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12 marzo 2014

La grande illusione




Un film di Jean Renoir. Con Jean Gabin, Pierre Fresnay, Erich von Stroheim, Dita Parlo, Marcel Dalio
Titolo originale: La grande illusion 
Genere: drammatico
Durata: 113'
Francia, 1937

«Da una parte ragazzi che giocano a fare i soldati, dall’altra soldati che giocano come ragazzi». Affacciati a una finestra che guarda sul cortile delle esercitazioni in un campo di prigionia in Germania, le voci dei soldati francesi s’insinuano a fatica nel rumore assordante della marcia delle giovani reclute tedesche. Jean Renoir rappresenta la prima guerra mondiale ma nulla o quasi di quel che accade in prima linea entra nel racconto. La sua è una guerra che si fa strada attraverso i bollettini affissi alle pareti del campo o si lascia interpretare nei gesti e nelle espressioni dei sorveglianti, la cui quotidianità scorre en face con quella dei prigionieri. Guerra di logoramento, dunque, non solo per chi è immerso nel fango delle trincee, ma anche per coloro che da troppo tempo se ne stanno rinchiusi, lontani dalla casa e dagli affetti. Nel frattempo si attinge a ogni risorsa per provare a evadere. Più che altro con la mente. Per una ragione o per l’altra qualsiasi tentativo di fuga infatti non tarda a rivelarsi inutile, e i prigionieri finiscono sempre per ritrovarsi attorno a un tavolo con la loro impotenza e tutta la stanchezza che il protrarsi degli eventi comporta. In questo perenne, a tratti perfino comico, inseguimento di ruoli degno del più riuscito "guardie e ladri", è racchiuso il fortissimo desiderio di normalità provato da tutti i protagonisti. Ogni trasgressione del regolamento apre delle crepe in cui affiora con prepotenza la voglia di tornare a essere uomini. La ribellione è principalmente nei confronti di ciò che tiene distanti gli uomini l’uno dall’altro. Di scene da incorniciare ve ne sono molte, e l’interpretazione di Jean Gabin (Maréchal), un gigante nel ruolo del pilota ferito che le prova tutte finché, insieme a un compagno, non gli riesce di scappare dalla fortezza in cui lo hanno confinato, è un contributo rilevante al capolavoro. L’aspetto ludico attraversa per intero il film, culminando nel concerto di flauti e pentole, orchestrato da un maestro d’eccezione, il capitano De Boëldieu, che vuole dare al suo buon Maréchal un’ultima possibilità per chiuderla una volta per tutte con la prigionia. La danza tra i costoni del perimetro del castello, nella quale De Boëldieu si esibisce, suonando il flauto davanti ai suoi carcerieri, è la metafora della fine di un mondo. Quando il direttore della fortezza, che con il capitano ha un rapporto di profondo rispetto, perché a lui lo accomuna l’appartenenza a quell’aristocrazia ormai avviata al tramonto, si vede costretto a sparargli, il colpo che esce dalla sua pistola è come se uccidesse anche lui. 
Prima di cadere esanime, De Boëldieu guarda un istante l’orologio: certezza che la fuga è riuscita, volontà di stabilire l’attimo della propria fine. Il corpo che si accascia nel buio è l’istante in cui la realtà, la tragedia che si consuma fuori, entra nel forzato isolamento dei soldati. Quella pallottola che squarcia la notte ricorda che nulla è accaduto per gioco.   
La grande illusione è un film sulla pace. Il titolo non sorprende: quanto a illusioni la prima guerra mondiale ne ha seppellite parecchie. Il conflitto secondo Renoir ha un volto grottesco, gli uomini sono principalmente prigionieri di se stessi, delle tante aberrazioni grandi e piccole che il tempo così sospeso, estromesso dal vivere di tutti i giorni, comporta. Con una scelta narrativa volutamente arretrata rispetto ai campi di battaglia, il regista illumina da una prospettiva fino a allora inedita l’amara ribalta della Grande Guerra. Va in parallelo, viene da dire in perfetta sintonia col messaggio dell’opera, la storia travagliata della sua conservazione. Premiato alla Mostra di Venezia del ’37, il film lascia freddi Hitler e Mussolini. Quest’ultimo pensa bene di vietarne la diffusione in Italia: ci vorranno dieci anni perché la censura fascista decada. Intanto i primi venti di guerra prendono forza sul continente. Con l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi (giugno del ’40), le bobine scompaiono dal laboratorio parigino che le custodiva per riapparire a Berlino. Niente di preciso si sa riguardo questa operazione: l’unico dato certo è che non deve essere stata semplice, perché parliamo di almeno quaranta casse di materiali. Ma l’odissea di Renoir non è affatto conclusa. Entrati a Berlino i sovietici si impadroniscono delle casse che migrano a Mosca. Non se ne saprà più nulla fino alla metà degli anni Sessanta, quando il ritorno del film in Francia viene barattato per un episodio di James Bond. Restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 2011, ne è finalmente riemerso in tutto il suo splendore narrativo. Quando è stato girato, è chiaro che nessuno poteva immaginare un destino così difficile e tanto profondamente legato alle lacerazioni continentali. Di fatto a ovest come a est l’impegno di Renoir contro la guerra sembra aver incantato anche coloro che, prigionieri dell’ideologia dei due blocchi, non se la sono sentita di distruggerlo.

(Di Claudia Ciardi)




In questo blog:

«L’allestimento documenta le atrocità che si sono consumate in ogni angolo del pianeta, da “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, indimenticabile narratore della Spagna dilaniata dalla guerra civile, alle primavere arabe. Dagli sguardi annientati dei passanti che scrutano il cielo durante gli allarmi aerei in una Bilbao sfinita dall’assedio (maggio del ’37) a quelli altrettanto persi dei soldati tedeschi che, anni dopo, si troveranno prigionieri in Normandia, sopravvissuti sì ma costretti a fare i conti con la propria sconfitta».

«Un libro passato forse senza troppo clamore nelle librerie italiane ma su cui vale la pena riaccendere l'attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l'autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia».

«Cinque frammenti che ci consegnano uno spaccato di vita di un grande interprete della Mitteleuropa. Un flâneur che con passo lucido e originale ha esplorato ambienti e ossessioni della propria epoca, a partire da una deflagrazione drammatica occorsa lungo il suo cammino: l’esperienza del primo conflitto mondiale».

Naufragio di guerra #0:
«Le aspettative legate all’ingresso in guerra dell’Italia furono spazzate via dall’alto tributo di sangue versato dalla nazione (5.200.000 gli italiani arruolati, di cui 650.000 i caduti). Le dodici battaglie sull’Isonzo (qui, sui due fronti, si contarono 250.000 morti e 100.000 dispersi, cioè tre volte Hiroshima) non passarono senza conseguenze, gettando discredito sul comando e le alte cariche dell’esercito. Ne scaturirono inchieste e strascichi polemici che si protrassero fino al ’25, l’anno della vergognosa ‘riabilitazione’, quando Mussolini nominò Cadorna maresciallo d’Italia».



6 dicembre 2013

Entartete Kunst


La questione non è banale. A entrare in gioco, infatti, nella definizione formulata dai nazisti per bollare negativamente le opere dell’avanguardia sono sia l’idea di arte che il regime intendeva divulgare sia il processo, a ciò strettamente legato, di elaborazione di una damnatio memoriae che, se osservato più da vicino, si scopre estremamente ambiguo.
Il recente ritrovamento a Monaco, nella casa di un insospettabile, riservato cittadino tedesco, di millecinquecento quadri “dannati” dal nazismo che in molti avevano dato per distrutti, sollecita infatti una riflessione sui confini tra ciò che veniva apertamente disprezzato all’epoca della dittatura e quel che invece era considerato rappresentativo di una autenticità culturale tedesca oggetto di infaticabile propaganda. Ed è proprio qui che si cela, senza neanche troppi espedienti, quanto indubbiamente apparirà come una contraddizione ma che, se si parte dal presupposto che il regime nazista non poteva che essere per sua stessa natura un coacervo di incoerenze, non ci sembrerà cosa poi tanto difficile da digerire. Del resto, molti (più o meno tutti) gli aspetti che una dittatura sostiene di rigettare, a difesa della propria integrità morale e di un codice d’onore che viene offerto come unica soluzione possibile ai mali e alle corruttele dei propri avversari politici, sono già dentro alla sua messianica alternativa, prima ancora che abbia ricevuto la definitiva consacrazione. L’abuso di potere e il grado di immoralità che caratterizzarono l’operato dei gerarchi fin dalla prima ora della loro investitura, è cosa più che mai nota. Eppure il consenso si reggeva interamente proprio sull’annuncio di una differenza etica e sostanziale con i rivali.
La vicenda di Hildebrand Gurlitt, padre di Cornelius, l’uomo fermato una sera di settembre del 2010 alla frontiera Svizzera dalla polizia che, dopo averlo pescato senza documenti di identità, ha disposto un mandato di perquisizione nel suo appartamento monacense, luogo del ritrovamento delle opere d’arte ‘disperse’, è secondo me emblematica dei numerosi e complessi intrecci che hanno unito elementi di spicco del partito nazionalsocialista a figure poco note, se non del tutto ignote, faccendieri annidati nelle numerose zone d’ombra del potere, cui finora si è data scarsissima rilevanza. Gurlitt padre, per metà ebreo, venne selezionato dagli uomini del regime per le sue competenze in ambito artistico. A lui fu assegnato il compito di incettare le opere ritenute degeneri e, come è facilmente immaginabile, il suo lavoro si rivelò essenziale per l’allestimento della famosa mostra «Entartete Kunst», campionario avanguardista esibito a Monaco nel 1937, con l’intento dichiarato di metterlo in ridicolo.   
Hitler aveva una vera e propria ossessione per l’arte, un rapporto di amore-odio che risale agli anni in cui frequentava senza successo l’accademia di Vienna. Questa compulsione alla ricerca dell’oggetto d’arte lo accompagnò per tutta la vita e fu al centro di clamorose sparizioni durante la dittatura. Diversi capolavori dati per distrutti, tra cui la Danae di Tiziano e il Polittico dell’agnello mistico di van Eyck, sono stati ritrovati in miniere e tunnel di montagna. Mancano tuttora all’appello, tra gli altri, quattordici lavori di Gustav Klimt e Il pittore per la sua strada al lavoro di van Gogh. Si potrebbe ipotizzare che questi quadri siano stati venduti, finiti nelle mani di qualche collezionista che, magari già da tempo sulle tracce della refurtiva, ha atteso gli anni confusi della guerra per combinare qualche affare. Alcuni degli stessi dipinti della «Entartete Kunst» sono stati venduti all’estero, mentre si pensava che fossero stati distrutti, grazie anche alla versione fornita da Gurlitt, il quale a più riprese non aveva mancato di dire che l’intera collezione era andata perduta nel bombardamento di Dresda.
Mentre gli alleati si preoccupavano di recuperare le grandi opere ‘classiche’, pochi pensarono alle sorti degli eccentrici frutti delle avanguardie europee, dando per scontato che il regime se ne fosse sbarazzato da tempo. Il rinvenimento in casa dei Gurlitt testimonia invece che i nazisti quantomeno avevano interesse a conservare i loro ‘figli’ degenerati, se non altro perché avrebbero potuto scambiarli con moneta sonante. Un investimento che andava preservato con cura e che necessitava di uno zelante custode.
Ma c’è di più. Al di là delle convenienze materiali che hanno messo al riparo una parte cospicua delle opere d’arte censurate, vi è indubbiamente una inconfessata fascinazione subita dagli uomini del regime, che senz’altro non potevano restare indifferenti di fronte alle somiglianze tra certe forme espressioniste e l’incubo nazionalsocialista, conservatore e rassicurante solo nei proclami ma modernamente affilato e terribilmente lugubre.
Altro tabù che si infrange, con buona pace di chi ama incasellare i fatti storici nell’ambiente asettico delle rappresentazioni ideologiche. Monaco di Baviera, nel progetto hitleriano, doveva essere la capitale dell’arte. Per questo il Führer vi fece erigere la Casa dell’arte tedesca. Questo posto avrebbe dovuto raccogliere i capolavori depositari del vero spirito tedesco. Nota, la mostra degenerata si tiene nel 1937. La Casa dell’arte è inaugurata l’anno successivo. Le due arti sembrano viaggiare a braccetto e osservarsi quasi in un gioco di specchi. Qualcuno, in questa strana e tormentata gara di mimesi, si è spinto anche oltre, sostenendo che la mostra del ’37 è una delle migliori che siano state dedicate all’avanguardia. E non vi è ragione di scaldarsi a provare il contrario. L’avanguardia intendeva rompere con una maniera di rappresentare e recepire l’arte, voleva destabilizzare, distruggere il concetto di arte dalle fondamenta, per rendere la creatività una cosa nuovamente viva, un tutto magmatico che potesse essere riplasmato. Perseguiva queste idee con ogni mezzo e per questo suscitò reazioni e sentimenti contrastanti: sberleffo, ironia, acredine, aggressività. La vicenda di Klimt, oggetto di violente polemiche nel corso della realizzazione dei pannelli decorativi per l’Aula magna dell’Università di Vienna, è esemplare. L’allestimento nazista del ’37 nel suo mood provocatorio e violento finisce paradossalmente per essere una scena quasi ideale e celebrativa della rottura che le avanguardie andavano significando.    
Infine, la stessa Casa dell’arte a oggi risulta tutt’altro che antiquata e superata. Questo imponente tempio neoclassico, progettato da Paul Ludwig Troost, trasuda tutte le moderne, intimidatorie ambizioni della dittatura. Anche qui, del tradizionale ottocentesco idillio tedesco, sfumato di bucolico romanticismo, proprio non vi è traccia.     
Insomma, volendo superare i tanti luoghi comuni sul rapporto arte-nazismo si avrebbe la possibilità di leggere più a fondo nei vizi del regime e analizzarne la psicologia in maniera più obiettiva. Oltre, sul piano pratico, ad aprire delle piste che potrebbero portarci a rinvenire altri capolavori scomparsi.
Ma forse si ha paura, per l’appunto, di riconoscere nello spietato specchio della storia più di un paio di riflessi che ci avvicinano oltre il limite di sicurezza alla barbarie, verso cui purtroppo non si riesce ancora a guardare con la dovuta onestà intellettuale, cosa che ci renderebbe anche meno vulnerabili di fronte al riproporsi di certe rischiose similitudini e assonanze nelle nostre società.

(Di Claudia Ciardi)   



«arte degenerata»
espressione con cui in Germania venne bollata l’arte moderna, condannata dalla propaganda nazionalsocialista. La condanna teorica, in nome della difesa della classicità, dell’ordine e dei valori della razza, fu accompagnata da una violenta campagna denigratoria e da misure vessatorie, che si inasprirono dopo la conquista del potere da parte di Hitler. In questo clima il Bauhaus, già obbligato a trasferirsi da Weimar a Dessau e da qui a Berlino, fu definitivamente soppresso nel 1933. Gli artisti non graditi al regime furono allontanati da incarichi pubblici, perseguitati, costretti all’esilio. Della lista dei «degenerati» facevano parte O. Dix, G. Grosz, K. Kollwitz, e altri compromessi con organizzazioni di sinistra; E. Barlach, M. Beckmann, E.L. Kirchner, A. Macke, F. Marc, E. Nolde, M. Pechstein; gli architetti W. Gropius, L. Hilberseimer, E. Mendelsohn, L. Mies van der Rohe e molti altri. Per ordine di Goebbels le loro opere furono ritirate dai musei, insieme con quelle di P. Cézanne, P. Gauguin, H. Matisse, G. Braque, P. Picasso, V. van Gogh, J. Ensor, E. Munch, P. Klee, V. Kandinskij, O. Kokoschka, L. Feininger, A. Archipenko e altri stranieri. Esposte in una mostra esemplare di Entartete Kunst a Monaco (1937), parte di quelle opere furono vendute in una pubblica asta a Lucerna.

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Die Ausstellung «Entartete Kunst» wurde am 19. Juli 1937 in München eröffnet und zeigte 650 konfiszierte Kunstwerke aus 32 deutschen Museen. Bis April 1941 wanderte sie in zwölf weitere Städte. Sie zog über 3 Millionen Besucher an. Die Ausstellung wurde von Joseph Goebbels initiiert und von Adolf Ziegler (1892-1959), dem Präsidenten der Reichskammer der bildenden Künste, geleitet. Gleichzeitig setzte mit der Beschlagnahme von insgesamt rund 16.000 modernen Kunstwerken, die zum Teil ins Ausland verkauft oder zerstört wurden, die "Säuberung" der deutschen Kunstsammlungen ein. Berufsverbote für Künstler und Museumsleute, die moderne Kunst angekauft hatten, oder Hochschullehrer gab es bereits unmittelbar nach der Machtübernahme der Nationalsozialisten seit 1933.
Als "Entartete Kunst" galten im NS-Regime alle Kunstwerke und kulturellen Strömungen, die mit dem Kunstverständnis und dem Schönheitsideal der Nationalsozialisten nicht in Einklang zu bringen waren: Expressionismus, Impressionismus, Dadaismus, Neue Sachlichkeit, Surrealismus, Kubismus oder Fauvismus. Als "entartet" galten u.a. die Werke von George Grosz, Ernst Ludwig Kirchner, Max Ernst, Karl Schmidt-Rottluff, Max Pechstein, Paul Klee, Otto Griebel oder Ernst Barlach. In der Ausstellung "Entartete Kunst" wurden ihre Exponate mit Zeichnungen von geistig Behinderten gleichgesetzt und mit Photos verkrüppelter Menschen kombiniert, die bei den Besuchern Abscheu und Beklemmungen erregen sollten. So sollte der Kunstbegriff der avantgardistischen Moderne ad absurdum geführt und moderne Kunst als "entartet" und als Verfallserscheinung verstanden werden. Diese Präsentation "kranker", "jüdisch-bolschewistischer" Kunst diente auch zur Legitimierung der Verfolgung "rassisch Minderwertiger" und politischer Gegner. Parallel zur "Entarteten Kunst" zeigten die Nationalsozialisten in der "Großen Deutschen Kunstausstellung" im Münchner "Haus der Deutschen Kunst", was man unter "deutscher" Kunst zu verstehen habe.

Der Vernichtungsangriff auf die Moderne und ihre Protagonisten betraf alle Sparten der Kultur wie Literatur, Film, Theater, Architektur oder Musik. Moderne Musik wie der Swing oder der "Nigger-Jazz" wurden auf der am 24. Mai 1938 eröffneten Ausstellung "Entartete Musik" ebenso rücksichtslos diffamiert wie der "Musikbolschewismus" von international bekannten Komponisten wie Hanns Eisler, Paul Hindemith oder Arnold Schönberg.

Source:
dmh.de/lemo
Deutsches Historisches Museum (Berlin)


Alfred Kubin, untitled

«Entartete Musik»
Broschüre zur Ausstellung
Hans Severus Ziegler
Völkischer Verlag, 1939

Moderne Musik wie der Swing oder der "Nigger-Jazz" wurden auf der am 24. Mai 1938 eröffneten Ausstellung "Entartete Musik" ebenso rücksichtslos diffamiert wie der "Musikbolschewismus" von international bekannten Komponisten wie Arnold Schönberg, Hanns Eisler oder Paul Hindemith.

Link: Entartete Musik - Musica degenerata



Links:

ENTARTETE KUNST IN MÜNCHEN - Das NS-Enteignungsgesetz gilt noch immer
von Nikolaus Bernau, «Berliner Zeitung», 6. November 2013

Su insideart (articolo di Francesco Angelucci)

Il tesoro degenerato, Jonathan Jones, «The Guardian» tradotto su «Internazionale» 1026, pp. 74-75

Degenerate Art, notes and a supplement to the film




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