28 dicembre 2013

Joseph Roth - L'incantatore/ Der Zauberer


«Otto prose inedite in Italia. Otto “personaggi in cerca d’autore” che escono dalla penna di Joseph Roth come altrettante miniature fantastiche. Effimeri protagonisti di un’epica marginale e sofferta, comparse di un mondo sconvolto dalla guerra. Clowns e camerieri alle prese col carovita, fantasmi, maghi, fotografi come negromanti, un luogo di villeggiatura stregato dall’aria di ottobre, donne inghiottite dalle mode alle quali hanno irrimediabilmente svenduto la propria femminilità, viandanti stanchi del clamore e del vuoto incontrati in viaggio, che ora siedono malinconici e traditi a un angolo di strada.
È una poesia sull’orlo del naufragio quella che Roth tenta di raccogliere nei suoi ritratti, un lirismo tascabile ad uso dei poveri diavoli come lui. Impossibile non scorgervi tutto l’incanto che si accompagna alla Kindheit, epoca struggente quanto inafferrabile, cui ognuno sempre torna nel tentativo di salvare se stesso dai rovesci della vita. Quest’affinità con uno dei principali nuclei narrativi sviluppati dalla letteratura tedesca del primo Novecento e non solo, rende certi spunti di Roth straordinariamente vicini alle pagine dell’infanzia benjaminiana e ci rivela più di una somiglianza con diverse sequenze cinematografiche che da Chaplin arrivano a Wim Wenders».

(Di Claudia Ciardi)


Joseph Roth,
L'incantatore e altre prose,
a cura di Claudia Ciardi,
traduzione di Claudia Ciardi e Katharina Majer,
Via del Vento edizioni,
ottobre 2013,
ISBN 978-88-6226-073-2
Euro 4,00

Scheda del libro/ Book snippet






 

Contiene/ Table of content:
Ragazzo
Clown
Parata di un fantasma
Vecchie e nuove fotografie
I manichini
Ottobre
L'incantatore
A un angolo di strada

Collection/ collana Ocra gialla



Amedeo Anelli, «Il Cittadino», quotidiano di Lodi, 5 - 12 - 2013


«Quasi mezzo anno fa un clown morì in un circo berlinese, poco prima che mettesse piede nell’arena. Al clown era venuto un colpo. I giornali diedero un falso titolo alla sua morte: «La morte sul palco».
Poi il mondo venne a sapere che il clown si era preso cura di un anziano padre, di una moglie e due bambini, e che era stato un cittadino molto onesto. Il suo numero principale consisteva nel fatto che, da quindici anni, sera dopo sera, giacesse supino sul pavimento, mentre una domatrice finemente vestita lasciava camminare un grande orso dal collare sul suo corpo. Dunque lui era appunto un pretesto per il cimento dell’orso.
Che orso geniale! – esclamava la gente, quando vedeva che non accadeva nulla al clown. – Che sciocco clown! – avrebbero detto se il Signor Orso lo avesse schiacciato.
Per metà vita i clowns devono meditare su una nuova variante ridicola del loro frack e, nonostante ciò, non divengono immortali. In dieci anni si può aver scritto una nuova Odissea e per migliaia esser rimandati in seconda elementare. Il clown è piuttosto un accessorio da pausa. Di fatto esiste allo stato di un suono di campanello e di un rullo di tamburo».

From the book: Clown


«Avvenire», 24 - 12 - 2013







Links:

Il blog «Polonia mon amour» a cura di Paolo Morawski segnala le pubblicazioni di Via del Vento

Scheda su Wuz.it

Che gran cronista quel santo bevitore di Joseph Roth, Daniele Abbiati, «Il Giornale», 4 dicembre 2013

Circus Black Hills, 1914, Ohio 
The Circus Society ©


24 dicembre 2013

Am Schlachtensee



Foto di Claudia Ciardi ©

Am Schlachtensee

A Joseph Roth


La strada corre lungo il Mexikoplatz, una lingua verde a tratti quasi impudente per la fretta dei ciclisti. Ma io amo sorprenderne il volto gentile che si perde tra gli alberi e tenta di raccontare qualcosa come se facesse cadere dietro di sé molliche di pane, questo più di tutto mi seduce.
Prima dello Schlachtensee ci si ritrova su un’ampia curva, una morbida parentesi nell’astratto rettilineo che serra i pensieri alle fermate. Quindi lentamente affiora con le sue pagode ubriache il Mexikoplatz incagliato sul binario. Perfino la voce registrata del treno sembra per un attimo far posto a un’esotica imminente evasione, sbocciata tra le case come per gioco.
Ma per me, per me soltanto, evoca molto di più. Ben oltre l’idea del nuovo mondo giunto agli incroci della metropoli sta la vera stravaganza che me l’ha fatto immaginare assai prima di arrivarci. Parlo di un sogno in cui la città intorpidiva nell’abbaglio dell’inverno, e le strade erano poco più che una mistura confusa di orme lasciate dai passanti sulla neve. Così mi trovavo a bussare a porte e finestre, mentre le ore passavano e il tramonto trascinava con sé qualcosa di inesorabile.
Al Mexikoplatz ero infine perduta. La città, immobile e svuotata, giaceva in un riverbero azzurro che annunciava la sera. Tutto cospirava per scacciarmi, e anche l’impossibilità di rimanere, era chiaro, incarnava un’ipotesi fatale che sfiorava strani tasti della mia fantasia e una corda, cui sentivo appeso più di un episodio della mia vita. Queste sensazioni non mi hanno dato tregua neppure dopo, quando ho veramente visitato la piazza. La realtà si è messa a sparigliare le carte insinuando in quel che vedevo il dubbio di un’effettiva esistenza. Improvvisamente, la fontana, gli alberi, i vialetti secondari, le teste dei clienti nel bistrot reclamavano di essere guardati con intensità maggiore di quella che si riserva normalmente alle singole apparizioni. Già sapevano che da me avrebbero ottenuto più comprensione di quanta potessero offrirmi nell’istante in cui li ho sorpresi.
Il Mexikoplatz non si raggiunge per caso. Qui una camminata non si limita a uno spostamento nello spazio ma sembra preparare chi vi si avventura a un moto ulteriore. Per quanto mi riguarda è una tappa verso lo Schlachtensee coincidente con un sintomo del mio divagare, qualcosa di simile a un incontro che si è desiderato per molto, un oggetto indecifrabile che mentre si manifesta perde ogni potere di rivelazione e beffardamente ci rimanda ad altro. Come capita di bere e continuare ad aver sete, così ogni volta che cammino lì nei dintorni, non posso fare a meno di spingermi in avanti.
La curva docile e ombreggiata che conduce al lago e l’arco stesso che disegnano le sue rive leggermente scoscese mi ricordano il bel viale di platani che nella mia infanzia mi portava al mare. Le querce vegliano il sentiero, e il tramonto lo accende come il dorso di un drago addormentato. Di tanto in tanto un treno rotola sul binario e il bosco ne rimanda il sussulto smorzato, e qualcosa di quel battito metallico e primitivo resta per pochi attimi impigliato da qualche parte nel fitto della vegetazione. Anche il noleggio delle barche affiora senza clamore, la casetta dei due custodi appare come scaraventata in quel punto dalla distrazione di qualcuno; una staccionata di legno che invece di indicare un perimetro dà l’impressione di stare lì per assecondare le fantasticherie del viaggiatore. Se non fosse per le voci dei padroni in cui risuona un berlinese ruvido e sbrigativo, se non fosse per qualche infuocata lite a distanza tra rematori attardati e implacabili doganieri, tutto farebbe pensare a un avamposto lasciato deserto ormai da anni.
Ma non è questa ancora la meta del mio andare. Neppure qui, tra questo muro in ombra e la finestrella incollata al sottotetto, timida vedetta di una fiaba, neanche in quest’angolo riesco ancora ad avvistare un segno di quel che mi ha adescato. Da diverso tempo molte cose sembrano indicarmi un approdo seppur provvisorio ma in grado di rassicurare, che magari offra riposo, e io non so coglierlo o continuo a respingerlo, fatto è che le due cose sempre finiscono per allearsi e congiurano contro di me.
Ebbene, io sono caparbia, cerco ugualmente la mia via attraverso il coro di squillanti sirene che mi si para davanti. Non è facile superarlo, però un verso per guadagnare l’altra riva deve pur esserci. Questione di affidarsi a una buona corrente. E alla fine, a metà del lago, scorgo sopra un fitto canneto una selva di gioiose betulle scosse dal vento. Freme con la grazia di un tempio chiuso, un respiro che imparo subito e sento scendere dentro di me. Si potrebbe passare ore a contemplarla o anche un’intera vita. E il senso di aver compiuto qualcosa cancella ogni smarrimento. Per un po’ qui ci sarà pace, per un po’ si potrà restare.


(Di Claudia Ciardi)



                      

Links:

15 dicembre 2013

Boris Pasternak, «Io entro in questa notte»


«La poesia di Pasternak somiglia a una formula incantatoria, pronunciata con un filo di voce in un paesaggio fuori dal tempo. Versi lievi, che si muovono quasi senza lasciar tracce su un sottile strato di neve o sul tappeto fantastico della brina autunnale. Bianchi che facilmente virano in trasparenze, dalle struggenti rime della pioggia alle imperscrutabili trame del vento, sognanti acquerelli di un panismo russo, che non di rado incrocia le orme di certi Lares invocati dalla Achmatova. Sommesse cadenze, silenziosi spettri di un immaginario sospeso tra fiaba e realtà, squarci di cielo mutevoli e assorti come oracoli, giardini di erbe meravigliose, che hanno sguardi e volti umani, tacite memorie che premono allo steccato di una flebile Zaubernacht destinata a dissolvere alle prime luci dell’alba».

(Di Claudia Ciardi)


Boris Pasternak - portrait

Boris Pasternak,
Poesie,
a cura di Angelo Maria Ripellino
con un saggio di Cesare G. De Michelis
Testo russo a fronte,
Einaudi, 2009




Dall’introduzione:

«Boris Leonidovič Pasternak si affacciò sulla soglia della lirica russa in un’epoca ricca di correnti e di figure, mentre i simbolisti arretravano dinanzi all’assalto impetuoso del futurismo. Quanti personaggi nella poesia di quegli anni: Blok con le sue laceranti romanze zigane sullo sfondo di Pietroburgo; Chlebnikov, simile a un grande uccello di palude, vagabondo bislacco e squattrinato, coi suoi progetti fantastici, coi manoscritti ravvolti in una federa; e Brjusov solenne e accademico fra scenari di cartapesta, come il duca di Guisa in una pellicola del «Film d’Art»; e Belyj con le sue strofe scintillanti, dove le immagini rimbalzano come riflessi di specchi diabolici.
In un primo periodo, nel 1913-14, Pasternak fece parte del gruppo «Centrifuga», che contemperava futurismo e simbolismo, senza spregiare l’eredità del passato. Futuristi prudenti, quelli di «Centrifuga» tenevano gran conto soprattutto un poeta dell’età puškiana, Jazykov, ed il simbolista Ivan Konevskoj, le cui cadenze riecheggiano nel primo volume di Pasternak, Bliznec v tučach [Il gemello fra le nuvole] del 1914, ancora tramato di simboli, di mitologia, di arcaismi. Ma dopo il breve episodio di «Centrifuga» Pasternak si venne avvicinando ai cubo futuristi, ossia alla parte più radicale e ribelle del futurismo russo, e la sua scrittura trasse esempio dai testi di innovatori irruenti come Chlebnikov e Majakovskij.
Nel Majakovskij del primo periodo, nell’autore di Oblako v štanach [La nuvola in calzoni], Pasternak vide il più valido interprete delle speranze e dei crucci della sua generazione, il vertice della poesia di quell’epoca. Nella terza parte del libro di memorie Ochrannaja gramota [Il salvacondotto, 1931] egli ha scritto: «Quando mi proponeva di narrare qualcosa di me stesso, cominciavo a parlare di Majakovskij. E non era un errore. Io lo adoravo. Io impersonavo in lui il mio orizzonte spirituale» (p. 103). E infatti la parte più viva dell’opera di Pasternak è strettamente connessa con quella di Chlebnikov e di Majakovskij: lo si vede dai versi di Poverch bar’erov [Oltre le barriere, 1917], di Temy i variacii [Temi e variazioni, 1923], di Vtoroe roždenie [Seconda nascita, 1933] e in specie della raccolta Sestra moja žizn’ [Mia sorella la vita, 1922], che è tra le gemme più splendide della lirica russa del secolo. Questo libro destò l’entusiasmo di Mandel’štam e di Marina Cvetaeva ed ebbe su tutti i poeti quasi un potere ipnotico; e non solo vi attinsero giovani come Tichonov o Sel’vinskij o Petrovskij, ma il vecchio Brjusov persino ne riprodusse i motivi e le immagini nella sua tarda raccolta Mea (1924)».

[…]

«Questa freschezza primigenia s’avverte soprattutto nei paesaggi che, assieme ai motivi d’amore, costituiscono il meglio di Pasternak. Si tratta di solito della veduta d’un parco, d’una villa, d’un bosco; d’un paesaggio ammirato dalla finestra di una casa di campagna o dal finestrino d’un vagone. Majakovskij, ingolfato nel tema futuristico della città tentacolare, trascurava le immagini della natura; Pasternak ci dà invece paesaggi che sono forse i più ariosi nella lirica russa dopo quelli dei poeti romantici. Le metafore, stratificate e come trasparenti, esprimono a meraviglia la geometria cristallina di quello spazio primordiale.
I suoi panorami sono intrisi di pioggia, odorano d’acqua piovana. Tempeste, nembi, acquazzoni scrosciano nelle sue inquadrature, spruzzaglie inattese di pioggia allagano i versi, e le parole rilucono come l’erba sotto la brina».

[…]

«Daremo ragione a Marina Cvetaeva: la lirica di Pasternak ha qualcosa di taumaturgico, di curativo, come le erbe medicinali».



Nello studio del pittore - Im Malers Atelier
Ricordo di Aldo Frosini
Foto e elaborazione di Claudia Ciardi ©

[Come di bronzea cenere]

Come di bronzea cenere caduta dai bracieri,
di scarafaggi brulica il giardino assonnato.
Vicino a me, a livello della mia candela
sono sospesi universi fioriti.

E come in una fede inaudita
io entro in questa notte,
dove il pioppo vetustamente grigio
ha ombreggiato il confine lunare.

Dove lo stagno è un mistero svelato
dove bisbiglia la risacca del melo,
dove il giardino è sospeso come palafitte
e tiene dinanzi a sé il cielo.

1912


Sogno

Sognavo l’autunno nella penombra dei vetri,
gli amici e te nella loro burlesca brigata,
e come dai cieli un falco sazio di sangue
scendeva il mio cuore sulla tua mano.

Ma il tempo scorreva e invecchiava, già sordo,
e inargentando di broccato le cornici,
l’aurora dal giardino spruzzava sui vetri
le lacrime sanguigne di settembre.

Ma il tempo scorreva e invecchiava. Friabile come il ghiaccio,
scricchiava e si scioglieva la seta dei divani.
A un tratto tu, che eri chiassosa, esitando tacesti
e il sogno si spense come un’eco di campane.

Io mi svegliai. Era come l’autunno buia
l’alba, e il vento, allontanandosi, portava
come una pioggia fuggente di fuscelli dietro un carro
un filare di betulle fuggenti per il cielo.

1913


Gli Urali per la prima volta

Senza levatrice, nelle tenebre, senza memoria,
sulla notte premendo le braccia, la cittadella
degli Urali strillava e, cadendo in deliquio,
accecato dalle doglie, partorì il mattino.

Tonando si rovesciarono nell’urto improvviso
le moli e i bronzi di alcuni massicci.
Sbuffava il treno viaggiatori. E in qualche luogo da questo
scartando cadevano i fantasmi delle picee.

L’alba caliginosa era un sonnifero. Nient’altro.
Era stata versata di soppiatto alle fabbriche e ai monti
dal fumista dei boschi, il maldicente Gorynyč,
come da un ladro esperto l’oppio a un compagno di strada.

Svegliatisi in mezzo alle fiamme, dall’orizzonte scarlatto
sugli sci calavano ai boschi gli asiatici,
lambivano le falde e di nascosto porgevano ai pini
le corone, invitandoli a cingersi e a regnare.

E i pini, levandosi nella gerarchia
di vellosi dinasti, facevano ingresso
su un manto di damasco e d’orpello,
coperto del velluto arancione di croste di gelo.


Tre varianti (III)

Sui cespugli aumentano gli squarci
delle nubi sfrondate. Il giardino
ha piena la bocca di umida ortica:
è l’odore delle tempeste e dei tesori.

La macchia è stanca di gemere. In cielo
s’accrescono le luci delle arcate.
L’azzurro scalzo ha l’andatura
dei trampolieri per la palude.

E brillano, brillano come le labbra
non asciugate dalla mano
rami di vétrici e foglie di quercia
e tracce accanto all’abbeveratoio.


Nel vento

Nel vento che prova con un ramoscello
se per gli uccelli sia tempo di cantare,
sei intriso d’acqua come un passerotto,
ramo di lillà!

Le gocciole hanno il peso dei bottoni
e il giardino è abbagliante come un meandro,
asperso ed irrorato da un milione
di azzurre lacrime.

Allevato dalla mia tristezza
e da te coperto di spine,
è rinato stanotte,
pieno di borbottío, di fragranze.

Picchiò tutta la notte alla finestra,
e le imposte tintinnavano,
d’un tratto un umido soffio di ràncido
scórse per il mio abito.

Svegliato da questa sequela incantevole
di tempi e di soprannomi,
posa il giorno presente
gli occhi addosso agli anèmoni.

1917


Violacciocche

Or non è molto per questo sentiero silvestre
la pioggia ha girellato come un agrimensore.
Un’esca appesantisce le foglie dei mughetti,
l’acqua s’è rintanata nelle orecchie dei verbaschi.

Allevate dal freddo pineto,
per la rugiada ritraggono i lobi,
non amano il giorno, crescono in disparte
e persino l’odore spargono ad una ad una.

Quando nelle ville si beve il tè serale,
la nebbia gonfia le vele delle zanzare,
e la notte, con un improvviso tintinnío di chitarra,
come làttea caligine s’annida fra i melampiri.

Di violette notturne odora allora ogni cosa:
gli anni e i volti. I pensieri. Ogni occasione,
che nel passato può esser tratta in salvo
e nel futuro accolta dalle mani della sorte.

1927


[Non ci sarà nessuno a casa] 

Non ci sarà nessuno a casa,
tranne il crepuscolo. Il solo
giorno invernale in un trasparente spiraglio
di cortine non accostate.

Solo di bianchi biòccoli bagnati
il rapido aleggiante balenío.
Solo tetti, neve e tranne
i tetti e la neve, nessuno.

E di nuovo arabeschi intesserà la brina,
e di nuovo mi domineranno
lo sconforto dell’anno passato
e le vicende di un altro inverno.

E mi schermiranno di nuovo per una
colpa non ancora perdonata
e una fame di legna avvinghierà
la finestra lungo la crociera.

Ma inaspettatamente per la tenda
scorrerà il trèmito di un’irruzione.
Misurando coi passi il silenzio,
come l’avvenire tu entrerai.

Tu apparirai sulla soglia, indossando
qualcosa di bianco senza stranezze,
qualcosa proprio di quelle stoffe
di cui si cuciono i fiocchi di neve.

1931


Nello studio del pittore - Im Malers Atelier
Ricordo di Aldo Frosini
Foto e elaborazione di Claudia Ciardi ©

Links:

Boris Pasternak.ru

Anna Achmatova, È flebile la mia voce e altre poesie, a cura di Paolo Galvagni
Via del Vento edizioni, aprile 2012
Plaquette di 36 pagine. Volume numero 46, pubblicato nella collana «Acquamarina»
ISBN 978-88-6226-061-9
4,00 €

Ricordo di Federico Tavan. Orfeo friulano scomparso il 5 novembre 2013:
«Quando ho letto la storia di questo Dino Campana friulano sono subito rimasta turbata e affascinata.
Fin dalle sue origini la vita di Tavan corre su un filo meravigliosamente intrecciato di affatturazione e poesia. Una creatura fiabesca e indocile, un’essenza panica, un uomo che si è fatto tutt’uno con i suoi versi»
Qui la nota di Caffè d’Europa 
«Il Manifesto/ Alias», l'articolo, 8 dicembre 2013 - Federico Tavan, contrabbandiere di eccentrica poesia



6 dicembre 2013

Entartete Kunst


La questione non è banale. A entrare in gioco, infatti, nella definizione formulata dai nazisti per bollare negativamente le opere dell’avanguardia sono sia l’idea di arte che il regime intendeva divulgare sia il processo, a ciò strettamente legato, di elaborazione di una damnatio memoriae che, se osservato più da vicino, si scopre estremamente ambiguo.
Il recente ritrovamento a Monaco, nella casa di un insospettabile, riservato cittadino tedesco, di millecinquecento quadri “dannati” dal nazismo che in molti avevano dato per distrutti, sollecita infatti una riflessione sui confini tra ciò che veniva apertamente disprezzato all’epoca della dittatura e quel che invece era considerato rappresentativo di una autenticità culturale tedesca oggetto di infaticabile propaganda. Ed è proprio qui che si cela, senza neanche troppi espedienti, quanto indubbiamente apparirà come una contraddizione ma che, se si parte dal presupposto che il regime nazista non poteva che essere per sua stessa natura un coacervo di incoerenze, non ci sembrerà cosa poi tanto difficile da digerire. Del resto, molti (più o meno tutti) gli aspetti che una dittatura sostiene di rigettare, a difesa della propria integrità morale e di un codice d’onore che viene offerto come unica soluzione possibile ai mali e alle corruttele dei propri avversari politici, sono già dentro alla sua messianica alternativa, prima ancora che abbia ricevuto la definitiva consacrazione. L’abuso di potere e il grado di immoralità che caratterizzarono l’operato dei gerarchi fin dalla prima ora della loro investitura, è cosa più che mai nota. Eppure il consenso si reggeva interamente proprio sull’annuncio di una differenza etica e sostanziale con i rivali.
La vicenda di Hildebrand Gurlitt, padre di Cornelius, l’uomo fermato una sera di settembre del 2010 alla frontiera Svizzera dalla polizia che, dopo averlo pescato senza documenti di identità, ha disposto un mandato di perquisizione nel suo appartamento monacense, luogo del ritrovamento delle opere d’arte ‘disperse’, è secondo me emblematica dei numerosi e complessi intrecci che hanno unito elementi di spicco del partito nazionalsocialista a figure poco note, se non del tutto ignote, faccendieri annidati nelle numerose zone d’ombra del potere, cui finora si è data scarsissima rilevanza. Gurlitt padre, per metà ebreo, venne selezionato dagli uomini del regime per le sue competenze in ambito artistico. A lui fu assegnato il compito di incettare le opere ritenute degeneri e, come è facilmente immaginabile, il suo lavoro si rivelò essenziale per l’allestimento della famosa mostra «Entartete Kunst», campionario avanguardista esibito a Monaco nel 1937, con l’intento dichiarato di metterlo in ridicolo.   
Hitler aveva una vera e propria ossessione per l’arte, un rapporto di amore-odio che risale agli anni in cui frequentava senza successo l’accademia di Vienna. Questa compulsione alla ricerca dell’oggetto d’arte lo accompagnò per tutta la vita e fu al centro di clamorose sparizioni durante la dittatura. Diversi capolavori dati per distrutti, tra cui la Danae di Tiziano e il Polittico dell’agnello mistico di van Eyck, sono stati ritrovati in miniere e tunnel di montagna. Mancano tuttora all’appello, tra gli altri, quattordici lavori di Gustav Klimt e Il pittore per la sua strada al lavoro di van Gogh. Si potrebbe ipotizzare che questi quadri siano stati venduti, finiti nelle mani di qualche collezionista che, magari già da tempo sulle tracce della refurtiva, ha atteso gli anni confusi della guerra per combinare qualche affare. Alcuni degli stessi dipinti della «Entartete Kunst» sono stati venduti all’estero, mentre si pensava che fossero stati distrutti, grazie anche alla versione fornita da Gurlitt, il quale a più riprese non aveva mancato di dire che l’intera collezione era andata perduta nel bombardamento di Dresda.
Mentre gli alleati si preoccupavano di recuperare le grandi opere ‘classiche’, pochi pensarono alle sorti degli eccentrici frutti delle avanguardie europee, dando per scontato che il regime se ne fosse sbarazzato da tempo. Il rinvenimento in casa dei Gurlitt testimonia invece che i nazisti quantomeno avevano interesse a conservare i loro ‘figli’ degenerati, se non altro perché avrebbero potuto scambiarli con moneta sonante. Un investimento che andava preservato con cura e che necessitava di uno zelante custode.
Ma c’è di più. Al di là delle convenienze materiali che hanno messo al riparo una parte cospicua delle opere d’arte censurate, vi è indubbiamente una inconfessata fascinazione subita dagli uomini del regime, che senz’altro non potevano restare indifferenti di fronte alle somiglianze tra certe forme espressioniste e l’incubo nazionalsocialista, conservatore e rassicurante solo nei proclami ma modernamente affilato e terribilmente lugubre.
Altro tabù che si infrange, con buona pace di chi ama incasellare i fatti storici nell’ambiente asettico delle rappresentazioni ideologiche. Monaco di Baviera, nel progetto hitleriano, doveva essere la capitale dell’arte. Per questo il Führer vi fece erigere la Casa dell’arte tedesca. Questo posto avrebbe dovuto raccogliere i capolavori depositari del vero spirito tedesco. Nota, la mostra degenerata si tiene nel 1937. La Casa dell’arte è inaugurata l’anno successivo. Le due arti sembrano viaggiare a braccetto e osservarsi quasi in un gioco di specchi. Qualcuno, in questa strana e tormentata gara di mimesi, si è spinto anche oltre, sostenendo che la mostra del ’37 è una delle migliori che siano state dedicate all’avanguardia. E non vi è ragione di scaldarsi a provare il contrario. L’avanguardia intendeva rompere con una maniera di rappresentare e recepire l’arte, voleva destabilizzare, distruggere il concetto di arte dalle fondamenta, per rendere la creatività una cosa nuovamente viva, un tutto magmatico che potesse essere riplasmato. Perseguiva queste idee con ogni mezzo e per questo suscitò reazioni e sentimenti contrastanti: sberleffo, ironia, acredine, aggressività. La vicenda di Klimt, oggetto di violente polemiche nel corso della realizzazione dei pannelli decorativi per l’Aula magna dell’Università di Vienna, è esemplare. L’allestimento nazista del ’37 nel suo mood provocatorio e violento finisce paradossalmente per essere una scena quasi ideale e celebrativa della rottura che le avanguardie andavano significando.    
Infine, la stessa Casa dell’arte a oggi risulta tutt’altro che antiquata e superata. Questo imponente tempio neoclassico, progettato da Paul Ludwig Troost, trasuda tutte le moderne, intimidatorie ambizioni della dittatura. Anche qui, del tradizionale ottocentesco idillio tedesco, sfumato di bucolico romanticismo, proprio non vi è traccia.     
Insomma, volendo superare i tanti luoghi comuni sul rapporto arte-nazismo si avrebbe la possibilità di leggere più a fondo nei vizi del regime e analizzarne la psicologia in maniera più obiettiva. Oltre, sul piano pratico, ad aprire delle piste che potrebbero portarci a rinvenire altri capolavori scomparsi.
Ma forse si ha paura, per l’appunto, di riconoscere nello spietato specchio della storia più di un paio di riflessi che ci avvicinano oltre il limite di sicurezza alla barbarie, verso cui purtroppo non si riesce ancora a guardare con la dovuta onestà intellettuale, cosa che ci renderebbe anche meno vulnerabili di fronte al riproporsi di certe rischiose similitudini e assonanze nelle nostre società.

(Di Claudia Ciardi)   



«arte degenerata»
espressione con cui in Germania venne bollata l’arte moderna, condannata dalla propaganda nazionalsocialista. La condanna teorica, in nome della difesa della classicità, dell’ordine e dei valori della razza, fu accompagnata da una violenta campagna denigratoria e da misure vessatorie, che si inasprirono dopo la conquista del potere da parte di Hitler. In questo clima il Bauhaus, già obbligato a trasferirsi da Weimar a Dessau e da qui a Berlino, fu definitivamente soppresso nel 1933. Gli artisti non graditi al regime furono allontanati da incarichi pubblici, perseguitati, costretti all’esilio. Della lista dei «degenerati» facevano parte O. Dix, G. Grosz, K. Kollwitz, e altri compromessi con organizzazioni di sinistra; E. Barlach, M. Beckmann, E.L. Kirchner, A. Macke, F. Marc, E. Nolde, M. Pechstein; gli architetti W. Gropius, L. Hilberseimer, E. Mendelsohn, L. Mies van der Rohe e molti altri. Per ordine di Goebbels le loro opere furono ritirate dai musei, insieme con quelle di P. Cézanne, P. Gauguin, H. Matisse, G. Braque, P. Picasso, V. van Gogh, J. Ensor, E. Munch, P. Klee, V. Kandinskij, O. Kokoschka, L. Feininger, A. Archipenko e altri stranieri. Esposte in una mostra esemplare di Entartete Kunst a Monaco (1937), parte di quelle opere furono vendute in una pubblica asta a Lucerna.

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Die Ausstellung «Entartete Kunst» wurde am 19. Juli 1937 in München eröffnet und zeigte 650 konfiszierte Kunstwerke aus 32 deutschen Museen. Bis April 1941 wanderte sie in zwölf weitere Städte. Sie zog über 3 Millionen Besucher an. Die Ausstellung wurde von Joseph Goebbels initiiert und von Adolf Ziegler (1892-1959), dem Präsidenten der Reichskammer der bildenden Künste, geleitet. Gleichzeitig setzte mit der Beschlagnahme von insgesamt rund 16.000 modernen Kunstwerken, die zum Teil ins Ausland verkauft oder zerstört wurden, die "Säuberung" der deutschen Kunstsammlungen ein. Berufsverbote für Künstler und Museumsleute, die moderne Kunst angekauft hatten, oder Hochschullehrer gab es bereits unmittelbar nach der Machtübernahme der Nationalsozialisten seit 1933.
Als "Entartete Kunst" galten im NS-Regime alle Kunstwerke und kulturellen Strömungen, die mit dem Kunstverständnis und dem Schönheitsideal der Nationalsozialisten nicht in Einklang zu bringen waren: Expressionismus, Impressionismus, Dadaismus, Neue Sachlichkeit, Surrealismus, Kubismus oder Fauvismus. Als "entartet" galten u.a. die Werke von George Grosz, Ernst Ludwig Kirchner, Max Ernst, Karl Schmidt-Rottluff, Max Pechstein, Paul Klee, Otto Griebel oder Ernst Barlach. In der Ausstellung "Entartete Kunst" wurden ihre Exponate mit Zeichnungen von geistig Behinderten gleichgesetzt und mit Photos verkrüppelter Menschen kombiniert, die bei den Besuchern Abscheu und Beklemmungen erregen sollten. So sollte der Kunstbegriff der avantgardistischen Moderne ad absurdum geführt und moderne Kunst als "entartet" und als Verfallserscheinung verstanden werden. Diese Präsentation "kranker", "jüdisch-bolschewistischer" Kunst diente auch zur Legitimierung der Verfolgung "rassisch Minderwertiger" und politischer Gegner. Parallel zur "Entarteten Kunst" zeigten die Nationalsozialisten in der "Großen Deutschen Kunstausstellung" im Münchner "Haus der Deutschen Kunst", was man unter "deutscher" Kunst zu verstehen habe.

Der Vernichtungsangriff auf die Moderne und ihre Protagonisten betraf alle Sparten der Kultur wie Literatur, Film, Theater, Architektur oder Musik. Moderne Musik wie der Swing oder der "Nigger-Jazz" wurden auf der am 24. Mai 1938 eröffneten Ausstellung "Entartete Musik" ebenso rücksichtslos diffamiert wie der "Musikbolschewismus" von international bekannten Komponisten wie Hanns Eisler, Paul Hindemith oder Arnold Schönberg.

Source:
dmh.de/lemo
Deutsches Historisches Museum (Berlin)


Alfred Kubin, untitled

«Entartete Musik»
Broschüre zur Ausstellung
Hans Severus Ziegler
Völkischer Verlag, 1939

Moderne Musik wie der Swing oder der "Nigger-Jazz" wurden auf der am 24. Mai 1938 eröffneten Ausstellung "Entartete Musik" ebenso rücksichtslos diffamiert wie der "Musikbolschewismus" von international bekannten Komponisten wie Arnold Schönberg, Hanns Eisler oder Paul Hindemith.

Link: Entartete Musik - Musica degenerata



Links:

ENTARTETE KUNST IN MÜNCHEN - Das NS-Enteignungsgesetz gilt noch immer
von Nikolaus Bernau, «Berliner Zeitung», 6. November 2013

Su insideart (articolo di Francesco Angelucci)

Il tesoro degenerato, Jonathan Jones, «The Guardian» tradotto su «Internazionale» 1026, pp. 74-75

Degenerate Art, notes and a supplement to the film




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