestand, wie ein matter Widerschein jener Figuren. Niemand wagte laut zu sprechen. Alle flüsterten oder murmelten, als befänden sie sich wirklich in der Nähe der bedeutenden oder furchtbaren Persönlichkeiten und als könnten sie durch einen stärkeren Laut die Puppen zu einem unwilligen Fluch veranlassen. Ein Geruch von lange ungelüfteten Kleidern schwebte um alle Denkmäler und machte sie noch realer. Gleichzeitig aber mit der Furcht, die sie einflößten, fühlte man eine Art Mitleid mit ihnen, den ewig eingeschlossenen, und empfand es fast als ein Unrecht, daß ihre Vorbilder, die noch lebten, in der schönen freien Luft und an den grünen Tischen der Weltgeschichte atmen und handeln durften. Es war, als stünde hier im Panoptikum der wahre Poincaré zum Beispiel und draußen führe irgendwo in einem Auto zu einem offiziellen Ereignis der nachgemachte. Denn alles Wesentliche und Kennzeichnende schien die wächserne Puppe dem lebendigen Vorbild abgelauscht und weggenommen zu haben, so daß dieses ohne seine stabilen Züge in der Welt herumlief. Und ebenso wie die Zeitgenossen der Erde, so schienen die toten Heroen dem Jenseits entwendet worden zu sein; und für die Dauer meines Aufenthalts im Panoptikum war es mir klar, daß sich in der Unterwelt nur die billigen Durchschnittsschatten aufhalten konnten, die für die Geschichte wie für das Musée Grevin überhaupt nicht von Bedeutung waren.

Im Sterbezimmer Napoleons auf St. Helena roch man das schwelende Licht, obwohl es von einer elektrischen Birne kam, und man erstarrte in Ehrfurcht vor dem doppelten Schweigen des Todes: dem metaphysischen und dem imitierten. Für die Ewigkeit festgehalten war die Ewigkeit selbst, und das Flügelrauschen des Todesengels hatte seine Flüchtigkeit verloren und war beständig geworden, eingefangen im Sterbezimmer. Die authentischen Gegenstände aus Napoleons Besitz, seine Taschenuhr zum Beispiel, die auf dem Nachttisch lag, strömten eine überzeugende Echtheit aus, wie Gewürze Düfte verbreiten. Jede kleinste Lücke zwischen den nachgemachten Tatsachen, in die etwa die Phantasie des Betrachters hätte schlüpfen können, war ausgefüllt mit einer nachgemachten Wahrscheinlichkeit zumindest. Also war die Wirklichkeit nicht nur imitiert, sondern sogar übertroffen. Es war eine Welt, in der jede körperliche Erscheinung der menschlichen Phantasie vorgriff, um sie überflüssig zu machen, und in der alles plastisch vorhanden zu sein schien, was man sich sonst mit geschlossenen Augen kaum in verschwimmenden Umrissen ausmalen darf. Die Schatten waren eben Körper geworden und warfen eigene Schatten.

Über allem lag eine makabre Stimmung. Aber sie entströmte nicht so sehr den dargestellten Katastrophen (wie etwa der Christenverfolgung in Rom und der unterirdischen Welt der Katakomben), sondern viel eher der unerbittlichen Körperlichkeit, in die alle Ausgeburten der Phantasie hineingesprungen waren, dieser wächsernen Härte, umgeben von historisch unanfechtbaren Requisiten und diesem legitimen Geschichtsunterricht, an dem nicht mehr gezweifelt werden konnte, einfach, weil er aus Wachs war und gar nicht vom Fleck zu rühren. Es war wie eine Begegnung mit okkulten Erscheinungen, obwohl alles Okkulte und der Vernunft schwer Zugängliche rationalistisch präpariert allen irdischen Sinnen aufgedrängt wurde. Man konnte Wunder mit körperlichen Augen sehen und war infolgedessen ein bißchen niedergedrückt und in Sorge, die liebe Erde zu verlieren, auf der man so gerne glaubend und zweifelnd herumwandert.

Nur in einer einzigen Abteilung – Palais de Mirages, im Märchenpalast also – war die Begegnung mit dem Wunderbaren nicht schrecklich, sondern heiter. In diesem Palast sind alle Wände und die Decke aus Spiegeln. In der Mitte stehen ein paar Säulen, deren Aufgabe es ist, nicht die Decke zu stützen, sondern sich selbst zu vervielfältigen. Es ist ein besonderes System drehbarer Spiegel, die ein unwahrscheinliches Getöse verursachen, sobald man sie in Bewegung bringt. Um das Getöse zu übertönen, veranstaltet ein Orgelmechanismus eine Opernmusik, die aus Porzellanhimmeln, Messingsphären und Stanniolplaneten zu kommen scheint. Eine Zeitlang ist es stockfinster. Eine Pause, die dazu dient, die erregten Sinne auf ein neues Märchen vorzubereiten, und allen Besuchern Gelegenheit gibt, die Körper ihrer vertrauten Begleiterinnen wie fremde Wunder im Finstern zu fühlen. Dann leuchtet es langsam auf, von hunderttausend Lampen und Ampeln, violett, gelb, grün, blau, rot, und man befindet sich im orientalischen Palast, der von durchsichtigen Säulen getragen wird. Vor einigen Minuten waren es noch dichtbelaubte Eichen und Ahornbäume, und man befand sich in einem deutsch-französischen Märchenwald mit Orgelgezwitscher. Bald dröhnt es wieder, und flugs stehen wir unter einem blauen Sternen- und Kometenzelt.

Erst in diesem Palast gelangten die Besucher aus der flüsternden Furcht in ihre natürliche Spektakelfreude. Denn sosehr auch hier das Unwahrscheinlichste wirklich geworden war, so blieb doch diese von vornherein zugestandene Märchenhaftigkeit ein Kinderspiel, verglichen mit den Wahrscheinlichkeiten und Wirklichkeiten der menschlichen Geschichte. Es war keineswegs merkwürdig, aus dem Wald in die Alhambra mit einem Schlag versetzt zu werden. Aber unmöglich schien die Kreuzigung Christi, der Tod Napoleons, die Ermordung Marats, das Zirkusspiel der Römer. Ja, selbst die zeitgenössischen Politiker, deren Leistungen erst in hundert Jahren die panoptikale Reife erlangt haben werden, wirkten schon so, wie sie dastanden, im Bratenrock und Zylinder, unmöglich und gespenstisch. Wie wenige von all den Besuchern wußten, daß sie vor sich selbst erschrocken waren und eigentlich noch in den Straßen hätten erschrecken müssen – – vor ihrem eigenen Spiegelbild in einem Schaufenster! Da gingen sie wieder herum, aus Wachs und aus Gips, mit allen Schrecknissen des Panoptikums in der eigenen Brust, und eines jeden Seele war eine Folterkammer. Es regnete immer noch, schief und strichweise, die gelben Wolken galoppierten über den Dächern, und tausend Regenschirme schwankten unheimlich über den Köpfen der Unheimlichen ...



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