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31 maggio 2014

Hannes Stöhr - Icaro a Berlino


Berlin calling - Tra catabasi e poesia filmate da Hannes Stöhr



Regia: Hannes Stöhr
Sceneggiatura: Hannes Stöhr
Interpreti principali: Paul Kalkbrenner, Rita Lengyel, Corinna Harfouch, Araba Walton, Peter Schneider
Produzione: Germania, 2008
Durata: 100’

Presentato ai Festival di Belino, Locarno, Amburgo e Toronto, «Berlin Calling» racconta la storia di un musicista nella Berlino di oggi. Il protagonista è interpretato dal DJ e producer Paul Kalkbrenner, uno dei maggiori artisti della scena electro berlinese e autore della bellissima colonna sonora. La sua è una dolorosa catarsi attraverso l’arte che gli permette di uscire dal tunnel della droga. Riproponiamo l'articolo che abbiamo scritto per la proiezione del film nelle sale italiane nel 2011.



Vibrazioni di una metropoli. Metamorfosi al nero, scandita dagli ambienti della tecno. Gradazioni e risonanze fotografate dalla notte all’alba, intenso lirismo di una città al risveglio. Ritmo della capitale confuso alla sinfonia elettronica di un corpo urbano e umano in continuo movimento.
Hannes Stöhr, inserendosi nel filone dei tanti film che hanno cantato "l'aria di Berlino", ci racconta l'aspetto più dimesso del suo carattere ma forse anche quello che meglio la rappresenta, sempre in bilico tra malinconica ritrosia e voglia di comunicare. La sua mano coglie sapientemente l’umore mutevole dell’uderground tedesco, cui partecipano differenti tonalità di voce e colore, Farbabstimmungen, dialoganti in un paesaggio comune.
E proprio questo denso intreccio di segni avvolge il protagonista, Paul Kalkbrenner, nella realtà animatore della Berlino notturna e uno dei compositori di tecno più in voga in Germania, che nei panni di un tormentato alias, il dj Ickarus, fragile e sensibile genio della musica, mette a rischio la propria vita a causa di una brutta dipendenza dalle droghe.
Prigioniero di una spirale soffocante, all’insegna dell’eccesso e dello sballo, scivola sempre più giù, concludendo il viaggio al termine della notte in una clinica di riabilitazione. Le ore che precedono il ricovero sono una passeggiata sull’orlo del precipizio. Ickarus, nell’impossibilità di controllare il proprio corpo, si trascina ai confini di se stesso. Silenzioso testimone di questa allucinata 'catabasi' il profilo del muro, sponda fisica di una ferita che scende nel cuore della città. In fondo alla barriera incontra la dottoressa Petra Paul, interpretata da una straordinaria Corinna Harfouch, con cui condivide tensioni, contrasti, a tratti anche molto duri, e momenti di abbandono, durante i quali lascia straripare la propria emotività in piena.
Icka vuole dimostrare che la sua musica, grazie all’energia che mette in circolo in lui e attorno a lui, è l’unica cosa in grado di fargli mantenere un contatto col mondo e permettergli un ritorno alla vita. Il respiro metropolitano, le storie di uomini e donne che lì si amano, soffrono, si perdono, perfino l’odore e il rumore della S-Bahn, lo attraversano. Tutto entra in lui, con forza, e la musica della rinascita viene da un ascolto continuo, da una sintonia di corpi e immaginazioni che, al pari di una marea, non smettono mai di fluire.
I pezzi onirici della colonna sonora, firmati da un ispiratissimo Kalkbrenner, non solo presiedono alla struggente trasformazione umana del protagonista ma anche a quella di una città che vive in simbiosi il medesimo stato emozionale.
L’alternanza dei piani visivi accompagna il faticoso percorso di Icka in uscita dal tunnel. Intento a guardare lo skyline dal tetto del reparto, ora somiglia a un Prometeo incatenato alla sua pena, sempre sul punto di venir meno, conteso tra alto e basso, tra fuori e dentro; ora condivide la sorte di Filottete, il quale, abbandonato dai compagni su un’isola deserta a causa della piaga che lo affligge, sviluppa con l’ambiente un profondo legame simpatetico, sopravvivendo così all’emarginazione.
Qui, si tratta del cielo sopra Berlino.
La cima della Siegessäule è sostituita dalla sagoma ammiccante della torre che domina l’Alexanderplatz. Trionfante miraggio offerto al volo del nostro moderno taumaturgo, il quale tuttavia non riesce a trarne neppure per un attimo la gioia dell’hiersein né a intravedervi una via per la salvezza, ma è costretto semmai a riconoscere intero il peso del suo spaesamento e della sua solitudine.
È una creatura schiacciata dall’impulso dell’Alto, quasi angelo rilkiano, la cui parola rinuncia a descrivere le dissolvenze dello spazio esteriore, dato in maniera ingannevole come forma e concretezza, per preservarne la vera rappresentazione nell’indicibile interiore. Angelus Novus, fin troppo umano e dolente, irrimediabilmente impigliato alla sua caduta, consapevole che nel risveglio si nasconde il rischio della propria dissoluzione.
«Forse sonno di giganti/ del nostro sangue caldo», Icarus doppia nel suo slancio i versi del poeta, perché la sua volontà inesausta ugualmente si protende sulla sconfinante lontananza dell’abisso. E proprio nel suo cuore acceso sopravvive la scintilla del riscatto. Questo è il richiamo di Berlino. Berlino – anzi il dio stesso della città – comincia qui. Così pure Walter Benjamin, che con vivida empatia aveva saputo cogliere, molto tempo prima, il nodo di pulsazioni inquiete e allo stesso tempo capaci di rassicurare, stretto alle fondamenta della città.
Sotto la pelle degli sfondi metropolitani, catturati nel loro delirio chiaroscurale e accarezzati dal misticismo dissonante della melodia di Altes Kamuffel, scorre un moto di ribellione, inseguito, cullato, vibrato, fino ad arrivare all’urlo di Revolte.
Lentamente, ma procedendo anche per violenti strappi, ci si lascia alle spalle il labirinto e si esce di nuovo all’aperto, non prima però di un’estrema danza con la morte sui binari della metropolitana, culmine allegorico del viaggio. E i sotterranei della stazione diventano l’archetipo di ogni “discesa”, giacché l’esperienza poetica è esattamente questo, restare sospesi a un passo dal baratro e riportarne in superficie quella necessità deflagrante da opporre alla devastazione del nulla.

(Claudia Ciardi, febbraio 2011)



6 marzo 2014

Oh Boy - Un caffè a Berlino




Oh Boy - Un caffè a Berlino 

di Jan Ole Gerster
Germania, 2012, 83’
Cast: Tom Schilling (als Niko Fischer), Friederike Kempter, Marc Hosemann, Katharina Schuttler, Justus Von Dohnanyi, Andreas Schröders, Arnd Klawitter, Martin Brambach, Frederick Lau, Ulrich Noethen, Michael Gwisdek
Fotografia: Philipp Kirsamer
Montaggio: Anja Siemens
Produzione: Schiwago Film, Chromosom Filmproduktion, Hessischer Rundfunk (HR)
Distribuzione: Academy Two


Esordio alla regia per Jan Ole Gerster che presenta un film brillante, leggero solo all’apparenza, disegnato in un bianco e nero asciutto e pulitissimo, dal quale lo sguardo dello spettatore si sente immediatamente catturato. Dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti in patria (ben sei Premi Lola, gli Oscar tedeschi, nel 2013), la pellicola ha trovato un riscontro più che positivo anche tra il pubblico italiano. Gerster si inserisce a pieno titolo tra i grandi narratori della metropoli da Walter Ruttmann, Friedrich Murnau, Fritz Lang, Karl Freund ai contemporanei Wim Wenders e Hannes Stöhr.
Una Berlino straniante, personaggio statuario e immenso, fa da contraltare alla voce del protagonista Niko Fischer, ex studente di giurisprudenza in crisi di identità, inguaribile perdigiorno che non riesce a darsi alcun obiettivo. La macchina da presa nelle mani di Gerster si trasforma in uno scandaglio che va pizzicando miserie e nobiltà della metropoli, pauroso specchio che invece di riflettere contorce, dea bistrata preposta al rito di una sconvolgente quanto esatta autoanalisi.
A partire dal documentario di Ruttmann del 1927, malinconico epos per immagini di quei “dorati anni Venti” scossi in realtà da innumerevoli contraddizioni e difficoltà, Berlino è il fulcro rappresentativo di una urbanitas letteraria la cui origine Joseph Roth fissa proprio nel confronto tra l’immaginario degli scrittori ebrei tedeschi e la realtà della capitale.
Questo film spinge sui tasti della flânerie, unendo agli espedienti tonali del vagabondaggio in strada, l’esplorazione di uomini e donne in cui il carattere della città ha creato bizzarre forme di adattamento, tutte connotate da una patologica insicurezza, una esasperata propensione al fraintendimento dell’altro e all’errore. In questo mulinare di nevrosi grandi e piccole, si può a momenti perfino compatire l’inadatto Niko Fischer. Attraverso i suoi occhi, ci si sveglia in una ordinaria giornata berlinese. Tempo di mollare la ragazza e accendersi una sigaretta nel tostapane di un appartamento, dove si ammassano soltanto scatoloni, gli eventi prendono subito una piega storta. Dopo aver mentito per due anni filati al padre, Niko si trova ad affrontare un genitore che, informato sui fatti, gli volta le spalle senza troppi giri di parole. Mentre procede nel viaggio, ma sarebbe più corretto dire, mentre il protagonista avanza verso se stesso, la spirale di incontri assume connotati sempre più paradossali.
A scandire i suoi brevi istanti di lucidità, il puro e semplice desiderio di farsi servire un caffè che però non arriva. L’impresa infatti si rivela più difficile del previsto, e proprio attorno a questa ricerca sempre più disperatamente allucinata che procede per un intero giorno, incontrando infine la notte della metropoli, con il suo fosco underground di periferia popolato da comparse erratiche e deliranti, prende campo la metamorfosi del protagonista. L’architettura delle stazioni ferroviarie –  luoghi di passaggio, labirinti nel labirinto dell’esistenza – ne veglia il procedere da una meta all’altra, che naturalmente non va secondo un cammino lineare ma avviene in un casuale accostamento di pretesti, i quali alla fine raggiungono un punto critico, spingendolo fuori dall’improvvido e grottesco girovagare. In questi scatti dall’alto, tra binari, scale, pensiline s’intravede una Berlino al rallentatore, molto più pacata e addirittura scarsamente frequentata di come è in realtà. O meglio, vi sono in effetti degli angoli della metropoli in cui ogni presenza pare ritrarsi come un’insolita marea. Gerster lavora esattamente su questi attimi in cui Berlino espira, restando immobile e senza contrazioni. Dalla finestra di casa, Niko osserva il treno, apparizione monitrice del tempo, richiamo al livello della strada, alla discesa nella realtà e quindi, alle scelte che non potranno più essere rimandate. Nessun appiglio si offre per sperare in un riscatto. Niente da fare, Niko non sa andare in fondo alle cose. Nell’angosciante trascinarsi quotidiano mette a segno solo due colpi: un buon tiro al golf, di fronte a un padre in vena di umiliarlo, e una fuga che lo salva da una contravvenzione per non aver timbrato il biglietto. Ma si tratta per l’appunto di due rivincite assolutamente stonate.
L’agognato caffè arriverà in un’alba solitaria, triste e allo stesso tempo liberatoria. La sequenza del risveglio della città è tra le cose più notevoli del film; angoli di strada ancora semideserti, cantieri incustoditi, ammiccanti lanterne che si avviano a spengersi, grattacieli che non suscitano inquietudine ma sprigionano una forza per certi versi rassicurante: la fotografia è essenziale, di un lirismo trascinante proprio per la grazia minimalista che la ispira. Il regista stacca velocemente da una parte all’altra, tentando una rappresentazione corale del respiro della grande città, in cerca di quell’unisono che percorre tutto il racconto e che qui, nell’attimo incantato e ancora incorrotto del nuovo giorno, alla fine riesce a affiorare.  
Niko trema di fronte alla tazza che gli è stata servita. Ha appena saputo della morte del suo ultimo compagno di strada, un vecchio saggio, e forse clochard, un santo bevitore incontrato nel cuore della notte, di cui si trova a ascoltare controvoglia i ricordi di un’infanzia berlinese tutt’altro che serena. Epilogo zen. Si esce dalla notte, gettandosi alle spalle un bel po’ di male di vivere e cortocircuiti generazionali, si prova a far pace coi pensieri e con quel buio insopportabile che viene dal dentro più che dal fuori, si prova a imboccare una strada, pur nel dissacrante rovesciamento del vivere contemporaneo.

(Di Claudia Ciardi)


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Berlin calling – La Recherche/ Icaro a Berlino. Tra catabasi e poesia di Claudia Ciardi




In questo blog:

Stemma di Berlino:
«Tributo fin dal titolo al ciclo di poesie della Kolmar sugli stemmi delle città tedesche, cui lo scrittore dedica l’avvio del suo saggio e il denso capitolo conclusivo, tra i più coinvolgenti dell’intera trattazione, questo volume sulla poesia della metropoli intreccia alcune delle voci più rappresentative dell’umore e della cultura berlinesi alle opere degli artisti contemporanei che le accompagnarono, ponendosi in molti casi come loro fonte d’ispirazione.
Franco Buono conduce la sua ricerca seguendo gli sviluppi contemporanei di due potentissimi archetipi mitologici, che esprimono anche una fatale mescolanza di spazio e di tempo, ossia il labirinto e la metamorfosi, alla quale è soggetto chi abbraccia un percorso la cui destinazione appare a un primo sguardo indecifrabile».

«Estate 1882. Carl e Felicie Bernstein ritornano a Berlino da Parigi con un gruppo di opere pittoriche di impressionisti. I Bernstein, emigrati nella metropoli tedesca dalla Russia, avevano acquistato tele di Manet, Monet, Sisley e Pissarro. Questi lavori formano il cuore della prima collezione di arte impressionista a Berlino. La casa dei Bernstein era il luogo di un salone settimanale, frequentato da artisti quali Adolph Menzel, Max Klinger e Max Liebermann, e da storici e critici come Theodor Mommsen e Georg Brandes. Un anno più tardi, nell’ottobre 1883, l’ampio pubblico ebbe l’opportunità di vedere queste pitture, essendo incluse in un’esposizione di impressionisti alla Galerie Fritz Gurlitt di Berlino».

«Opera del ’74, in questo film Wenders si cimenta in una narrazione doppia. Da una parte c’è il viaggio dei protagonisti che è tuttavia un divagare senza meta, il quale, invece di apportare un progresso, produce perdita e alienazione; dall’altra c’è una scrittura che affiora proprio dalle immagini del movimento di cose e persone, rivelando specularmente la sagoma più intimista del racconto. Falso movimento è l’ars poetica di Wenders, il lavoro dove con la maggiore incisività viene formulata la domanda di fondo che percorre l’intera sua produzione, ossia come possa la tecnica cinematografica definire la falsità caratteriale che ispira il movimento cinema. Ritmicità quasi ossessiva, quella con cui i mezzi di spostamento e comunicazione sono rappresentati sulla scena, già peraltro fotografati nel ruvido espressionismo della metropoli contemporanea in Alice nelle città».
    

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